All I can do is try

capitolo 1

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  1. Lady1990
     
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    “Sii mio, Jason.”
    “Eh?!” gracchiò allibito l’interpellato.
    Era indeciso se arrossire come un semaforo o impallidire come un fantasma. Quella era una dichiarazione, giusto? Giusto?! Benché assurdamente possessiva e arrogante, ma pur sempre una dichiarazione era.
    Porca…
    Jason si sentiva troppo debole per compiere anche il minimo movimento, ma avrebbe tanto voluto districarsi dall’abbraccio intossicante di Rinaldi, separarsi dai suoi muscoli gonfi e torniti come quelli di una scultura greca e scacciare l’aroma dolce di dopobarba che gli impregnava anche i vestiti. Avvertiva i pensieri vorticare come impazziti, un tornado di domande, considerazioni, ricordi che non gli davano tregua; avrebbe tanto desiderato spegnere il cervello, staccare la spina e mettersi in standby per un po’, almeno finché non avesse fatto il punto della situazione, che definire ‘spinosa’ era un mero eufemismo. Da un lato aveva un ex che lo perseguitava peggio di uno stalker maniaco e violento, che fino a qualche ora prima si era divertito ad abusare del suo corpo, dall’altro un mafioso che, a quanto pareva, si era invaghito di lui ed evidentemente intendeva controllare la sua vita, neanche fossero sposati.
    Dunque, chi scegliere?
    Il normale ma sadico ex oppure il criminale ricercato ma dal tocco così gentile da farlo sciogliere?
    Era superfluo specificare che il nuovo triangolo che si era venuto a creare accidentalmente non gli andava affatto a genio. Però, innanzitutto era meglio essere onesti sin da subito, onde evitare futuri equivoci dagli imprevedibili risvolti - che ne sapeva Jason, infatti, in che maniera avrebbe reagito Rinaldi di fronte a un suo rifiuto? Magari si sarebbe mostrato crudele come Charles.
    Si schiarì la voce arrochita e proferì: “Ehm… signore…”
    “Chiamami Dominic.” lo interruppe con dolcezza l’altro, sorridendo accomodante.
    “Ehm, ok. Dominic, mi scusi, ma-”
    “E dammi del tu.”
    Jason sospirò, ma si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo. “Dominic, devo rifiutare la tua offerta.”
    “Perché?”
    “Perché non sono un oggetto, di conseguenza non appartengo a nessuno al di fuori di me stesso.”
    Sbagliato. Il suo cuore, e quindi il suo intero essere, apparteneva ad Alan, tuttavia non gli sembrò il caso di rivelare ad uno sconosciuto una cosa così intima.
    “Da un punto di vista filosofico è vero, ma cosa ci guadagneresti? Io posso fornirti una costante protezione, posso regalarti una vita agiata e…”
    “E in cambio dovrei diventare una sorta di… mantenuto? Una puttana, in sostanza.” sibilò alterato il ragazzino, stupendosi nuovamente di quanto gli uomini con cui si era trovato a che fare, tranne Alan, si ostinassero nell’avanzare egoistiche pretese, come ad esempio trattarlo da animaletto da compagnia, quasi fosse la cosa più naturale del mondo. Lui non era una dannata proprietà, era un individuo capace di intendere e volere, cavolo! Perché nessuno lo capiva?
    “Non ti costringerei mai a condividere il mio letto, Jason.” lo rimbeccò in tono grave il rosso. “Certo, non sono uno stinco di santo e spesso, lo ammetto, ho fatto leva sul mio status per ottenere qualche avventura con persone che mi intrigavano o stuzzicavano il mio appetito. Però con te, lo giuro, non mi azzarderei per tutto l’oro della terra.”
    Il moretto lo fissò colpito, poiché pareva sincero. Allora gli risultava incomprensibile quel “Sii mio” di prima.
    “Cosa vuoi?”
    Rinaldi ghignò. “Semplice: non ti obbligherò a intraprendere una relazione di sesso con me, ma ti proibisco di frequentare altri.”
    “Ah! Ecco, la fregatura. Che senso ha?”
    “Mmm…” il mafioso fece finta di riflettere seriamente, poi incatenò il suo sguardo a quello di Jason. “Hai due opzioni: la prima è che decidi di diventare mio completamente - e ti garantisco che non te ne farei pentire, la seconda è fare voto di celibato a vita come i preti.”
    “Ergo, se non con te, niente sesso?”
    “Esatto.” il ghigno si ampliò.
    Il giovane assunse un’espressione corrucciata e sconsolata. “Perché io?! Perché a me?” sbottò a un tratto. “Con tutti i bei ragazzi che ci sono in giro, perché una nullità come me? Potresti avere di meglio, potresti avere chi vuoi!”
    “Io voglio te.” rispose con un’ovvietà disarmante Rinaldi.
    “Per quale insensata ragione? Sentiamo.”
    L’uomo si rilassò e prese ad accarezzare assorto la chioma liscia e corvina del più piccolo. “Non lo so, ad essere franco. So solo che ti voglio, ti voglio da mesi, e non riesco a togliermi dalla testa il tuo viso e i tuoi bellissimi occhi.”
    “Questi discorsi da seduttore incallito valli a rivolgere a qualcun altro, con me non attecchiscono.” borbottò caustico Jason.
    “Ma non mi stai respingendo…” disse serafico di rimando.
    “Tch! Solo perché sono esausto. Vorrei vedere te, se fossi stato appena stuprato.”
    Rinaldi rafforzò l’abbraccio e si adombrò. Era forse ira, quella che deformava i suoi lineamenti, rendendo le rughe sulla fronte più marcate?
    “Mi dispiace.” esalò, dandogli un leggero bacio sulla fronte.
    “Non ti devi scusare, non è stata colpa tua.” replicò il diciassettenne, un sopracciglio inarcato e l’aria perplessa.
    “Sì, ma… avevo intuito. Sarei dovuto intervenire prima, invece non ho ascoltato il mio istinto e ho atteso troppo. Se mi fossi mosso in tempo, sarei riuscito a prevenire l’accaduto.”
    “E’ inutile piangere sul latte versato, sai? Non importa, Charles si è sempre comportato così, non è stato uno shock.”
    “Mi stai dicendo che ti va bene?!” domandò incredulo.
    “No, cazzo, no! Però psicologicamente sto… normale. Chiaro, avrei preferito che non l’avesse fatto, ma… è successo. Amen.” commentò sbrigativo, non gli andava di parlarne adesso.
    “Perciò, se ora io ti violentassi, a te non farebbe né caldo né freddo?” indagò impassibile Rinaldi.
    “Se tu tentassi di saltarmi addosso e portassi a termine ciò che ti sei prefissato, potrai scordarti in eterno una qualunque parvenza di affetto o gratitudine da parte mia. Vuoi che diventi tuo, no? Ok, il mio corpo potrai anche averlo, ma non otterresti altro.”
    “Potrei accontentarmi, non credi?”
    “Perché spingersi a tanto per una scopata? Venire tutte le sere al locale, lanciarmi occhiate concupiscenti, salvarmi e coccolarmi dopo una violenza…”
    Jason sfoggiò per la prima volta un sorrisetto sornione, che spiazzò e sorprese l’altro.
    “E’ vero. È maledettamente vero.” sospirò il mafioso, sconfitto.
    Tuttavia, qualche secondo più tardi fu il suo turno di stirare le labbra in un ghigno compiaciuto.
    “Oh… allora eri cosciente della mia presenza assidua, eh? Non mi hai mai perso di vista, eh?”
    Il moretto boccheggiò e si imporporò lievemente, abbassando gli occhi per la vergogna. “Non farti strane idee.” bofonchiò. “Era quasi impossibile rimanere indifferenti ai tuoi sguardi infuocati e alquanto palesi.”
    “Mmm…” Rinaldi sorrise, stavolta trionfante. “Ho qualche chance?” aggiunse gongolando.
    “No!”
    “Io penso di sì.”
    “No! No, no e no!” Jason scosse la testa con veemenza.
    “Uh uh!” ridacchiò il mafioso. “Sei adorabile.” gli stampò l’ennesimo bacio sulla tempia, fresca a causa del panno umido.
    “Sono serio.”
    “Per quale motivo non avrei chance?”
    “Perché…” si bloccò.
    Doveva vuotare il sacco? Cosa rischiava? Non sapeva se Rinaldi era una persona equilibrata o uno psicopatico, ma cos’altro poteva dire per distoglierlo dai suoi intenti?
    “Ecco… io sono già innamorato di qualcuno.” confessò senza guardarlo.
    Rinaldi si ghiacciò sul posto, muto e immobile come una statua. Perse il sorriso e la sua faccia si trasformò in una maschera di granito. “Di chi?”
    “Non lo conosci.”
    “Il teppistello di poco fa non c’entra?”
    “No, quello lo usavo come ripiego.”
    Il rosso lo scrutò sussiegoso. “Sei capace di fare questo? Ti credevo più innocente e puro.”
    “Non lo sono affatto, Dominic. Ne ho passate tante, anche se sono giovane. Sono sporco, sudicio fino al midollo e se, come asserisci, ti interesso, significa che sei sporco anche tu o che hai dei gusti assai discutibili.”
    “Di chi sei innamorato?” reiterò agguerrito.
    “Un amico, non ti serve conoscere ulteriori dettagli.”
    “E questo amico dov’è?”
    “A sbavare dietro ad un altro.” mormorò con mestizia, giocando nervosamente con le dita.
    “Un amore non corrisposto.” stirò le labbra, enigmatico. “E per lenire il dolore del rifiuto, ti fai pestare e stuprare da un imbecille pieno di piercing, immagino.”
    “Si è presentato al momento opportuno, ho solo colto la palla al balzo.”
    Rinaldi ponderò per un paio di secondi, poi, dosando le parole, dichiarò: “Mi pare di capire che sei un masochista e un autolesionista.”
    “Tieni per te i tuoi giudizi, non sai niente di me. Sono libero di fare ciò che desidero con il mio corpo e la mia vita.”
    “Se non fossi intervenuto a salvarti da quel tipo, ti sarebbe andato bene comunque?”
    “Non pretendevo certo di incontrare la brutta copia del principe azzurro!” ridacchiò il ragazzo privo di allegria. “Me la sarei cavata, come sempre. Sono indipendente, autonomo e le tue azioni non erano richieste. In più, detesto sentirmi in debito con chicchessia e, se ti seguissi al tuo club, sarei costretto a sottostare alle tue regole, a obbedire ai tuoi ordini. E, in tutta sincerità, ne ho le scatole piene di gente che mi impone la propria volontà.”
    “Avrei preferito un banalissimo ‘grazie’, Jason.” lo redarguì paziente il più grande. “Ma, per tua somma sfortuna, non mi arrendo, sono testardo e ciò che voglio lo ottengo, non importa i mezzi che devo usare. Non che assumermi il ruolo di sostituto mi esalti, ma potrei prendere il posto di quel Charles, che ne pensi?”
    Jason si immerse ancora in quelle iridi color cioccolato, qualcosa nel cuore che si scaldava e i battiti che aumentavano. Davvero Rinaldi era disposto a farsi trattare da rimpiazzo pur di averlo? Avrebbe accantonato il suo orgoglio per fungere da valvola di sfogo del piccolo? Perché? Non ci si riduce così per mero interesse fisico, non ci si spinge a tal punto per ottenere una maratona fra le lenzuola.
    Sorrise al maggiore con dolcezza e divertimento, scioccandolo di nuovo. “Devo dedurre che pure tu sei masochista?”
    “Uno del peggior specie.” rispose a tono il criminale e, gettato il panno da una parte con noncuranza, strusciò la fronte su quella di Jason, le palpebre chiuse e i tratti del viso distesi. “Credo proprio che andremo d’accordo.”
    “Non ti montare…”
    “Non puoi impedirmelo.”
    Il diciassettenne emise un risolino e rilassò i muscoli contratti, abbandonandosi tra le braccia del mafioso. Stava commettendo un errore madornale, ne era consapevole. Non aveva idea di dove sarebbe andato a cacciarsi, ma come poteva resistere se il profumo che la pelle di Rinaldi sprigionava era così buono? In cuor suo, continuava a sentirsi in colpa nei confronti di Alan, sebbene tale emozione fosse assolutamente ingiustificata, dato che il coetaneo non lo calcolava di striscio e non lo avrebbe mai fatto; tuttavia, quel malessere gli pungeva lo sterno come uno spillo molesto, impedendo alle numerose ferite che gli erano state inflitte di rimarginarsi o perlomeno cessare di sanguinare.
    Doveva dimenticare Alan, altrimenti non avrebbe mai cominciato a ‘vivere’ una vita che poteva etichettare come sua in esclusiva; doveva cancellarlo per poter andare avanti, per poter procedere sul sentiero impervio e ammantato di scura nebbia che era la sua misera esistenza; doveva allontanarlo dai suoi pensieri e dalla sua anima, solo così forse, un giorno, sarebbe tornato a respirare.
    Eppure, se solo considerava di farlo, il suo cuore piangeva e riversava fuori il dolore atroce attraverso gli occhi, ostacolandolo nell’impresa. Si sentiva mancare l’ossigeno, se immaginava di non vedere mai più Alan, di non parlarci, di non toccarlo. Si sentiva morire soffocato, affogato.
    Era malato e non c’era una cura per alleviare la sofferenza.
    “Sarai mio, Jason.” sussurrò al suo orecchio Rinaldi, riportandolo con i piedi per terra. “Adoro le sfide.”
    Quanto sono stronzo…
    Ma ormai non poteva più ritrattare e magari un diversivo non gli avrebbe fatto altro che bene. Sorrise amaro: adesso chi era più spregevole? Alan, che non aveva rispetto per i sentimenti del migliore amico, o Jason, che giocava con quelli del boss per dimenticare Alan?

    Dopo un paio di giorni spesi a radunare il coraggio e a cercare di ingoiare il groppo amaro che gli si era bloccato in gola dall’appuntamento, Alan si era finalmente risolto a tornare da Raphael per metterlo al corrente che non aveva la minima intenzione di abbandonare la sfida. Nonostante le mille simulazioni davanti allo specchio e i tentativi di prefigurarsi tutte le possibili reazioni del biondo, il giovane, camminando a passo spedito verso la biblioteca comunale, continuava ad essere pervaso da un’enorme agitazione. Ma non era la tipica adrenalina che ci travolge quando si sta per affrontare qualcosa che ci arrecherà soddisfazione, quanto piuttosto quella che ti attanaglia le viscere quando sei seduto sul vagoncino di una montagna russa mentre sai che alcune ruote del mezzo sono difettose, e che quindi potrebbe deragliare in ogni momento sbalzandoti fuori e facendoti sfracellare al suolo. Non era una bella sensazione.
    O, al contrario, poteva anche concludersi tutto senza inghippi, Alan sarebbe arrivato sano e salvo alla fine della corsa e avrebbe riso con leggerezza della propria espressione terrorizzata immortalata nella foto ricordo.
    Il diciottenne sbuffò divertito, immerso nelle proprie labirintiche e ossessive elucubrazioni: se bisognava correre un rischio, lui non era indubbiamente il genere di persona che declinava l’invito. La vita stessa è un rischio perenne e viverla è paragonabile alla più entusiasmante avventura dell’universo, perché mai rimanere fermi e lasciare che essa passi e si consumi senza afferrarla e plasmarla secondo i più reconditi e audaci desideri?
    Gli serviva solamente una possibilità, sfumata la quale si sarebbe rassegnato e avrebbe provato a volgere lo sguardo altrove. L’esistenza era troppo breve per perdere anche l’attimo più fugace.
    Con rinnovata determinazione, puntò gli occhi dritti davanti a sé, sul suo obiettivo, e niente lo avrebbe convinto a buttare le armi e sventolare bandiera bianca prima di aver dato il tutto per tutto.
    Erano le sette e mezzo di sera e, stando alle sue supposizioni, il turno di Raphael sarebbe dovuto terminare di lì a qualche minuto. Non volle entrare, credendo fosse saggio non disturbarlo mentre lavorava, ma si appostò accanto alle porte automatiche, nascosto alla sua vista per non metterlo in allarme o indurlo alla fuga. Quanto era caduto in basso, per amore, addirittura iniziare a fare lo stalker. Probabilmente era uscito di senno, o qualcosa di simile.
    Attese e poco dopo sbucò l’inserviente inquietante che aveva conosciuto giorni addietro, con in mano un grosso sacco della spazzatura. Costui lo notò e si bloccò genuinamente stupito, per poi sciogliersi in un sorriso gioviale.
    “Oh, il tenero virgulto!”
    Alan arrossì e si grattò la nuca impacciato. “Eh eh, sì, sono io.”
    “Cerchi mastro Raphael?”
    “Sì, ecco, p-però non gli dica che sono qui, per favore.” bisbigliò ansioso.
    Il signor Jills gli ammiccò complice e se ne andò fischiettando distrattamente un motivetto allegro.
    Il rosso deglutì e si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte con il polso non costretto dal gesso. Dio, si era stufato, non vedeva l’ora di andare al pronto soccorso per farselo rimuovere, mancava solo una settimana.
    Dopo circa dieci minuti, Raphael varcò la soglia della biblioteca, l’aria stanca e un po’ emaciata. Il suo abbigliamento era semplice e modesto, costituito da un paio di mocassini marroni, dei jeans chiari e una camicia bianca portata fuori dalla cintura. Su una spalla pendeva una borsa a tracolla e sul naso indossava i suoi immancabili occhiali dalla montatura rettangolare. Tutto in lui gridava che era una persona ordinaria, comune a milioni di altre, eppure c’era qualcosa in lui che lo faceva emergere, qualcosa di irresistibile, indescrivibilmente bello, affascinante, che ispirava un amore e un’attrazione subitanei nel prossimo. Ed Alan si era riscoperto vittima, una delle tante, di questa sua caratteristica.
    Azzerò le paure e, impulsivamente, si sporse per intrecciare le dita della mano con le sue, smanioso di contatto.
    Raphael si pietrificò e girò di scatto la testa verso il ragazzo, sgranando gli occhi sgomento. Non poté esimersi dall’insultare nella mente l’infido e bastardo destino, che gli aveva giocato l’ennesimo tiro mancino. Infatti, per tutto il giorno i propri pensieri erano volati a lui per un verso o per un altro e, guarda caso, ora era lì, a mezzo metro di distanza.
    Alan gli sorrise timido e strinse la presa.
    “Cosa… cosa ci fai qui?” domandò basito il biondo.
    “Ti prego, vorrei parlare con te.”
    Il trentaquattrenne, anche se era conscio che avrebbe dovuto, non si divincolò e non ritrasse la mano, ancora troppo sbigottito per elaborare un pensiero logico. Inoltre, ora che ce lo aveva davanti, scoprì che quel moccioso gli era mancato, dato il sollievo che lo aveva pervaso appena aveva riconosciuto il colore dei suoi capelli scarmigliati.
    Voleva parlare? Sì, non potevano più rimandare e Raphael desiderava anche scusarsi per come lo aveva trattato all’appuntamento, si rammaricava di aver perduto le staffe in quel modo. Annuì e gli fece cenno di seguirlo, le loro mani ancora unite.
    Alan era paonazzo, immensamente felice, e il suo cuore scalpitava come un forsennato, accelerandogli il respiro.
    Il biondo lo condusse in un parchetto nei pressi e i due si sedettero su una panchina vuota, situata sotto una quercia e abbastanza discosta dalla gente che passeggiava o portava a spasso il cane.
    “S-senti…” esordì il diciottenne.
    “No, prima io.” si intromise Raphael sollevando la mano libera, poiché ancora non avevano sciolto il contatto, “Ti chiedo scusa per averti offeso ed essermi arrabbiato, quella volta. Non volevo, mi dispiace.”
    “Oh, dai, non fa nulla.”
    “Invece ti ho ferito, lo so. Scusa.”
    “Ok, ti perdono.” ridacchiò Alan, a disagio.
    “Ciò che intendevo è che vorrei evitare di rivederti, ma non perché ti odio o perché mi hai fatto un torto.”
    “Allora perché?” chiese l’altro con un tuffo al petto. “E’ assurdo che mi rifiuti così se non ti ho fatto niente, ne convieni anche tu, spero. Esigo una valida ragione.” si impuntò imbronciandosi. “Non ti piaccio? Sei etero?”
    Raphael represse una risata e scosse il capo. “No, Alan. Tu mi piaci, molto, ma i motivi mi sono ignoti. Cioè, penso di conoscerli, ma non ne sono sicuro. E questi motivi potrebbero non esserti graditi.”
    “Spiegami, cazzo!” sbottò spazientito.
    Il maggiore lo osservò incredulo, poi rilassò la schiena sulla panchina. “Le ragioni affondano nel mio passato. Io…” si mordicchiò con nervosismo il labbro inferiore e sospirò pesantemente. “Io sono stato sposato.”
    Alan gelò e lo scrutò inebetito. “Sposato? Sei sposato?!” esclamò allibito, ritraendo la mano come se si fosse ustionato. “Ma… ma non porti la fede!”
    Raphael, ad un tratto, si trovava di fronte a un dilemma: se avesse dato adito al fraintendimento e lasciato credere ad Alan di essere effettivamente sposato e di aver una consorte al suo fianco, il giovane sarebbe scomparso liberandolo dai crucci esistenziali che lo assalivano sempre più spesso, di recente; di contro, se invece gli avesse illustrato tutte le dinamiche, aveva la sicurezza che non avrebbe demorso, avrebbe insistito sino a prenderlo per sfinimento. Ah, o ancora avrebbe calpestato e distrutto il suo ego.
    A quel punto la domanda era: cosa voleva fare Raphael?
    Tutto era nelle sue mani adesso.
    “Alan, io…”
    Perché il cuore doleva così tanto? Perché quello che si accingeva a fare gli provocava un dolore talmente lancinante da spingerlo alle lacrime? Raphael desiderava avere indietro Alicia, ma questo sogno non poteva realizzarsi per intero; c’era Alan, però, che, grazie alla sua somiglianza con lei, avrebbe potuto lenire la sua sofferenza e farsi usare come sostituto della moglie, almeno finché il biondo non avesse superato il distacco.
    Dio, era un essere abietto e meschino, provava ripugnanza per se stesso.
    Razionalmente, sapeva che sarebbe stato meglio troncare quella pseudo relazione sul nascere, poiché si sarebbe avvelenata col tempo, ma l’anima anelava alla vicinanza di quel ragazzino, la bramava come l’aria.
    “Io… ero sposato.” proferì di getto, accorgendosi troppo tardi di quanto detto, totalmente rapito dalle iridi smeraldine dell’adolescente.
    “Eri? Sei divorziato?” Alan tornò calmo e bendisposto ad ascoltare.
    “Mia moglie”, si inumidì le labbra secche, “è morta. Tre anni fa.”
    “Oh… mi dispiace, io… non immaginavo.”
    Questo cambiava drasticamente le cose. Alan non aveva preventivato un risvolto del genere, tuttavia ora comprendeva l’atteggiamento schivo dell’altro, il suo rifiuto.
    “E avevo anche una figlia.”
    “Anche lei è…?”
    “Sì.”
    Il rosso, improvvisamente, avvertì gli occhi pizzicargli e subito dopo le lacrime gli rigarono il viso paffuto. “Mi dispiace… mi dispiace tanto, scusa… scusami, ti prego…”
    Raphael si immobilizzò. “Perché piangi?” mormorò con dolcezza.
    “Perché… è triste…” tirò su col naso e si asciugò la faccia con la mano. “Ora capisco, io… tu la ami ancora, vero?”
    “Sì.” ammise il più grande, intenerito e commosso da tutta quella partecipazione emotiva, da parte di un estraneo per giunta, che mai aveva incontrato Alicia e Maggy.
    “Quindi non ho possibilità…” sussurrò afflitto, lo sguardo basso e lucido. Tutte le speranze si erano disintegrate in un soffio, come uno specchio che va in frantumi a causa di un colpo eccessivamente violento, e inevitabilmente si sentì annientato, un contenitore vuoto e silenzioso. “Va bene, questa è una ragione valida e la accetto. Non ti tormenterò più, te lo giuro, mi limiterò a salutarti qualora mi imbattessi in te in giro. Veramente, io… perdonami, sono un coglione, non avrei mai immaginato che ci fosse sotto una cosa così… grossa.”
    “Alan, Alan, frena! Frena.” il biondo strinse la mano sana del rosso tra le sue e cercò i suoi occhi. “Ti sei già scordato di quello che ho detto? Tu mi piaci.”
    “Eh?! Ma… Aaah! Smettila di confondermi! Cosa c’entra la morte di tua moglie col fatto che ti piaccio? Come possono essere legate le due cose? Non parlare per enigmi!”
    “Ascolta, per farmi perdonare per il primo appuntamento, che ho rovinato, te ne propongo un altro, ti va? Non ti prometto niente, però posso concederti… concederci una chance, è il minimo. Ok? E magari ti spiego meglio tutti i dettagli.”
    “Mh.” annuì Alan poco convinto. “Ma non sforzarti, d’accordo?”
    Raphael scoppiò a ridere, le spalle scosse da singulti divertiti. “Affare fatto, non mi sforzerò.”
    “Ehm…”
    “Che c’è?”
    “Io… non sono più tanto sicuro di…”
    Il bibliotecario inarcò un sopracciglio, falsamente severo: “Rinunci?”
    Il piccolo si voltò repentinamente a fronteggiarlo: “No, mai!”
    “Questo è lo spirito giusto! E se non va, almeno ci avrai provato.”
    “Sì! Però tu non illudermi, ok?”
    “Ok, sarò onesto, giurin giurello!” scherzò per sdrammatizzare e riuscì a strappare ad Alan un sorriso. “Che te ne pare di domani sera? Hai impegni?”
    “Per te sono sempre libero.” rispose sognante.
    “Ah ah! Mi disarmi, se parli così, sai? E non fare quella faccia.”
    “Quale faccia?”
    “Come se ti avessero appena ammesso in Paradiso.”
    “Uhm, tipo…”
    “Suvvia, scoprirai che non sono perfetto come pensi, ho anzi molti difetti.” si schermì il trentaquattrenne e, suo malgrado, arrossì.
    “Sarei pronto ad amare anche quelli, sono parte di te e ti rendono l’uomo meraviglioso che sei.” affermò con la naturalezza e l’innocenza di un fanciullo.
    Raphael lo scrutò stupito e toccato. Avrebbe tanto desiderato baciarlo, lì davanti a tutti, far sue quelle labbra carnose e all’apparenza morbide e saziarsi del suo sapore finché non se ne fosse stancato.
    Così uguale a lei… e così diverso. Mi sto innamorando? Come può accadermi di nuovo, se non ho più un cuore? O forse è ancora qui, ma si è nascosto per tutti questi anni?
    “Non partire per la tangente, Alan, resta qui, ancorato alla realtà. Aggrappati pure ai tuoi sogni, ma non lasciare che essi la sostituiscano, mi raccomando.”
    “Tenterò, anche se sarà difficile. Mi sento come se stessi per spiccare il volo!” si attaccò ad un braccio del biondo e appoggiò la testa sulla sua spalla sorridendo, al settimo cielo. “Non temere, terrò in considerazione i tuoi sentimenti, non li trascurerò e non ti imporrò i miei. Ti dimostrerò che non sono un bambino, che posso essere alla tua altezza. Poi se sono rose, fioriranno, senza dubbio.” assentì alla propria frase e si fece scappare un risolino soddisfatto.
    Il biondo gli scoccò un’occhiata bonaria e gli diede un buffetto sulla guancia.
    Si era lanciato, aveva compiuto il fatidico salto nell’ignoto, verso un futuro incerto, imprevedibile e sconosciuto, ma, chissà perché, era da tempo che non si sentiva così elettrizzato.

    Dorian guidava la sua Porche di gran carriera, ingranando la marcia più alta e spingendo sull’acceleratore, impaziente di giungere a destinazione. Aveva partecipato ad un meeting di lavoro a Seattle e la cosa si era protratta più a lungo del previsto, incasinandogli i piani. Aveva annotato tutto in agenda, ora per ora, senza tralasciare nulla, nessuna modifica nemmeno remotamente contemplata. Tempi di percorrenza, eventuali cene o pranzi con colleghi e clienti, riunioni, ogni cosa era scritta ordinatamente negli spazi appositi, eppure si era verificato un imprevisto: un facoltoso cliente della sua azienda lo aveva gentilmente invitato a trascorrere un po’ di tempo con sua figlia, che aveva accompagnato il padre dalla Francia. Era ovviamente una manovra d’affari, ma Dorian non aveva potuto sottrarsi, sennò l’accordo rischiava di andare a monte.
    Quella ragazza di ventisette anni, avvenente e simpatica nonostante tutto, sembrava aver sviluppato un particolare interesse nei suoi confronti e, sfruttando l’influenza del paparino, era riuscita a circuirlo con arte. Così, l’uomo aveva dovuto farle da escort per tutta Seattle e portarla a fare shopping a meeting concluso, nonché a cena in un ristorante di lusso dove, peraltro, aveva mangiato malissimo. Poi, a fine serata, Dorothy - nome orripilante, secondo la sua modesta opinione, gli ricordava l’odiosa protagonista del Mago di Oz - aveva tentato un approccio più audace e allora Dorian si era visto obbligato a dire “Time out” e a rispedirla all’hotel dal padre, con la scusa di non essere pronto per una relazione e di non voler illuderla o farla soffrire inutilmente. Lei si era dimostrata dapprima scettica, poi dispiaciuta e infine si erano salutati con un sorriso e la promessa di rivedersi presto.
    Certo, come no.
    Ma adesso non doveva distrarsi, tra meno di venti minuti sarebbe cominciato lo spettacolo di Harvey al Maiden’s Blossom e aveva un solo misero quarto d’ora per attraversare la città. C’era un traffico assurdo ed erano le una di notte.
    Ma la gente non aveva altro da fare? Perché diamine parevano tutti felici di farsi un giro in macchina e intasare le strade? Che andassero a piedi, razza di idioti! Suonò il clacson con discrezione, dopo essersi messo in coda dietro l’ennesima utilitaria con una vecchietta al volante. Sbuffò e si deterse il sudore dalla fronte e dal collo con un fazzoletto di cotone pulito, che sfilò prontamente dal taschino del completo di Cavalli. L’importante era mantenere la calma e il sangue freddo: se si fosse lasciato trasportare dal nervoso, l’universo si sarebbe accanito con ancor più vigore su di lui - della serie: la legge di Murphy non sbaglia un colpo.
    Chiuse gli occhi e respirò a fondo, recitando mentalmente la frase che la sua segretaria gli faceva ripetere a oltranza ogniqualvolta cedeva agli “influssi negativi”, anche se si sentiva leggermente scemo: nam myoho renge kyo. Si era informato e sembrava fosse un mantra buddista, atto a raggiungere l’illuminazione interiore…
    Una mummia decrepita con un inguardabile abitino a fiori fucsia gli sbarrò la strada, attraversando le strisce col deambulatore. Alle una di notte. Pazzesco.
    “Nam myoho renge kyo, nam myoho renge kyo, nam myoho renge kyo…” cominciò a cantilenare come un monaco.
    Quanto diavolo ci mette?! Una spintarella, signora? La gradisce? Oppure posso scaraventarla sull’altro marciapiede e farla finita, mi dica lei.
    Passarono sette minuti precisi e la donna-mummia aveva appena superato la metà dell’esiguo percorso.
    “Nam! Myoho! Renge! Kyo!” scandì battendo scocciato il palmo sul volante.
    Dopo un altro estenuante minuto, la vecchietta raggiunse il lato opposto, così Dorian sgommò facendo uscire il fumo dalle ruote - se fosse stato in un film di Fast & Furious, sarebbero venute fuori pure le fiammate - e pigiò il pedale del gas al massimo, fregandosene dei limiti di velocità. Per la prima volta in vita sua era in schifoso ritardo. Imperdonabile.
    D’accordo, non aveva fissato alcun appuntamento e Harvey non era al corrente della sua partecipazione allo show, però l’aveva annotato, e cerchiato in rosso, sull’agenda e Dorian non rimandava o cancellava mai i propri impegni, quando se li assumeva, anche di sua spontanea volontà.
    Schioccò la lingua stizzito e schivò per un soffio dei temerari passanti che avevano avuto la brillante idea di camminare in mezzo alla corsia invece che sul marciapiede. Si trattenne dall’urlare loro dietro “Imbecilli!”, solo perché si riteneva una persona educata e al di sopra della grettezza della massa, ma dentro di sé imprecò in maniera molto colorita. Era chiedere troppo arrivare al locale senza compiere una cruenta strage durante il tragitto? Sarebbe stata una seccatura immane.
    Occhieggiò l’ora sul display dell’auto e poi sul suo rolex, per controllare che fossero regolati al secondo, e notò con una smorfia di essere in un ritardo più che schifoso. Ormai lo spettacolo era già iniziato, ma forse riusciva ad intrufolarsi prima della fine.
    Aveva scelto proprio quella sera per due motivi: perché gli mancava lo spogliarellista, era quasi in crisi d’astinenza, e perché voleva chiarire il malinteso creatosi l’ultima volta, magari intavolando una conversazione civile e amichevole.
    No, non si era dato per vinto, benché la sconfitta ancora gli bruciasse, ma lui era Dorian Taylor King, un fottuto, e cazzuto, Chief Executive Officer, l’amministratore delegato della Microsoft, e non pincopallino! Era un uomo potente e determinato, e avrebbe ottenuto ciò che voleva, ossia Harvey. O almeno la sua attenzione. Gli sarebbe bastato anche un saluto. O un’occhiata ammiccante. Un sorriso. Uno sguardo fugace.
    Si tirò uno schiaffo e riemerse dal suo trip mentale, sbalordito di quanto il suo celebre decoro e self-control avesse subito una brusca discesa, da quando aveva incontrato quello schianto di ballerino. Faticava a riconoscere il vecchio Dorian misurato, ponderato, vigile e calcolatore fino all’ossessività in questo nuovo Dorian preda di impulsi carnali ed emotivi, nemmeno si fosse trasformato in una femmina arrapata che scalpita per carpire un grammo dell’attenzione del suo amato.
    Non che il trentottenne fosse innamorato di Harvey. Diciamo che provava un banale quanto intenso interesse e apprezzamento. Di questo, tentava di convincersi anche mentre dormiva. Innamorarsi di uno come Harvey non gli pareva una mossa saggia, anche se non negava di aver percepito le farfalle nello stomaco quando era stato pesantemente insultato. Ricordò che pure le sue gambe erano state colte da un improvviso attacco di tremarella. Bah, futili dettagli.
    Voleva solo mettere in chiaro le cose, nulla di più, il resto sarebbe dipeso dalla reazione dello spogliarellista. Però, se il traffico non accennava a diminuire, sarebbe arrivato la mattina dopo.
    Ringhiò e gettò alle ortiche il suo invidiabile e gelido, sebbene non più tanto gelido, aplomb, cimentandosi in una monotona e vivace sinfonia di clacson. Peccato non possedere il bitonale.
    Tale fatto gli fece realizzare di essere giunto alla frutta.
    Si riassestò sul sedile e si tirò indietro i capelli per ridargli una forma, poi con l’indice affusolato riportò lentamente gli occhiali, che nella foga gli erano calati sulla punta del naso, al posto giusto.
    Fissò vacuo un punto indefinito davanti a sé, mentre un silenzio di tomba piombava nell’abitacolo. Congiunse le mani nella posizione del loto - le gambe era meglio che stessero giù vicino ai pedali - grugnì e incamerò ossigeno.
    “Nam myoho renge kyo”
     
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  2. Lady1990
     
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    Parcheggiò al Maiden’s alle due di notte, trafelato, stremato e imprecando a denti stretti. Dorian era più che convinto di essersi imbattuto, durante il percorso, negli individui più imbecilli del globo terrestre, nonché pessimi guidatori e col cervello di un invertebrato. Anzi, gli invertebrati erano sicuramente un gradino al di sopra nella scala evolutiva, rispetto cotali idioti con le sinapsi in eterno sciopero. Di conseguenza, oltre ad essere in vergognoso ritardo, era anche irritato e ben propenso ad uno sterminio di massa. Solo vedere Harvey, forse, avrebbe potuto risollevargli il morale.
    Come se non bastasse, era fradicio, ogni poro di pelle trasudava tossine di scarto a causa del caldo implacabile sceso ad ammantare New York e il suo abbigliamento non aiutava di certo. Scese dalla macchina e la chiuse con la chiave magnetica, poi, guardingo, perlustrò i dintorni, accorgendosi che era dannatamente fuori luogo con il completo elegante; avrebbe potuto andar bene per una soirée o una cena di gala, non per presenziare ad un diavolo di spettacolo osé interpretato da un gruppo di bei ragazzi pompati. I clienti del locale, inoltre, erano costituiti perlopiù da donne vestite in maniera succinta, ma non eccessivamente volgare, e se intendeva rimanere tranquillo e defilato, ossia senza dare la possibilità ad alcun esponente del gentil sesso di importunarlo, doveva provare ad amalgamarsi con l’ambiente, tramutarsi in una creatura camaleontica. Perciò, quella volta Dorian reputò di gran lunga preferibile mantenere un basso profilo, nonostante ciò infliggesse un duro colpo al suo orgoglio e all’impegno che impiegava sempre nell’apparire perfetto e impeccabile, anche mentre dormiva.
    Si tolse la giacca e la cravatta, ripiegando con attenzione la prima sull’avambraccio e nascondendo la seconda nella tasca dei pantaloni, si aprì i primi due bottoni della camicia bianca a righine azzurre, si rimboccò le maniche pregando che i polsini non si sgualcissero troppo e si spettinò i capelli - anche se stava soffrendo e lottando contro se stesso per impedirsi di rimetterli in ordine. Scelse di lasciarsi gli occhiali, altrimenti, se sforzava troppo la vista, rischiava di perdere ulteriori diottrie e diventare una talpa. Incamerò una congrua quantità di ossigeno e si incamminò verso l’entrata, mostrando al buttafuori il documento di identità, per poi spogliarsi del suo presente e della sua posizione e prestigio sociale e immergersi in una dimensione caotica e soffocante, l’atmosfera pregna dell’effluvio intossicante di cosmetici, lussuria, sensualità e grida di femmine con gli ormoni impazziti. Lì era solo Dorian, un comunissimo avventore.
    Si recò al bar senza esitare, quasi marciando, accomodandosi su uno sgabello. Fece un cenno svogliato della mano al barista e schiuse le labbra per ordinare il drink, quando l’altro lo precedette, chiedendogli: “Il solito?”
    Dorian strabuzzò le palpebre e rimase ghiacciato, con l’arto a mezz’aria. Annuì assente, mentre si afflosciava sconvolto sul bancone: era già venuto al Maiden’s così tante volte da far memorizzare al barista i suoi gusti?
    Si era trasformato in uno stalker?
    Dopo circa un minuto, Greg gli mise davanti il bicchiere e gli sorrise come quando si ritrova un vecchio amico. L’amministratore delegato della Microsoft prima fissò basito il drink, dopodiché si soffermò sull’uomo in divisa piantato di fronte a sé, squadrandolo con cipiglio perplesso.
    “Martini.”
    “Mh?” Dorian lo guardò senza capire, intontito dagli odori e dalle luci stroboscopiche che inondavano il locale.
    “Martini. Il suo drink. Ho sbagliato?”
    “No… no.”
    “Bentornato.” lo salutò Greg, apparentemente felice che lui fosse lì.
    Il moro si accigliò ancora di più, incapace di afferrare cosa passasse per la mente dell’altro, ma alla fine scrollò le spalle e portò alla bocca il bicchiere, sorseggiando il liquido trasparente con calma. Mentre deglutiva, osservò il palco, notando con delusione che si stavano esibendo dei ballerini che non conosceva. Bellissimi, senza alcun dubbio esemplari magnifici, ma a loro mancava qualcosa che invece Harvey emanava a fiumi, qualcosa in grado di provocargli un’erezione istantanea, quasi si trattasse di una reazione naturale e inevitabile.
    Emise un sospiro mesto e si chiese dove fosse. C’era la possibilità che avesse fatto tutta quella strada per niente, l’aveva messo in conto, però, stando ai suoi minuziosi calcoli, quella sera avrebbe dovuto esserci il suo show. Forse aveva già finito.
    Si imbronciò e svuotò il bicchiere, abbandonandolo sul bancone con uno sbadiglio mal represso. Si era alzato alle sei come ogni mattina e adesso accusava la stanchezza del meeting e del viaggio, una parte di lui che fremeva per infilarsi nel letto e godersi almeno quattro ore di meritato riposo.
    Richiamò il barista e si protese verso di lui con atteggiamento cospiratorio, con la speranza di non dimostrarsi ridicolo.
    “Senta, c’è per caso Harvey Simmons?”
    “Sì, dovrebbe essere in camerino.” Greg non fece una piega, quasi avesse presagito una domanda del genere.
    “Ah, ottimo.”
    Allora doveva solo armarsi di pazienza e aspettare un po’, sebbene la propria testa ciondolasse pericolosamente in avanti. Onde risparmiarsi grame figure, appoggiò i gomiti sulla superficie di legno laccato e il mento sui palmi delle mani, pur sapendo che tale strategia era del tutto inutile se stava letteralmente cadendo dal sonno. Le palpebre, infatti, gli si fecero subito pesanti e gli occhiali gli scesero sulla punta del naso.
    Succube dello stato confusionale, Dorian non si accorse di Greg che parlottava in modo sospetto con una ragazza coi rasta e gli lanciava frequentemente eloquenti occhiate. La ragazza, dopo aver annuito, scomparve dietro la tenda dei camerini e il barista servì il secondo drink al trentottenne, senza che costui avesse detto alcunché. L’uomo grugnì nel vedere il bicchiere di nuovo pieno e lo tracannò in due secondi, impaziente dell’arrivo di Harvey. Raddrizzò le spalle e, dando fondo a tutta la forza di volontà residua, si tirò uno schiaffo sulla guancia e un pizzicotto sul lobo dell’orecchio, suo punto debole. Immediatamente, avvertì gli occhi riempirsi di lacrime di dolore, ma almeno lo svenimento era stato scongiurato.
    Abbassò lo sguardo, confuso: il bicchiere era pieno un’altra volta. Eppure era sicuro di aver ingurgitato il Martini un attimo prima.
    Bevve ancora. E ancora. E ancora. E ancora. E ancora.
    Greg attendeva un semplice “Basta così”, che non si decideva a giungere dal cliente. Teneva la bottiglia di Martini mezza vuota tra le mani e studiava Dorian con crescente interesse e preoccupazione. Egli era sicuramente un uomo affascinante, ci si accorgeva subito del suo carisma, del suo ovvio successo nella vita, del suo possedere la perfetta stoffa del leader, un innato charme, però al contempo sembrava anche… ingenuo. Un cucciolo smarrito e bisognoso di affetto.
    Scosse la testa allibito dalle sue stesse fantasie. Quello era un indubbiamente un pescecane, altro che cucciolo! Forse era solo un’impressione, errata per giunta.
    Trascorse un’ora e l’orologio segnò le tre. Dorian era ubriaco, aveva perso il conto dei Martini che si era scolato - oppure era sempre lo stesso? - e la testa gli girava da far paura. Voleva dormire. Voleva aspettare Harvey.
    Voleva dormire con Harvey.
    Perché faticava così tanto a restare concentrato? I pensieri sembravano affogare in una melma densa e appiccicosa, rallentandogli i riflessi.
    Perché non era a letto? Che ore erano? Dove si trovava?
    A un tratto, qualcosa picchiettò vicino al suo collo, ma i muscoli parevano essersi ridotti ad ammassi di gelatina, perciò non trovò l’energia né di alzare il capo dal bancone né di voltarsi verso la fonte di quel tocco. Bofonchiò qualcosa, giusto per far capire di essere vivo e, in minima misura, anche vigile.
    “Hey” una voce seccata e virile fece breccia nel suo universo ovattato.
    Era familiare, dove l’aveva già sentita?
    “Hey, tirati su, dai.”
    Tirarmi su? Impresa impossibile. Chiamate il carro attrezzi.
    “Hey! Ma porca… Greg, quanto cazzo lo hai fatto bere?”
    “E’ una spugna, il tipo, lo sapevi? Ne mandava giù uno dopo l’altro come se fosse acqua.”
    “Non me ne frega un piffero, ma ora chi lo leva di qua? Non mi sembra neanche in condizione di guidare.”
    “Se vuoi, lo riaccompagno io.” si offrì il barista con un sorrisetto sornione.
    “No, conoscendo il tuo livello di perversione, lo porteresti a casa da Joey per coinvolgerlo in un menage à trois.”
    Greg ridacchiò sotto i baffi. “Quindi ti addossi tu quest’onere? Te la senti?”
    “E’ una scocciatura, ma sono una persona gentile e generosa in fondo.”
    “Molto in fondo.” borbottò l’altro.
    “Oooh! È lui?” si intromise Gil, comparso dal nulla dietro Harvey.
    Circondò le spalle dell’amico con un braccio e ghignò al suo sbuffare infastidito.
    “Non mi avevi mica detto che era così… sexy.” continuò malizioso.
    “Piantala, ora lo riporto a casa.”
    “Sai dove abita?”
    “Ugh… no.” realizzò il castano con disappunto.
    “Allora dove pensi di portarlo? Perché non da noi?”
    “Scordatelo, poi chi se lo toglie più dalle scatole?” lo zittì bruscamente.
    “Dai, poverino! Sei senza cuore!”
    “Sono prudente, Gil. E poi, a quel punto sarebbe lui a sapere dove abito e ho paura di ritrovarmelo appostato sotto il portone.”
    “Non credo che sia uno psicopatico, Harvey. Guardalo. A me dà piuttosto l’idea di un riccone. Osserva la sua giacca, è sicuramente firmata. E l’orologio! Quello è un rolex! Oddio, ora che ci penso, potrebbe appartenere alla mafia o a qualche organizzazione criminale!”
    “Gil, puoi smettere di comportarti come un pettegolo, per cortesia?”
    “Chiedo venia, sua altezza bisbetica.” lo prese in giro il collega. “Cosa facciamo?”
    “Lo svegliamo. Hey? Hey, tu!”
    “Non dirmi che non conosci il suo nome!”
    “No. Hey, tu! Apri gli occhi, coraggio!” gli affibbiò uno scappellotto sulla nuca, ma niente. Ci riprovò altre cinque volte.
    Dorian schiuse le palpebre, la vista annebbiata dall’alcool. Mugugnò e fece perno sui gomiti per assumere una posizione eretta, tuttavia fu colto da un attacco di vertigini e ripiombò sul bancone con un tonfo.
    “Ahi…”
    “Sta messo male… Harvey, sul serio, portiamolo a casa nostra.” insistette Gil con una punta di preoccupazione nella voce.
    “Vedremo.” dichiarò e si mise dietro al ‘tizio dei fiori’, infilandogli le braccia sotto le ascelle. “Hey, alzati. Vieni, ti aiuto io.”
    Il locale era vuoto e tra qualche minuto avrebbe chiuso i battenti, di conseguenza dovevano fare in fretta, sennò nessuno li avrebbe salvati da una bella predica del capo e soprattutto costui avrebbe probabilmente proibito un futuro accesso al Maiden’s al sacco di patate ubriacone. Anzi, ponderò Harvey, quella avrebbe potuto risultare la mossa decisiva. Perché non lo lasciava alla mercé di Paul? Così si sarebbe liberato di lui definitivamente.
    Le sue labbra si piegarono in una smorfia. Un po’, doveva ammetterlo, gli sarebbe dispiaciuto. Cioè, non aveva precedenti di sbronze e per un episodio isolato si poteva chiudere un occhio, giusto?
    Il ballerino maledisse la propria bontà e sollevò un Dorian privo di forze senza apparente difficoltà, facendo aderire la sua schiena al proprio torace.
    Dorian si riscosse all’improvviso dal torpore e inalò a pieni polmoni un profumo buonissimo, una fragranza mascolina che gli provocò una cascata di brividi lungo la spina dorsale. Avrebbe potuto annusarlo per tutto il resto della vita, ne era certo. Ma come mai gli sembrava di essersi ridotto ad una marmellatina?
    “Ehm… uhm…” balbettò spaesato, ricercando l’equilibrio.
    “Piano, va tutto bene. Ce la fai a stare dritto?”
    Il timbro roco e profondo della voce di Harvey risuonò e vibrò nelle sue vene come una scarica elettrica, facendolo arrossire di botto. Per di più, quello aveva parlato direttamente nel suo orecchio, tanto che il moro aveva sentito il suo fiato caldo scivolargli nel padiglione e sul lobo. Gli venne la pelle d’oca.
    “S-sì…”
    Dovette però sostenersi al ragazzo per non rovinare a terra come un birillo. Si ricordò vagamente di aver sperimentato una sensazione pressoché identica quando insieme a suo padre salì sulle montagne russe al parco divertimenti. Aveva otto anni.
    “Mano?” si propose Gil prontamente.
    Harvey lo fulminò con un’occhiataccia. “Tienitele in tasca. Tutte e due.”
    “Uh! Geloso?”
    “No, solo penso sia nobile non approfittarsi della sbronza altrui.”
    “Da quando?”
    “Gil, se non chiudi quella fogna adesso, quando torno a casa ti gonfio.” ringhiò spazientito.
    “Il solito isterico. Ok, ti precedo, ti lascio la macchina. Se hai bisogno, comunque, chiamami.”
    “Sparisci.”
    “Ingrato!” gridò da lontano.
    Il barista frugò nelle tasche della giacca di Dorian ed estrasse dal portafoglio di Gucci le banconote necessarie per pagare le bevute. Dopodiché Harvey cinse i fianchi di Dorian e lo aiutò a raggiungere l’uscita, seguito a ruota da Greg, che portava la giacca del moro e faceva tintinnare il mazzo di chiavi per chiudere il locale. Paul era ancora nel suo ufficio ad occuparsi della contabilità, ma se ne sarebbe andato dal retro spegnendo tutte le luci.
    Erano le quattro del mattino.
    Appena Dorian respirò aria fresca, il suo cervello riprese a funzionare, seppur molto lentamente, e sussultò prepotentemente quando si accorse che lo spogliarellista per il quale si era beccato una sbandata coi fiocchi lo stava tenendo stretto a sé. Innanzitutto, si convinse di stare sognando, era troppo bello per essere vero; in seguito, rese grazie a Dio in tutte le lingue che conosceva per averlo condotto tra le braccia del ragazzo più attraente del mondo. Erano spalmati praticamente l’uno sull’altro, non v’era gioia più dolce. Era la sua occasione, non poteva sprecarla.
    “Sciao!” biascicò strascicato e svenevole, sorridendo come un ebete e accantonando l’immediato flusso di improperi contro la propria inettitudine attraverso un verso stizzito. Non era in grado di elaborare un discorso filosofico, l’istinto di sicuro avrebbe adempiuto al suo lavoro. Ovvio che era inconsapevole di stare facendo la figura del maniaco.
    Greg, dietro la coppietta, scoppiò a ridere, ma fu sufficiente un rapido scambio di sguardi con il castano per sedare ogni manifestazione di ilarità.
    “Mmm, s-senti… io volevo…” a quel punto fu il turno dell’uomo d’affari di abbandonarsi ad una grassa risata.
    “Ecco, ci mancava solo questa.” sibilò scocciato Harvey, rifiutandosi di voltarsi a fronteggiare il suo spasimante.
    Osservata da una diversa angolazione, i due ‘piccioncini’ parevano l’incarnazione vivente del quadro degli orologi flosci di Dalì: Dorian era l’orologio e Harvey, o meglio il suo braccio, il ramo che lo sosteneva.
    “No, scusa. Scioè, scusa. Per i fiori. È stata… eh eh! È stata Liz ad avere l’idea, la colpa è sua, non miaaa!” usò lo stesso tono lamentoso di un bambino che tenta di difendersi dopo aver combinato un guaio.
    “Mh, ok.” il ballerino lo ignorò e fece un cenno al barista. “Accompagnami alla macchina, poi ci penso io.”
    “Sicuro?” chiese il collega, apprensivo.
    “Sì sì, tutto a posto.”
    “Davverooo! Lei non sapeva che eri un uomo, non gliel’ho detto…” tornò alla carica il trentottenne.
    “Ok.”
    “Volevo… volevo farti capire che mi piaci e non… cioè… di solito sciono gli altri che… con me… ecco.”
    “Ok.”
    “E allora volevo chiederti di uscire inscieme… bere qualcosa… mangiare…”
    “No.”
    “Ti va bene venerdì prrrroscimo?”
    “No.”
    “C’è un posto bello bello bello, ti piascerà! Pago io!” esclamò esaltato Dorian, incespicando sui suoi stessi piedi.
    “No. E sta’ fermo! Non abbiamo fatto neanche tre metri!”
    “Fanno del pesce ottimo! Passo a prenderti?”
    “No! Nein! Non! Niet!” sbottò il più giovane.
    Una vena cominciò a pulsare pericolosamente sulla tempia di Harvey, mentre Greg, paonazzo e con le lacrime agli occhi, pregava tutti i santi del Paradiso per non ridere.
    Dorian gli tirò, inaspettatamente, un violento spintone e si allontanò in direzione di un lampione.
    “Tch! Tu non sai chi sono io! Io sono Dorian Taylor King, uno degli uomini più ricchi d’America! Quindi, tu devi uscire con me.” si aggrappò al palo e iniziò a dondolarsi, piegando la testa all’indietro.
    “Non ho afferrato il nesso logico, ma la mia risposta rimane la stessa: no.”
    “Sai dire solo no? Sei noioso… La ritrosia mi intrrriga, ma mi sto arrabbiando! Cosa ti costa, eh? Prometto che, hic, non ti toccherò, sì… fottuto ballerino da pub.”
    “Grazie.” scandì il ‘fottuto ballerino da pub’, lievemente alterato.
    Il moro posò la guancia incandescente sul freddo metallo e parve riaversi dal delirio. Fissò Harvey con cipiglio severo.
    “Voglio una possibilità. Una sola. Concedimela e, se non va, non ti darò noia mai più, te lo giuro. Ma non devi tirartela come una primadonna, siamo uomini! E tu… tu mi devi ascoltare!” gridò senza più freni inibitori, la frustrazione e lo stress che si riversavano all’esterno a ondate.
    Il ventiseienne sgranò gli occhi e sospirò afflitto, domandandosi perché capitavano tutte a lui, ma poi ragionò. Quel tipo poteva rivelarsi un buon diversivo, a conti fatti. Il rifiuto di Raphael lo aveva scottato, annientato e da un po’ di tempo a quella parte aveva l’impressione di aver perduto la facoltà di provare emozioni, come se il suo spirito e il suo cuore fossero avvizziti, rimpiazzati da pezzi di pietra. Che male c’era, dunque, in un po’ di sano svago? Avrebbe fatto passare la voglia a quell’arrogante Dorian Taylor King di scodinzolargli intorno. Inoltre, francamente, si era imbambolato nel constatare che l’uomo stava compromettendo la propria reputazione e l’orgoglio per uno spogliarellista, si stava umiliando e degradando per convincerlo e un pochino si sentiva commosso. Era genuinamente stupito, ma in maniera positiva. Quanto aveva intenzione di mettersi in gioco, Dorian, per conquistarlo? Sebbene fosse sotto l’effetto dell’alcool. Con un piccolo sorriso, pensò che fino a pochi minuti prima non avrebbe mai immaginato che sotto quella facciata composta e severa si celasse un personaggio così… interessante, modello Dottor Jekyll e Mister Hyde. Cielo, mica soffriva di un disturbo da personalità multipla?
    Greg assisteva alla scena in silenzio, divertito, eccitato e sulle spine.
    “Se accetto di uscire con te una volta, poi evaporerai per sempre?”
    “Se non riscontro i tuoi gusti, sì.”
    “Bene, affare fatto. Ti concederò una sola chance, poi ognuno a casa sua.”
    “Scìììììì!” esultò trionfante Dorian, correndo ad abbracciare lo spogliarellista. “Grazie! Non te ne pentirai!”
    “Mh, anche questo sarà da vedere.” borbottò sotto l’assalto. “Dai, ti porto… a proposito, dove abiti? Ti do uno strappo.”
    “S-strappo? Cosa vuoi strapparmi?” sghignazzò ammiccando.
    “Un passaggio in macchina, cazzo, brutto pervertito!” sbraitò fuori dalla grazia.
    “Oh… ah ah! Prendi la mia, se vuoi puoi fermarti da me a dormire. Che ore sono?”
    “Le quattro e un quarto.”
    “Uff, devo entrare a lavoro alle sette. Davvero, rimani pure, mi dispiace disturbarti. Il mio autista sarà poi a tua disposizione.”
    “Autista? Bah… Non hai intenzione di saltarmi addosso?” indagò il castano, incrociando le braccia.
    “Non ne ho le forze e devo impasticcarmi per bene, altrimenti domani, anzi oggi, nessuno mi salverà da un’emicrania cosmica. Ho pure una riunione con degli importanti dirigenti… mi sento male.”
    “Non osare vomitarmi addosso.” lo minacciò Harvey, artigliandogli i capelli sulla nuca e scostandolo giusto in tempo.
    Dorian rigettò sull’asfalto. Se fosse stato più lucido, di certo si sarebbe sotterrato dalla vergogna, ma il giorno successivo avrebbe avuto modo di rimuginarci e pianificare il suicidio. Non appena si calmò, indicò all’altro l’ubicazione della propria macchina e dell’appartamento, sperando di non sbagliarsi, e infine svenne in collo ad Harvey. Il suddetto imprecò.
    “Greg! Finiscila di ridere come un cretino e aiutami, porca miseria!” lo redarguì tagliente.
    “Tesoro, lasciati dare un consiglio spassionato. Questo è stracotto di te, è palese, e sareste perfetti insieme. Inoltre, gli escono i soldi dal culo, potresti usare la sua influenza per salire in alto. Coraggio, metti da parte i pregiudizi e-”
    “Diventa la sua puttana? No, mai.”
    “Harvey, questa relazione potrebbe fruttarti fior di verdoni! Non farlo tu, il cretino! Potrai essere il suo favorito e spillargli una bella sommetta, non te la negherà.”
    “Greg?”
    “Sì?”
    “Sei pessimo. Io ho ancora un briciolo di dignità, almeno. E non immischiarti.”
    “Che palle.” sbuffò il barista, schiaffandogli sulla testa a mo’ di velo la giacca di Dorian. “Io me ne vado, cavatela da solo.”
    Accidenti! Perché non sono nato malvagio o gelido come un iceberg? Merda…
    Per la strada non passava un’anima, il parcheggio nel grande spiazzo davanti al locale era deserto, salvo per una Porche ultimo modello nera e lucida e una vecchia Cadillac rossa con la vernice sbiadita. Persino tra le rispettive vetture era evidente il divario che li separava. Il ricco e il povero. Sembrava una favoletta per teenagers.
    Tuttavia, Harvey non poté sottrarsi all’acquolina che gli montò quando scorse la Porche. Aveva sempre sognato di guidare una macchina simile e ora tale sogno poteva avverarsi! Incredibile. Beh, Dorian Taylor King - tch! Uno con un nome del genere avrebbe potuto candidarsi alla presidenza - era servito a qualcosa…
    Cercò nelle tasche dei pantaloni e della giacca del moro e alla fine scovò le chiavi, lo trascinò fino all’auto, l’aprì e lo depositò sul sedile del passeggero, gemendo di piacere nello sfiorare i rivestimenti in pelle beige, lisci come la seta. Chiuse la portiera e corse verso la sua Cadillac sgangherata per recuperare la borsa dei vestiti puliti che teneva sempre, per ogni eventualità, nel bagagliaio e assicurarsi di avere nel portafoglio la patente. Quando si mise al volante della Porche, il giovane si umettò le labbra emozionato e quasi squittì accarezzando la leva del cambio con sopra disegnate sette marce. Girò la chiave e il motore rombò come se stesse facendo le fusa.
    “Oddio, oddio, oddio… ciao, piccola, io sono Harvey e prometto di trattarti con estrema cura stanotte. Sento di essermi innamorato di te…” disse appassionato.
    Premette il piede sull’acceleratore e il motore andò su di giri.
    “Così, baby… io e te faremo faville!” ingranò la marcia e partì sgommando, idolatrando per la prima volta e in tutta sincerità ‘il tizio dei fiori’: senza di lui, non sarebbe mai riuscito a mettere le mani su una signora Porche.

    Si erano dati appuntamento davanti alla biblioteca alle sette: Raphael sarebbe passato a prendere Alan in macchina e insieme sarebbero andati a Chinatown per cena.
    Il biondo accostò di fronte all’edificio e si sporse dal finestrino del passeggero per chiamare il ragazzino, che appena lo scorse stirò le labbra in un sorriso abbagliante. Corse verso di lui e salì, salutando il maggiore con imbarazzo ed emozione.
    “Come stai? Quel gesso quando lo togli?” domandò Raphael per rompere il ghiaccio.
    “Uhm, non è cambiato poi molto da ieri. Ah, la prossima settimana…” ridacchiò l’altro. “Tu? Come va?”
    “Bene!”
    “Sembri rilassato.”
    “Lo sono. Cinese? Offro io.”
    “Accelera, altrimenti ti riempio di bava peggio di un mastino.”
    “Ah ah! Non ti azzardare!”
    Optarono per il cibo ad asporto, dato che era una bella giornata e sarebbe stato brutto sprecarla rinchiusi in un ristorante. Il caldo era sopportabile, soprattutto sotto l’ombra degli alberi, e i due ne scovarono uno appartato in un parco, ma non lontano dai sentieri più battuti. Si sedettero sull’erba e smistarono le confezioni, improvvisando un pic-nic ai raggi del tramonto. E la scena avrebbe potuto anche apparire romantica, se non fosse stato per l’atmosfera tesa che aleggiava su di loro.
    Da un lato, Alan non aveva idea da dove cominciare per dare il via all’approccio, a quella specie di corteggiamento; dall’altro, Raphael attendeva con curiosità e una piccola dose di timore la mossa del rosso. Tuttavia, convenne, non potevano andare avanti a ingozzarsi in silenzio e scambiarsi rapide occhiate, per poi distogliere lo sguardo come due dodicenni ogniqualvolta incrociavano quello del compagno.
    Il maggiore prese in mano la situazione, avendo più anni di esperienza alle spalle e più autocontrollo e provando anche un po’ di compassione per il giovane.
    “Alan, dimmi: sei mai uscito con qualcuno, a parte me?”
    Quello arrossì e scosse appena il capo, addentando un involtino primavera.
    “Io sono il primo?” insistette Raphael sgomento.
    “Mh.” annuì Alan.
    “Oh. No, sul serio? Hai diciotto anni, alla tua età bisognerebbe aver già iniziato a-”
    “Scusami tanto, eh!” borbottò inacidito il piccolo.
    “Non volevo offenderti!” si difese, “Solo che… beh, è strano, tutto qui.”
    “Perché sarebbe strano?”
    “Sei carino, solare, hai delle belle passioni, sei estroverso, credevo che qualcuno ti avesse già notato.” si spiegò il biondo con calma.
    Al sentirsi rivolgere tutti quei complimenti, Alan dimenticò il disappunto, divenne paonazzo e si rimescolò come se fosse stato gettato in un frullatore. In effetti, qualcuno lo aveva notato, ma preferì non scendere nei dettagli.
    “Gr-grazie…”
    “E’ la verità, non ti imbarazzare.” gli sorrise Raphael, divertito da quelle reazioni innocenti.
    Poi tornò serio e rifletté: Alan era innocente, ogni cosa di lui sembrava intatta, pura, inviolata, immacolata, persino il suo cuore. A un tratto, realizzò di star camminando sul filo di un rasoio, bastava un solo passo falso e le conseguenze che ne sarebbero scaturite avrebbero potuto dimostrarsi catastrofiche. Insomma, la prima delusione amorosa, anzi la prima delusione da cotta adolescenziale faceva un male d’inferno, e aveva paura di ciò che il ragazzo avrebbe potuto combinare. Non che il biondo avesse già preventivato di ferirlo, non avrebbe mai voluto che accadesse, però non era nemmeno tanto sicuro di voler dare adito ai sogni dell’altro. Ora più che mai doveva comportarsi onestamente, parlare con chiarezza e non per enigmi, evitare di flirtare senza motivo ed essere razionale. Alan era fragile dal punto di vista dei sentimenti, era ‘vergine’, perciò era assolutamente necessario andarci coi piedi di piombo.
    “T-tu, invece?”
    “Eh?” si riscosse dai suoi pensieri e lo fissò interrogativo.
    “Tu hai… ecco, sicuramente sarai stato con altri…” balbettò nervoso, infilzando i ravioli al vapore con le bacchette di legno.
    “Ovvio, ho trentaquattro anni.”
    “Giusto. E… sei mai stato innamorato?”
    “Sì, di mia moglie.”
    “Ah ah, domanda idiota, perdonami.”
    “Tranquillo. Sei curioso di conoscere il mio passato?” indagò impassibile Raphael, masticando il suo pollo fritto.
    “Sì… però se a te non va di raccontarmelo, non mi offendo, davvero.”
    Il più grande sospirò e appoggiò la nuca alla corteccia dell’albero, gli occhi fissi su un punto indefinito dell’orizzonte.
    “Da giovane ero un ragazzo scapestrato e ribelle, sprezzante delle regole e delle imposizioni sociali, irriverente. Una sorta di teppistello aristocratico. Frequentavo locali promiscui dall’età di quattordici anni, entravo grazie ai soldi di papà.”
    “Tutto il contrario di ora, insomma…”
    “Eh eh! E a tredici avevo già scoperto di essere gay.”
    Ad Alan andò di traverso il raviolo e all’improvviso si piegò in due tossendo. Raphael si bloccò e gli assestò alcune pacche sulla schiena.
    Quando il piccolo riacquisì la facoltà di respirare, lo squadrò incredulo e spaesato: “Sei gay? Ma… non eri sposato? Non avevi una moglie e una figlia?”
    “Sì. Alicia è stata la prima ed unica donna della mia vita.” illustrò paziente. “Ne ho passate tante negli anni che precedettero il nostro incontro, alcune non proprio ammirevoli. Diciamo che… ero un libertino.”
    Riavutosi dallo shock, Alan decise saggiamente di abbandonare i ravioli e incrociò le gambe, ascoltando. “Non mi sorprende, sai?”
    “Mh? Ah no?”
    “No. Sei così… così…” sollevò la mano libera dal gesso davanti a sé, il palmo rivolto verso l’alto in una posa ispirata, “così… wow.” lasciò ricadere l’arto e, per mascherare la vergogna, cominciò a strappare i fili d’erba vicini a lui.
    “Oh… sei il primo che mi definisce ‘wow’!” rise. “Comunque, passavo di letto in letto senza curarmi di chi fosse il partner, benché li scegliessi sempre avvenenti. Tuttavia non mi importava di costruire qualcosa di serio e duraturo, ritenevo di avere tutto il tempo e che, finché non fosse giunto il momento di darmi una calmata, avrei potuto spassarmela quanto e come desideravo.”
    “Ne hai avuti tanti tanti?”
    “Troppi. Ho perso il conto, ma non me ne vanto. Col senno di poi, se mi giro e osservo i miei trascorsi, non posso che biasimarmi.”
    “Perché?”
    “A sedici anni feci coming out, non avevo mai avuto timore dell’opinione altrui, solo che i miei genitori… beh, immagina il tipo, famiglia alto-borghese…”
    “Ah, afferrato. Eri ricco, eh?”
    “Sì, lo ero. Dapprincipio volevano spedirmi in una clinica psichiatrica e in casa vivevo in un costante regime del terrore, con annesso terrorismo psicologico e quant’altro, e alla fine, stufo, raccolsi le mie cose in un borsone e me ne andai.”
    “E dove?”
    “Avevo molti amanti, alcuni più devoti di altri, perciò scroccai l’ospitalità a quelli più ingenui. Non ero uno stinco di santo, già.”
    “E poi?” chiese il rosso partecipe e rapito dal racconto.
    “Mmm…” il maggiore si grattò il mento. “Trovai un part-time in un fast food, così potei finire gli studi. Successivamente, un talent scout mi scovò e per un periodo feci il modello. Lui mi ripeteva che in futuro avrei fatto carriera nel campo, che grazie alla mia bellezza avevo già la strada spianata, ma a me non interessava. Ero un po’… apatico. E dissoluto, senz’altro.” ghignò. “Presto realizzai la mia passione per l’architettura e grazie al mio lavoro, di certo più remunerativo di quello di cameriere, ebbi la possibilità di pagarmi la retta universitaria e mi laureai. Feci il tirocinio presso uno studio minore e in capo a pochi anni ne aprii uno tutto mio. Di lì a un anno incontrai Alicia, ci sposammo e mettemmo su famiglia. Tre anni fa, lei e Margareth, mia figlia, morirono in un incidente, così chiusi lo studio e trovai un posto come bibliotecario. Fine.” bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta con disinvoltura.
    Dal canto suo, Alan era sconvolto. Gli dispiaceva moltissimo per i problemi che Raphael aveva avuto con i suoi genitori e per il dolore che aveva provato per la morte della moglie e della figlia, però…
    Impallidì. Il giorno precedente aveva pianto, immaginando la sofferenza del biondo, ma adesso era grato che quell’Alicia se ne fosse andata, perché in tal modo aveva potuto conoscerlo, avvicinarsi. E questo gli provocò un’ondata di disgusto verso se stesso, poiché non si era mai reputato una persona talmente meschina e orrenda da gioire per la morte di qualcuno. Era venuta a galla una parte del suo carattere che non credeva di possedere e non ne andava affatto fiero.
    “Che hai?” domandò Raphael, studiandolo in tralice.
    “N-nulla…” si eclissò.
    Inoltre, il compagno era ancora, evidentemente, legato della defunta consorte e sarebbe stato difficile distoglierlo da lei. Era pronto a vivere per sempre nell’ombra di un’altra? Era pronto ad assumersi il ruolo di sostituto? Ora comprendeva appieno la reticenza del maggiore, il suo desiderio di rimanere ancorato al passato che aveva perduto e la voglia, in fondo, di rimettersi in gioco.
    Raphael aveva paura di amare di nuovo.
    Il giovane non poteva capire la sua crisi, perché lui era il suo primo amore.
    Troppa differenza… eppure…
    Il sole tramontò dietro le fronde degli alberi e l’aria e la natura si tinsero di un bel rosso vermiglio. Una leggera e impalpabile brezza soffiò tra i capelli di Alan, accarezzandogli il viso e i lineamenti corrucciati. Un minuto più tardi, si voltò a scrutare intensamente il biondo e quello lo ricambiò perplesso, l’azzurro vivo delle iridi stemperato dagli ultimi raggi che filtravano attraverso le foglie.
    “Raphael, io…”
    “Mh?”
    “Io… lo so che è assurdo, non è chiaro nemmeno a me, ma ti amo.”
     
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    “Io… lo so che è assurdo, non è chiaro nemmeno a me, ma ti amo.” esalò Alan e all’improvviso ebbe la netta sensazione di essersi appena tolto un peso enorme dal groppone.
    “Come?” il biondo lo guardò allibito, preso in contropiede.
    “Hai… hai sentito.” mormorò imbarazzato il giovane, concentrandosi sui poveri fili d’erba intorno a sé.
    A un tratto, un sottile senso di inadeguatezza serpeggiò in ogni fibra del suo corpo, pareva aver perduto tutta la sicurezza e la spavalderia che aveva ostentato fino a un secondo prima, quasi si fosse sgonfiato come un palloncino bucato da un ago. E l’ago era stato l’occhiata sconvolta, ma in negativo, di Raphael.
    “Cioè, io non voglio che tu mi risponda, non adesso, però… ecco, volevo solo che tu lo sapessi. Nessuna implicazione.”
    “Alan…” il maggiore sospirò e si massaggiò le palpebre. “Così mi metti in difficoltà e rischi di compromettere la nostra… chiamiamola ‘amicizia’”
    “Perché? Non sei mica costretto a-”
    “Io non ti amo.” proferì fissandolo negli occhi, fermo e deciso.
    Il diciottenne accusò la pugnalata, tuttavia se l’aspettava ed era preparato. “C-capisco, certo. Non pretendo che mi ricambi, ma in futuro…”
    “Non so cosa accadrà in futuro. Mi piaci, è vero, ma non ti amo. Inoltre, credo tu stia travisando i tuoi sentimenti: mi conosci da poco, come puoi dire di essere innamorato di me? È sufficiente che ti mostri un po’ di gentilezza per aver accesso al tuo cuore? Questa si chiama infatuazione, Alan.”
    “L’amore è irrazionale, non una cosa logica!” esclamò l’altro, la voce incrinata e gli occhi pericolosamente vicini al pianto.
    Raphael aprì la bocca per ribattere, quando si bloccò. In effetti, con Alicia era stato una specie di colpo di fulmine, neppure lui all’epoca aveva saputo spiegarsi l’origine di quell’emozione intensa e totalizzante, per una donna per giunta, lui che le donne le aveva sempre disprezzate.
    “Secondo me,” si umettò le labbra secche, distogliendo l’attenzione dal ragazzino e dai suoi occhioni da cucciolo ferito, “stai fraintendendo ciò che provi. Ragiona, ci sono un sacco di lati della mia personalità di cui sei ignaro, potrei rivelarmi un uomo meschino e disonesto, inaffidabile, deludente.”
    “Tu non sei così, ne sono sicuro.” obiettò piccato il piccolo, l’espressione combattiva e infantile.
    “Non fare il bambino, Alan.”
    “Non sono un bambino! La verità, ammettilo, è che tu non vuoi più innamorarti di nessuno a parte tua moglie! Un giorno potrebbe arrivarne un altro, come me, magari più interessante, più adulto, ma tu non faresti una piega e lo rifiuteresti in tronco! Solo perché tua moglie non abbandona mai i tuoi pensieri e-”
    “Alan, ora basta!” lo sgridò severo. “Non essere stupido.”
    “Hai paura e sei giustificato, ma cosa farai tra dieci anni, venti, trenta? Vuoi davvero restare solo per tutta la vita?”
    “Basta!” Raphael, squadrandolo in cagnesco, scattò in piedi e si spolverò i pantaloni, il viso adombrato.
    “Dimmi solo una cosa.” il giovane lo raggiunse impavido e gli afferrò il lembo della maglia. “Perché ti piaccio?”
    Il biondo arrestò ogni movimento, girò il capo e lo scrutò dall’alto con cipiglio grave. “Perché assomigli a lei.” confessò monocorde.
    Alan gelò sul posto, incapace di respirare.
    Quindi era per quello che…?
    No, era una bugia. Una bugia detta per allontanarlo, per farlo arrendere. Non volle credere che per tutto quel tempo Raphael avesse scorto in lui il riflesso della moglie. Non lo aveva mai guardato per quello che era in realtà? Lui era Alan, non Alicia. Alan era diverso da Alicia. Lui era… davvero diverso da lei? Che cosa li accomunava talmente tanto da spingere il biondo a pensare che si assomigliavano?
    Raphael gli stava dando corda perché vedeva Alicia?
    Significava che non aveva mai visto Alan?
    “Cosa…?” avvertiva un agghiacciante senso di desolazione, alla stregua di un guscio vuoto.
    “Entrambi siete solari, pieni di gioia di vivere, espansivi, semplici. Entrambi amate l’arte, entrambi desiderate diventare famosi pittori e aprire una galleria, entrambi studiate all’Accademia - tu stai per iniziare - e, fammi indovinare, corso di Pittura comparata? Entrambi amate i fiori, entrambi avete detto che Picasso è un ciclone, entrambi avete detto che l’amore è irrazionale con la medesima intonazione.” elencò ironico, contando i punti in comune sulle dita. “Ah, in più avete lo stesso sorriso.”
    Il diciottenne era sbiancato, incredulo, con il cuore ridotto in mille pezzi.
    “Perciò,” continuò il più grande, “in principio volevo tenerti lontano perché mi facevi soffrire, la tua sola presenza mi provocava turbamento e dolore, ma poi mi sono chiesto: perché no? Così avrei potuto riavere accanto una parte di lei e forse mi sarei sentito meno solo. Avrei potuto usarti come ripiego. In seguito, riflettendo, sono giunto alla conclusione che, per quanto tu e la mia Alicia siate simili, non sarebbe corretto imprigionarti in un mio ricordo; alla fine sei un individuo a sé stante, non condividi nemmeno il sangue con lei. Prevedevo di lasciarti libero una volta appurate le vostre differenze, così mi sarei spogliato delle mie illusioni definitivamente. E, al contempo, non posso negare che, nonostante tutto, mi piaci, che vorrei baciarti e andare oltre con te. Ma non posso, dato che anch’io mi domando se mi piaci soltanto perché somigli a lei, invece vorrei essere sincero. Bene, ho vuotato il sacco, ora sai.”
    “Tu… non hai mai avuto intenzione di… darmi un’opportunità?”
    Lo guardò interrogativo: “Te l’ho data, mi sembra.”
    “No. Tu l’hai concessa al tuo Alan-Alicia, non ad Alan.” un singhiozzo fuoriuscì dalla sua gola. “Sei crudele…”
    “Oddio, non metterti a piangere, ti prego.” sospirò esausto Raphael.
    Alan allentò la presa sulla maglia e il braccio sano ricadde lungo i suoi fianchi.
    “Non è colpa mia se siamo così simili. Non è colpa mia se sono nato così, che ci posso fare? Ma io sono Alan! Io mi chiamo Alan, non Alicia! Potremmo anche avere molti interessi uguali, ma io non sono lei!”
    “Infatti, proprio per questo non ti amo. Non posso.”
    Inorridì. “Crudele!” urlò tirandogli un pugno sul braccio. “Ti odio!”
    Bravo. Odiami, piccolo. Non posso darti ciò che cerchi.
    “Ti odio! Ti odio!” piangendo, tempestò il torace del biondo di pugni, mentre questi lo fissava con estrema pena. Diavolo, se gli dispiaceva, ma aveva deciso di essere franco fino in fondo.
    “Volevi la verità.”
    “Avrei preferito non conoscerla!”
    “E’ inutile piangere sul latte versato.”
    “Alan non ti piace neanche un pochino?” nel suo sguardo luccicava una scintilla di supplica, di speranza. Bastava poco, un minuscolo passo per incollare di nuovo insieme i cocci.
    “No. Non ho mai visto questo Alan. Per me, sei sempre stato una versione di Alicia in miniatura. Aspetto e genere opposti, ma identici nell’anima. Tuttavia, sicuramente l’Alan di cui parli esiste e per questo motivo reputo saggio finirla qui: sopprimerei inconsciamente il tuo carattere, fermerei la tua crescita e tu ti ridurresti a farti plasmare secondo i miei desideri. Di conseguenza, il ragazzino di nome Alan Becker non verrebbe mai fuori, soffocato dall’Alan-Alicia. Vivi la tua vita, fa’ esperienza e sii te stesso.” sussurrò gentile e pacato, accarezzandogli la chioma fulva.
    Il piccolo si asciugò le guance bagnate di lacrime e tirò su col naso. Questo Raphael era più cattivo di chiunque altro, poiché pronunciava indicibili e atroci verità con una naturalezza e un candore destabilizzanti, e con un tono dolce come il miele. Se almeno si fosse arrabbiato… pareva quasi che non potesse scalfirsi in alcun modo, che fosse fatto di una materia vicina al diamante, duro e immune a qualsiasi colpo.
    Già, Raphael è un diamante. Un diamante che si è fatto raffinare e modellare per una sola persona; e ora che quella non c’è più, ora che ha perso il suo padrone, rifugge e rifiuta ogni candidato al titolo con ira o indifferenza. Per amore è cambiato, ma quell’amore è morto.
    Si può cambiare una seconda volta?
    “E se…” deglutì amaro, “e se acconsentissi ad essere Alan-Alicia?”
    “Eh?” interruppe le carezze, esterrefatto.
    “Ehm… io, sai… io sarei disposto…” si mordicchiò a sangue il labbro inferiore. “Io… potrei accontentarmi di essere per sempre la seconda scelta.” proferì bisbigliando, quasi stesse confessando un segreto, ma i suoi occhi, immersi in quelli azzurri dell’altro, brillavano di una luce sincera e innamorata.
    Raphael si pietrificò, completamente spiazzato, e intorno a lui i suoni parvero azzerarsi. Un secondo più tardi ridacchiò privo di allegria.
    “Humf! Ti contraddici da solo, sai? Prima affermi che mi odi e dopo… Perché mai dovresti scegliere di annullarti per me?”
    “Perché ti amo.”
    “Tu non mi ami!” scandì secco il trentaquattrenne, irritato dalla testardaggine di Alan. “Prima o poi lo capirai.”
    “Non sminuire i miei sentimenti! Cosa ne sai, tu, di cosa sento io nei tuoi confronti? Chi ti credi di… di…” il suo sguardo si fece improvvisamente assente, vacuo, e la voce si affievolì fino a zittirsi.
    Raphael si accorse del repentino mutamento nel rosso e lo studiò con apprensione.
    “Ascoltami.” gli prese il viso nei palmi e si chinò per trovarsi alla medesima altezza. “E’ meglio se ci separiamo. Ti domando scusa, sono stato egoista e ti ho ferito, me ne rammarico davvero. Però non sono in grado di ricambiarti, non puoi forzarmi, te ne rendi conto? L’avevi suggerito tu stesso ieri, ricordi? Avevi promesso che non mi avresti fatto pressioni. Ebbene, questa è la mia risposta.” gli sorrise triste e gli terse coi pollici altre lacrime incastrate nelle ciglia. “Sarò stupido o crudele quanto vuoi, ma non posso inventarmi un amore che non c’è solo per farti piacere. Oppure preferiresti venire consolato da una menzogna?” riassunse una posizione eretta.
    “Ma…”
    “Se ti avessi incontrato prima di lei… forse… ma eri un poppante.”
    “Ti amo…” singhiozzò ancora Alan, “ti amo!”
    “Vedrai, il tempo curerà le tue ferite e sono convinto che troverai qualcuno perfetto per te, qualcuno che ti ama per quello che sei, Alan Becker.”
    “Allora, provaci tu.”
    “Non ci riuscirei.”
    “Tra qualche anno? Io posso aspettarti!”
    “Non te lo garantisco. Non sprecare la tua vita nell’attesa di uno che probabilmente, chissà, non tornerà mai. Vivi e basta, sii felice.”
    “Senza di te, non posso essere felice.”
    Il maggiore ridacchiò bonario. “Adesso dici così, ma lascia passare un po’ di tempo, le cose ti appariranno diversamente.” gli sfiorò il collo con i polpastrelli, ma l’altro si ritrasse bruscamente e gli diede le spalle.
    “Sei un fifone. La tua esistenza si sta consumando nella solitudine e tu non… cazzo, sei un fifone, una tartaruga che non vuole uscire dal suo dannato guscio! Piantala di mentire a te stesso e costruirti alibi o scuse! Lo capisci che, attaccandoti come una sanguisuga a tua moglie, che è morta, non sarai felice né oggi né domani? Perché ti preoccupi di quanto potresti soffrire, invece di quanto potresti gioire? Cosa diavolo stai aspettando?” lo osservò contrito. “Cosa aspetti, Raphael?” scacciò le lacrime e prese una boccata d’aria. “Devo fare una cosa, è meglio che vada.”
    “Eh? Un attimo, non vuoi che ti riaccompagni? Dai, sono in macchina.”
    “No, non voglio.” sibilò lapidario.
    E quella volta fu Alan ad abbandonare Raphael in mezzo a un parco, sebbene il più distrutto fra i due fosse nuovamente il più giovane. Costui, tuttavia, pensava a Jason.
    “Non sminuire i miei sentimenti!”
    Ora comprendeva lo stato d’animo dell’amico, il suo dolore, e si sentiva uno schifo. Dapprima, aveva biasimato il biondo, lo aveva giudicato un insensibile, ma non era forse lui stesso da biasimare? Non si trovava nella posizione migliore per esprimere giudizi negativi.
    La situazione era uguale, in fondo.
    Alan e Jason. Raphael e Alan. Come in uno specchio che rifletteva all’infinito le solite scene, solo con protagonisti e ruoli differenti. Lo stesso copione.
    Desiderava risolvere il rapporto con Jason, eppure non aveva idea di come riuscirci, se apparentemente nemmeno con Raphael sembrava filtrare un misero raggio di speranza. Era forse tutto destinato a finire? Ogni cosa, ogni legame era fatto per essere rotto? Non esisteva niente di puro ed eterno a questo mondo? Il fallimento era inevitabile?
    Però, lui e Jason si conoscevano da molto più tempo, avevano condiviso tre anni insieme; sorrisi, pianti, litigate, riconciliazioni, segreti. Poteva essere tutto accantonato, cancellato così facilmente?
    Non poteva accettarlo. Il migliore amico rappresentava la sua anima, Raphael il suo cuore. Era impossibile scegliere. Adesso, era meglio concentrarsi su un problema alla volta e Alan decise che Jason aveva la precedenza. Gli avrebbe spiegato, non si sarebbe fatto beffe di lui, lo avrebbe ascoltato e sarebbe stato sincero. Se poi non ne avesse cavato un ragno dal buco, voleva dire che non era il momento adatto e avrebbe ritentato più in là. Avrebbe combattuto per coloro che amava, avrebbe volentieri sputato sangue, mai si sarebbe dichiarato sconfitto.
    Anche se per la questione di Raphael conveniva che gli serviva più tempo per trovare il coraggio e se stesso. Quando fosse tornato, si sarebbe presentato come Alan Becker, l’unico e solo, così l’altro lo avrebbe finalmente visto.

    Il molesto allarme della sveglia penetrò nella dimensione onirica e pastosa in cui era piombato, riconducendolo pian piano alla realtà. Dorian strizzò le palpebre e mugugnò infastidito, poi sollevò stancamente un braccio, che pareva pesare una tonnellata, e dopo una serie di tentativi infruttuosi premette il tasto ‘snooze’. Provò ad aprire gli occhi, ma essi frizzavano ed erano incollati, come il resto del corpo lo era al letto. Si sentiva tutto indolenzito, quasi che un tir gli fosse passato sopra dieci volte consecutive. In bocca aveva un sapore disgustoso.
    A fatica, mise a fuoco l’ambiente che lo circondava e si accorse con sorpresa e sollievo di essere a casa, nella sua stanza. Eppure, qualcosa gli sfuggiva, qualcosa di vitale importanza.
    Che ore erano?
    Girò il collo e gli occorsero un paio di minuti e un’estenuante ricerca degli occhiali per avvedersi che era in mostruoso ritardo. Infatti, non appena realizzò che il display segnava le sette in punto, lanciò uno squittio acuto e si alzò rapidamente in piedi. Non calcolò, tuttavia, le pessime condizioni in cui versava il suo fisico, così ricadde subito sul materasso a causa di un potente attacco di vertigini. Grugnì e fece leva sulle braccia, l’agitazione che rischiava di fargli schizzare via il cuore dal petto.
    Mai era arrivato in ritardo in ufficio, che figura ci avrebbe fatto con i capi? La propria immagine di affidabilità, professionalità e impeccabilità era irrimediabilmente compromessa?
    Barcollò fino in bagno, accese le luci e si guardò allo specchio. Inutile dire che ghiacciò terrorizzato. Quell’uomo con due occhiaie marcate sotto gli occhi, un sottile strato di barba incolta sul mento e la faccia sbattuta non poteva essere lui. Inoltre, era andato a letto vestito, cosa assolutamente improbabile, col risultato che la camicia era tutta spiegazzata. Cosa diamine era successo?
    Mentre si detergeva il viso con l’acqua fredda, vagliava in maniera febbrile i ricordi della sera precedente.
    Dunque, sono andato a Seattle per il meeting, sì. Poi sono tornato perché… ah! Volevo vedere Harvey, giusto. Sono arrivato al locale?
    Un paio di flash gli attraversarono il cervello.
    Sì, ci sono andato. E dopo… dopo… e dopo?
    Si tamponò la faccia con l’asciugamano e si accarezzò le guance ruvide: non aveva tempo per farsi la barba, magari si sarebbe portato il necessario a lavoro. Si lavò i denti e si spogliò in fretta e furia, la mente preda di un vortice confuso di immagini e voci. Tornò nudo in camera ed estrasse dall’armadio una camicia azzurra e un completo di Valentino. Dai cassetti tirò fuori un paio di boxer neri e una cravatta del medesimo colore con dei piccoli rombi dorati. Si vestì più velocemente che poté, fece la doccia nel deodorante - quella vera l’avrebbe fatta a fine giornata - e si recò in salotto per prendere la valigetta, cellulare e chiavi, evitando di passare per la cucina: anche il tè lo avrebbe bevuto in ufficio. Si guardò intorno per sincerarsi di non aver dimenticato nulla, quando un rumore strano, tipo quello prodotto da un piccolo trapano, attirò la sua attenzione. Acuì l’udito e vagò con gli occhi fino a soffermarsi sul divano. Dorian studiò stranito lo schienale in pelle nera, notando che effettivamente il suono proveniva da lì. Si avvicinò con passo felpato, i nervi tesi e l’ansia che gli attanagliava lo stomaco.
    C’era qualcuno? Chi mai poteva essere? Un ladro? No, che senso aveva che un ladro restasse a dormire beato nell’appartamento della vittima?
    Si affacciò e rimase di sasso.
    Il rumore che aveva sentito altro non era che il russare di Harvey, tranquillamente appisolato sul suo divano. Le domande, troppe, si affollarono caotiche nel suo cervello, ma non c’era proprio tempo per le risposte.
    Le mani cominciarono a tremare e immediatamente le stampò sulla bocca per impedirsi di emettere l’urlo che tanto scalpitava in gola. Fece un respiro profondo e si impose la calma. L’unica azione logica era lasciargli un biglietto col suo recapito telefonico e la preghiera di chiamarlo prima possibile, così avrebbe chiarito tutta quella situazione grottesca e incredibile.
    Non è che stava ancora sognando?
    Scrisse il post-it e lo appiccicò al frigo. Poi, però, si chiese se non fosse meglio lasciargliene un altro, nel caso non avesse avuto voglia di mangiare. Schiaffò il secondo post-it sullo specchio del bagno e, per scaramanzia, un altro sulla porta d’ingresso.
    Una volta terminato, schizzò via per andare alla Microsoft, imprecando fra i denti.
    Si catapultò nell’edificio come un razzo, senza badare ai saluti educati che il personale e alcuni colleghi gli rivolgevano durante la marcia serrata verso gli ascensori. Pigiò il pulsante del penultimo piano e si aggiustò la cravatta e i capelli, pregando tutti i santi di non ricevere prediche. Ma perché Liz non lo aveva contattato?
    Agguantò il telefono e vide che era spento. Schioccò la lingua esasperato - lui non lo spengeva mai, dannazione! - e una volta acceso fu travolto da una valanga di avvisi di chiamata e messaggi da parte della segretaria e di alcuni clienti. Le porte dell’ascensore si spalancarono e gli impiegati presenti al piano arrestarono qualunque movimento.
    “Signor King, buongiorno.” disse la receptionist, scrutandolo perplessa.
    “Dov’è Liz?” domandò sbrigativo.
    “Signor King!”
    Liz arrivò come invocata dal corridoio di destra, correndo sui tacchi a spillo che non provocavano alcun rumore sulla moquette e reggendo tra le braccia una pila di fogli.
    “Liz! La riunione!”
    “Oh, stia tranquillo, è stata posticipata di un’ora: un cliente ha avuto un ritardo nel volo da Los Angeles.”
    Dorian si afflosciò impercettibilmente e chiuse gli occhi grato.
    “Invece, quella con il magnate industriale Claes Volkan è iniziata cinque minuti fa.” snocciolò la donna, pallida e, ora che ci faceva caso, col fiatone.
    Il moro impallidì e prese in mano distrattamente la tazza di caffé che un suo sottoposto, forse intenerito, gli porse, non sapendo che l’amministratore delegato odiava la caffeina.
    “Ma… doveva aver luogo nel pomeriggio! Lui dov’è? Nessuno si è premurato di avvertirmi?”
    “Le avrò intasato la segreteria e la memoria del cellulare, signore. Volkan è nel suo ufficio. Per guadagnare tempo gli ho offerto da bere e gli ho chiesto della famiglia.” lo informò con celerità e precisione, arrancandogli dietro come un cagnolino ammaestrato lungo il corridoio. “Ha una figlia di dodici anni, la sua pupilla, ed ha appena divorziato dalla terza moglie. Sua madre è morta la settimana scorsa, sta ancora superando il lutto.”
    “Bene. C’è altro?”
    “Non mi sembra un buon momento per discutere di affari, lo lasci sfogare e infine gli metta davanti il contratto.”
    “Trarre vantaggio dal dolore e dalle disgrazie altrui… Liz, non ti facevo così pragmatica.”
    “A mali estremi, estremi rimedi, signore. Dicevo, per anni - aspetti, mi dia il caffé, lo tengo io - si è occupato delle esportazioni di spezie dall’India, è un mercato fiorente, ma adesso vuole investire anche nella tecnologia. I ditta svedese dei Volkan possiede il monopolio del commercio a Dubai e Singapore, stipulare un accordo con loro è un sogno che diverrebbe realtà.”
    “Ok, come sto?”
    “La barba?”
    “Ah, lasciamo perdere.”
    Si schiarì la voce ed entrò nell’ufficio, mentre Liz si dileguava per adempiere alle altre sue mansioni. Un uomo che dimostrava all’incirca quarantacinque anni sedeva sulla poltrona davanti alla scrivania di Dorian, sorseggiando una tisana alla rosa, se il naso non lo ingannava. Era elegante, alto, ma sulla testa si iniziava già a intravedere un accenno di calvizie sui capelli di un biondo platino.
    “Signor Volkan!” lo chiamò, chiudendosi la porta alle spalle. “Buongiorno, perdoni l’attesa, ma ho trovato traffico stamani. Spero di non averla fatta aspettare troppo.” gli sorrise e si strinsero la mano.
    “No, nessun disturbo. Ha una segretaria davvero gentile, signor King.”
    “E’ la migliore, glielo riferirò. Come sta la famiglia?” fece con aria falsamente innocente.
    Le trattative durarono un’ora esatta, grazie al trentottenne che rigirò Volkan come un calzino, in modo tale da essere libero per le nove. Il cliente appose la firma sul contratto e uscì dalla stanza con un’espressione più serena, anche qui grazie a Dorian che, per risollevarlo dalla perdita della madre, lo aveva imbottito prima di banali perle filosofiche sulla vita, sulla morte e sulla felicità - le stesse frasi che si possono trovare facilmente sulle cartoline o nelle canzoni rock degli anni ottanta - poi di inni al futuro e al progresso e sull’importanza di mantenersi al pari con l’incalzare della modernità.
    “E poi,” aveva aggiunto, “sono certo che sua madre sarebbe fiera di lei, nel vederla così intraprendente e sull’onda del prestigio economico.”
    Tramite questa strategia, Volkan era capitolato.
    In meno di un minuto, varcò la soglia della sala riunioni e condusse il meeting con i dirigenti delle varie filiali Microsoft sparse sul globo terrestre in maniera encomiabile, tanto che ricevette le strette di mano e i complimenti da ogni ospite e persino una telefonata compiaciuta dai capi sulla sua linea privata. All’ora di pranzo, Liz lo informò che lo sceicco di Abu Dhabi desiderava incontrarlo, solo che non poteva raggiungerlo a New York poiché si era fatto un’operazione agli occhi di recente.
    “Ma esistono le video-conferenze! O mi parli per telefono! Non ho il tempo per andare ad Abu Dhabi, adesso!” sbottò imbestialito Dorian, ticchettando stressato sulla tastiera del computer.
    L’apparecchio sulla scrivania squillò e il moro rispose senza verificare il mittente.
    “Pronto?”
    “Signor King.”
    “C-capo.” scattò sull’attenti.
    “Abbiamo ricevuto la richiesta che lo sceicco di Abu Dhabi ha inoltrato questa mattina. Le diamo il permesso di partire subito per gli Emirati Arabi, lo sceicco non è un uomo paziente. È uno dei nostri più rispettabili clienti, quindi le suggeriamo di procedere pure.”
    Dorian fissò il vuoto per una manciata di attimi, poi: “Sì, capo, non c’è problema.” riattaccò allucinato.
    “Le ho già acquistato il biglietto, signore. Parte fra mezzora.”
    “Mezzora?!”
    “Ho discusso personalmente con i piloti, perché ho calcolato anche il fuso orario. Lo sceicco non può indubbiamente controllare il tempo, se ne farà una ragione. Ancora non hanno inventato il teletrasporto.”
    “Ma solo per arrivare all’aeroporto ci vuole mezzora! Anzi, con il traffico direi un’ora abbondante!”
    “Un jet l’attende sul tetto di questo grattacelo. Le ho preparato tutto l’occorrente, il suo bagaglio è stato caricato dieci minuti fa. E poi, così avrà il tempo per sbarbarsi come si deve, signore.”
    Dorian si mise le mani nei capelli e tirò: “Aaaaah!”
    “Signore?” Liz lo scrutò basita.
    “Ok, mi sono calmato. Vado.” raccolse le sue cose e inforcò la valigetta, scomparendo dietro la porta dell’ascensore.
    Alla fine, venne fuori che lo sceicco voleva solamente farsi pubblicità, offrendo all’amministratore delegato la suite più lussuosa dell’albergo più chic di Abu Dhabi. Era una manovra comune nell’ambiente degli affari, quella di accogliere l’ospite con gli onori di un re in modo che andasse a parlar bene del paese in questione e dei suoi più illustri esponenti ai boss. Dorian, di ritorno dalla cena con ‘sua grazia araba’, stremato dagli impegni e dal jet lag, non si curò nemmeno dell’abbagliante arredamento della suite; si fece mostrare dal cameriere la camera da letto e si buttò a peso morto sul materasso, piombando in un sonno profondo.
    Il volo di rientro partì la mattina successiva alle sei, ma col fuso orario atterrò a New York alle nove di sera del giorno precedente, ergo non si perse niente. Dopo aver stilato un rapporto dettagliato della chiacchierata amichevole con lo sceicco, una limousine mandata da Liz venne a prenderlo alla Microsoft per portarlo finalmente a casa, la sua macchina era già stata depositata nel suo garage.
    Girò la chiave nella serratura e respirò l’aria familiare del suo ‘modesto’ appartamento di duecentoquaranta metri quadrati con soddisfazione. Erano proprio giornate come quella che gli facevano venire voglia di staccare la spina e prenotarsi una vacanza su un’isola tropicale sperduta nel Pacifico. Sicuramente, se continuava così, rischiava l’esaurimento nervoso, ne era più che convinto. Mise la valigetta sul tavolino accanto all’ingresso e si tolse la giacca, gettandola sullo schienale del divano, per poi accasciarsi su di esso con un sospiro liberatorio. Si allentò la cravatta e sbadigliò, la sensazione di aver dimenticato nuovamente qualcosa di rilevante. Corrugò le sopracciglia, irritato, e si concentrò.
    Strabuzzò di botto gli occhi un istante più tardi, appena gli giunse alle orecchie lo scroscio dell’acqua della doccia e una voce virile che cantava con invidiabile intonazione “I can’t get no satisfaction” dei Rolling Stones.
    Porca… Harvey!
    Se n’era completamente scordato, con tutto il tran tran che lo aveva assorbito nelle ultime ore.
    Ma come mai è ancora qui?
    L’adrenalina esplose nelle sue vene e all’improvviso gli si ripresentarono di fronte tutti gli avvenimenti della sua visita al Maiden’s, la sbronza, la proposta, il vomito, ogni minimo particolare.
    Sbiancò.
    Sentì l’impellente bisogno di scartavetrarsi il cranio su un muro di cemento armato per la vergogna e seppellirsi in una fossa così profonda da raggiungere il nucleo del pianeta. Come aveva potuto cedere alle lusinghe dell’alcool e comportarsi in modo così… non gli veniva la parola corretta: ridicolo? Patetico? Da cretino patentato? Da disperato maniaco sessuale? Dio, che casino.
    Che figura di merda.
    Chissà cosa pensava ora Harvey di lui. No, non voleva immaginarlo.
    Ma che doveva fare adesso? Accoglierlo con un sorriso, con naturalezza, come se nulla fosse accaduto? Oppure fornire spiegazioni e cercare di rimediare?
    Dilemma.
    Comunque sia, non ebbe modo di programmare alcunché, dato che lo spogliarellista uscì dal bagno nudo, tranne che per un asciugamano a cingergli i fianchi, gocciolante e disgustosamente sexy. I capelli lunghi e umidi erano appiccicati sul torace scolpito e gli occhi gialli sembravano quelli di un felino, una pantera.
    A Dorian andò di traverso la saliva e si piegò in due tossendo per la mancanza d’ossigeno.
    “Hey!” Harvey gli corse accanto e lo colpì sulla schiena ripetutamente. “Ok, respira. Vuoi acqua?”
    Il moro annuì paonazzo e l’altro lo fece bere lentamente dal bicchiere reperito in cucina, preoccupato per il colorito, ora cereo, del padrone di casa. Lo scrutò intensamente, quasi lo stesse sottoponendo ad una radiografia.
    “Mmm…”
    “Eh?” Dorian lo guardò disorientato.
    “Mmm…” Harvey accostò il viso al suo, tanto che c’erano solo pochissimi centimetri a dividerli. “Mmm…”
    “Che c’è?” sussurrò roco il più grande, tentando di mostrarsi imperscrutabile e tenere a freno l’erezione al medesimo tempo.
    Il castano indietreggiò e lo studiò sussiegoso. “Tu non dormi abbastanza.”
    “Eh… può darsi.”
    “No, è un dato di fatto. Fame? Cucino qualcosa.”
    “Veramente… sarebbe casa mi-” intercettò un’occhiata fulminante del giovane e cambiò registro, “Fa’ come se fossi a casa tua.”
    “Grazie.”
    “Prego.”
    Harvey aprì il frigo e rovistò all’interno per un minuto abbondante, mentre Dorian si astenne a stento dal suggerirgli di chiuderlo, perché altrimenti si scongelava. Tirò fuori delle carote, delle uova e del formaggio, osservando le confezioni accigliato.
    “Non hai nulla di commestibile?”
    “Quelli cosa sono, scusa?”
    “No, intendo… carne? Prosciutto?”
    “Sono vegano.”
    Il ballerino torse il collo modello “L’esorcista” e lo guardò sgomento. “Ma… le uova e il formaggio? I vegani non mangiano nemmeno i derivati dei prodotti animali, no?”
    “E’ venuta in visita mia madre la scorsa settimana, ha fatto la spesa e li ha lasciati qui.”
    “Oh… sei erbivoro, quindi!”
    Dorian ridacchiò, leggermente più rilassato. “Sei vuoi definirmi così…”
    “Io, al contrario, adoro la carne e il pesce, ma soprattutto la carne. E cosa bevi la mattina?”
    “Tè.”
    “Niente caffé?”
    “Niente caffé.”
    “Tch… e non sei triste?”
    “Mh? Perché dovrei esserlo?”
    Harvey appoggiò le terga sul bordo del piano cottura, incrociò le braccia muscolose e gonfie sui pettorali e lo fronteggiò. “Mangiare rende felici, almeno un po’. La felicità, secondo me, viene anche da un’alimentazione completa, e se tu ti nutri in pratica solo di frutta e verdura…”
    “Io sto benissimo. Inoltre, l’idea di mangiare cadaveri non mi esalta. E non mi nutro solo di frutta e verdura, ci sono anche i cereali, i tuberi…”
    “Oh, bello…” lo derise il castano, scoppiando a ridere. “Va beh, ti preparo un’insalatina scondita, ok?”
    “L’olio e il sale puoi metterceli.”
    “D’accordo.”
    Una stranissima sensazione lo pervase nel guardare Harvey a suo agio nella sua cucina, gli piaceva da matti. Era molto che non aveva una relazione e l’appartamento perennemente vuoto talvolta gli provocava un po’ di depressione.
    “Perché sei rimasto?” domandò curioso.
    “Mi sono svegliato un’oretta fa. A proposito, grazie per avermi lasciato riposare, ero sfinito.”
    “Uhm… già…” arrossì nel rammentare la sera addietro e nascose il viso fra le mani.
    “Cos’hai? Sei stanco?”
    “Beh, sì…”
    “Ma parliamo di cose serie, signor Dorian Taylor King.” scandì ironicamente solenne. “Venerdì prossimo, allora?” lo divertiva vedere il moro sulle spine e quel rossore adorabile sulle guance lo spronava a punzecchiarlo da bravo sadico. “Sai, mi hai convinto, non credevo che tu fossi un tipo così intraprendente. Insomma, hai carattere. Anche se quando hai vomitato, ammetto di aver pensato di abbandonarti sul marciapiede.”
    “Oddio…”
    “Per non dire quando ti sei messo a ciondolare a un palo… sicuro di non aver mai fatto la lap dance?"
    “Ti prego, risparmiami…”
    “Ti sei fatto valere, nonostante ti strusciassi come un cane in calore su di me.”
    “Abbi pietà!” esclamò mortificato, analizzando il metodo più veloce per uccidersi.
    “Ah ah, d’accordo. È stato spassoso, però. Ah, venerdì vieni con la Porche.”
    “Perché?”
    “Mettiamola in questo modo: passerò la serata con te a patto che mi lasci guidare quel gioiellino.”
    “E’ un ricatto? Ti interessa più la macchina del sottoscritto?” chiese avvilito.
    “Per ora, sì. Dai, so poco di te, mentre della Porche conosco vita e miracoli. Sono un appassionato di motori.”
    “In effetti. Mh, ti piacciono i motori… hai visto il mio garage?”
    “Sì, ci ho parcheggiato la Porche ieri notte.”
    “No, quello vero. Sul retro.”
    Harvey si bloccò colto sul vivo e squadrò carico di aspettativa l’uomo d’affari. “Quello vero?”
    “A-ha.”
    “Voglio vederlo!”
    Dorian ghignò, si sedette su uno sgabello davanti al tavolo in mezzo alla stanza e poggiò il mento sulle mani, ammiccandogli dal basso. “Mettiamola in questo modo.” lo scimmiottò. “Se mi concederai tre appuntamenti, ti darò le chiavi per accedervi. E se me ne concederai dieci, ti farò guidare tutte le macchine che tengo lì dentro.”
    “Mmm… non so… dieci appuntamenti…” esitò il ventiseienne, segretamente tentato.
    “Ferrari, Mercedes, Z4, BMW…”
    “Cazzo, ci sto!” sbatté con forza i palmi sul tavolo e lo fissò emozionato e sognante, gli occhi che brillavano di gioia e desiderio. “Ferrari…”
    “Bene. Dov’è la mia insalata?”
    Dorian sorrise trionfante, mai aveva avvertito un tale senso di appagamento interiore, neppure quando accalappiava ricchi clienti con l’ausilio del suo solo fascino. Era arrivato al traguardo con il minimo sforzo, non immaginava che si sarebbe rivelato tanto semplice.
    Aveva dieci possibilità per conquistare lo spogliarellista, doveva sfruttarle al massimo senza commettere errori. E magari sarebbe diventato astemio.
    Il castano gli servì l’insalata canticchiando allegro e l’altro, in quel momento, desiderò assistere a quella scena, respirare quell’atmosfera calda e serena per sempre, ogni giorno della sua vita.
     
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    Che bella che è questa storia, mi piace tantissimo. Brava :)
     
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  5. Lady1990
     
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    grazie mille!!! :)

    Jason, suo malgrado, si era ritrovato costretto da forze maggiori ad accettare la proposta di Rinaldi. Non gli era occorsa molta fantasia per immaginare in cosa consistessero i metodi persuasivi del mafioso, anche se sarebbe più opportuno chiamarli “coercitivi”. Data la sua reputazione, gli era bastato in pratica schioccare le dita e far leva sul suo nome per ottenere il licenziamento del ragazzo senza incontrare opposizioni da parte del proprietario della bettola, che anzi si era logicamente dimostrato accomodante e zelante. Jason aveva poi intercettato la mancia che Dominic aveva allungato nemmeno in modo troppo circospetto all’uomo e l’affare si era concluso in maniera pulita.
    Neanche il moretto fosse stato un oggetto da vendere.
    Per carità, era grato al suo ormai ex capo per avergli concesso di lavorare nonostante fosse minorenne, pur conscio di rischiare grosso qualora la polizia avesse deciso di organizzare una retata al locale, tuttavia non si sentiva triste per quel cambiamento. L’episodio avvenuto con Charles gli aveva in un certo senso fatto aprire gli occhi e aveva realizzato che non c’era possibilità di poter condurre in futuro una vita normale, come quella di Alan. Semplicemente, i loro mondi erano troppo distanti e si basavano su regole troppo differenti, ed era sciocco pensare di riuscire a liberarsi dalle catene sociali con facilità. Jason aveva, in sostanza, compreso che non avrebbe potuto aspirare a niente di meglio e che uscire da quel girone infernale fatto di miseria e criminalità era solo un’illusione infantile. Era l’ora di crescere e farsene una ragione, tentare di estrapolare il lato positivo dal lago di fango in cui stava affogando.
    Per quanto concerneva il lavorare per un boss della mafia, l’unica cosa saggia che gli restava da fare era pregare per la propria incolumità, nient’altro. Certo, non era così stupido da negare di provare un po’ di timore e ansia, però aveva deciso che d’ora in avanti avrebbe accettato il presente senza lamentarsi, perché c’era di peggio.
    Dominic, la sera dell’aggressione, lo aveva riaccompagnato a casa, con la scusa di voler assicurarsi che vi giungesse sano e salvo, date le sue non ottimissime condizioni, e lo aveva obbligato a fornirgli il numero di telefono.
    “Perché”, aveva aggiunto, “se ti accadesse qualcosa di spiacevole, sapresti chi contattare.”
    In più, e su questo si era dimostrato categorico, sarebbe passato a prenderlo in macchina tutte le sere per portarlo al club, andata e ritorno circondato da scagnozzi dall’aria sospetta. Jason aveva sospirato e aveva acconsentito ad ogni condizione impostagli da Rinaldi, consapevole che adesso non poteva più nascondersi dietro alla scusa che non aveva nulla a che spartire con gente di quella risma. Ci era dentro fino al collo.
    “Il tuo lavoro consisterà nello stare fisso dietro al bancone, ti sarà proibito servire i clienti direttamente ai tavoli o intrattenere conversazioni di qualunque genere con loro. Limitati a preparare i drink e a ritirare i soldi, vedrai che sarai al sicuro.” gli aveva spiegato sulla soglia dell’appartamento. “Se ti comporterai da persona intelligente e farai finta di essere invisibile, ti garantisco che non verrai coinvolto in alcun losco traffico.”
    Dopodiché, lo aveva assediato finché il giovane, esausto per l’ora tarda e per la violenza subita da Charles, non gli aveva concesso di entrare nel suo squallido monolocale. Dominic aveva addotto come motivazione che era rigoroso dovere del capo controllare che il sottoposto vivesse in un ambiente consono e protetto. In realtà, Jason aveva il vago sentore che l’uomo intendesse soltanto curiosare in giro, ma non glielo impedì.
    Egli aveva perlustrato la stanza prima con gli occhi, poi anche con il resto del corpo, ficcanasando ovunque in silenzio. Infine si era voltato verso il piccolo e aveva esclamato: “Questo posto fa schifo!”
    “Non guadagno fior di milioni, sai?” aveva ribattuto infastidito, dirigendosi verso il lavello per versarsi un bicchier d’acqua. “Non posso permettermi una villa.”
    Dopo qualche momento di esitazione, in cui il rosso si era grattato il mento assorto e aveva passeggiato in su e in giù per i tre metri quadrati scarsi dell’appartamento, se ne era uscito con: “Ho io la soluzione! Vieni a vivere da me.”
    “No.” aveva risposto Jason lapidario.
    “E’ un ordine del tuo capo, non puoi rifiutare.” gli aveva quindi suggerito con fare cospiratorio il boss, sfoggiando un sorrisetto sardonico.
    “Sì, posso. Ho accettato di lavorare per te, non ho mai detto che sarei divenuto il tuo mantenuto. Se ho un impiego, ho anche i soldi per provvedere alla mia persona e finora ce l’ho fatta senza problemi. Qui ne va della mia indipendenza. Questo schifo di posto è il mio rifugio, l’ho affittato con i miei guadagni, e non lo cederò a cuor leggero.”
    “Allora ti ritiro l’offerta di lavoro al club e ti intimo direttamente di venire a stare a casa mia.” aveva sentenziato serafico il più grande, divertito dall’espressione atterrita del diciassettenne.
    “Scherzi, vero?”
    “Sì, ci sei cascato. Non sono un uomo così meschino. Comunque, parlo seriamente, il mio invito è valido. Come puoi vivere in questo… ripostiglio? Non desideri una camera spaziosa, del buon cibo, dei camerieri…”
    “Sarebbe assurdo per un cameriere disporre di altri camerieri una volta tornato a casa. E comunque, parlo seriamente, non sarò mai il tuo fottuto mantenuto. Ficcatelo in quella zucca.”
    “Hey, sono il tuo capo, modera i termini.”
    “Mi hai dato tu il permesso di accorciare le distanze fra noi, ora non venire a recriminare. Questa è casa mia, non serve che piaccia a te, perché ci vivo io e non tu. Non la abbandonerò mai e non transigo.” aveva sbattuto il pugno sul tavolo di cucina, la bocca atteggiata ad un broncio, adorabile per Dominic, serio e determinato per l’altro.
    “Non la abbandonerò mai e non transigo!” lo aveva scimmiottato Rinaldi. “Hai un bel caratterino. Va bene, diciamo che per stasera ti lascerò in pace, sei stanco.” aveva estratto il cellulare dalla tasca dei pantaloni e si era messo a bisbigliare fitto fitto con i suoi sgherri ancora in strada.
    Poi, Jason lo aveva osservato spogliarsi della giacca di seta grigio chiaro e posare i suoi effetti personali sul tavolo.
    “Dov’è il bagno? Ah, hai fame? Ordino qualcosa?”
    “Cosa diamine stai facendo?” gli aveva chiesto allibito il moretto.
    “Non ti pare ovvio? Resto qui stanotte, a sorvegliare.” aveva risposto facendo spallucce.
    “Sei impazzito?!”
    “No, sono pratico. Ah! Scommetto che il bagno è qui…”
    “Fermo! Non entrare! Devo fare ancora il bucato, è pieno di-”
    Di fronte alla montagna di panni sporchi ammonticchiati in un angolo vicino al lavandino, Dominic si era infatti arrestato. “Già, urge un domestico. Domani lo faccio venire, darà una sistemata.”
    “Non c’è bisogno di alcun domestico, porca miseria! Sono autosufficiente, mi so gestire da solo!”
    “Ti è saltato il nervo, per caso? No, perché sembri lievemente schizzato.”
    “Esci! Vattene!” aveva strepitato isterico.
    “Su, su. Calmati, ti preparo una camomilla.” l’uomo si era avvicinato e gli aveva poggiato le mani sulle spalle.
    “Non ce l’ho.” aveva sospirato a quel punto Jason, stremato.
    Davvero, il suo cervello stava implorando un time out.
    “Pazienza, mi occuperò io di rifornirti la dispensa. Ora stenditi, mi sciacquo la faccia e ti raggiungo a letto. Ah, ce l’hai un pigiama per me?”
    Il piccolo aveva lasciato cadere la domanda con un gesto stanco della mano ed era andato a dormire. Non avrebbe mai desiderato rivivere una giornata del genere per tutto l’oro del mondo.
    In tal modo era cominciato il loro rapporto, ma tutto sommato Jason doveva ammettere che la compagnia di Dominic era piacevole, almeno quando era così magnanimo da non tartassarlo continuamente.
    Trascorse una settimana e il mafioso, salvo alcune occasioni in cui il suo ‘lavoro’ esigeva la sua presenza, si procurò il duplicato delle chiavi e si trasferì in pianta stabile dal ragazzo, con il palese disappunto di quest’ultimo e dei tirapiedi del boss. Infatti, a causa di ciò, il quartiere del diciassettenne aveva iniziato a pullulare mattina e sera di uomini in giacca e cravatta, armati fino ai denti, e i vicini, com’era prevedibile, non si erano risparmiati dal porre quesiti circa la loro presenza, provocando al giovane ripetuti grattacapi.
    Rinaldi, d’altro canto, non pareva farne un dramma ed era curioso vederlo destreggiarsi con disinvoltura nel ghetto come se lo avesse fatto per tutta la vita - e forse in certa misura era vero - benché il suo abbigliamento, insieme al girellare perennemente placcato da guardie del corpo, destasse nei più infiniti dubbi e perplessità. Dopo i primi giorni di assestamento, ad ogni modo, gli abitanti di quell’angolo di città dimenticato da Dio lo bollarono come ‘nuova fiamma del frocetto’ e la questione venne presto archiviata.
    I turni al club non era affatto sfiancanti e i colleghi lo trattavano con la massima cura e gentilezza, alle volte con talmente tanta premura che risultava evidente lo zampino di Rinaldi. Al nuovo locale aveva già captato delle voci che lo etichettavano come ‘il favorito’ e le fantasie che lo ritraevano come suo amante attuale si erano diffuse subito a macchia d’olio, passando di bocca in bocca. La verità era assai più semplice e diversa, ma Dominic gli aveva consigliato di non sfatare il mito che si era venuto a creare, cosicché nessuno lo avrebbe importunato, a meno che il temerario non fosse così folle da sfidare apertamente il clan.
    Jason, tuttavia, pur non contento dello status quo, si era comportato da bravo barman, esattamente come il capo gli aveva ordinato e per il momento non c’erano stati incidenti.
    La settimana seguente nulla mutò: l’uomo dormiva fino a mezzogiorno e oltre, il giovane si alzava presto per pulire e andare a fare la spesa, pranzavano insieme, il pomeriggio lo trascorrevano a litigare sull’arredamento o sulle rispettive abitudini e la sera si recavano in coppia al club, dove si dividevano per poi incontrarsi di nuovo alla chiusura.
    Jason, però, era diventato più scontroso e irascibile, complice il fatto che il mafioso aveva invaso i suoi spazi senza chiedergli il permesso. A partire dal letto. Il moretto era affezionato alla sua brandina sfondata, ma Dominic non aveva atteso che ventiquattro misere ore per sostituirla con un matrimoniale che occupava letteralmente due terzi dell’appartamento. Dapprincipio, il ragazzo aveva protestato, ma alla fine il boss l’aveva spuntata minacciandolo di togliergli il lavoro e deportarlo di peso alla sua villa con piscina.
    “Ma se ti vanti di vivere in una simile meraviglia di dimora, perché non ci torni?!” lo aveva apostrofato, inviperito per l’ennesima frecciatina sulle dimensioni del bagno - che, per la cronaca, era un comunissimo bagno.
    “Perché lì tu non ci sei.” aveva risposto quello, spiazzandolo, come se stesse disquisendo del tempo.
    Quindi, Jason era arrossito e gli aveva lanciato contro un mestolo, prontamente schivato dal bersaglio, poi era capitolato e si era arreso di fronte alla disarmante innocenza con cui il criminale gli teneva testa.
    Durante la forzata convivenza, il piccolo aveva inquadrato alla perfezione il personaggio che ciabattava irrequieto per il suo monolocale fino al calar del sole, arrivando a descriverlo come un bamboccio viziato, petulante, pervertito con l’ossessione delle armi. Riguardo quest’ultimo dettaglio, soltanto una volta era accaduto che Rinaldi si facesse recapitare ‘la merce’, ovverosia un fucile ad alto calibro, a casa di Jason e le urla apocalittiche che ne erano nate avevano fatto desistere il boss dall’osare ancora portare quegli oggetti di morte fra le mura domestiche.
    Il diciassettenne, inoltre, sempre più di frequente si poneva domande su che tipo di rapporto lo legasse a Dominic.
    Erano amici? Beh, era presto per affermarlo. Non condividevano alcun interesse e i loro caratteri erano diametralmente opposti o quasi, così come i loro stili di vita, sebbene vivessero sotto lo stesso tetto.
    Conoscenti? Forse era la definizione che più si avvicinava, eppure non bastava.
    Senza dubbio, erano padrone-dipendente, la situazione era materialmente quella.
    Il rosso, poi, non aveva più tirato fuori la ‘questione Charles’ e Jason si era guardato bene dal nominarlo, sia perché rammentarlo gli riportava alla mente brutti ricordi, sia perché il suo coinquilino sembrava suscettibile sull’argomento. In secondo luogo, non si poteva dire che si conoscessero. Entrambi sapevano poco o niente dell’altro e non avevano finora approfondito, benché tuttavia ci fosse un’evidente pressione in proposito da parte del boss, abilmente celato dietro un atteggiamento cameratesco e scanzonato. Il piccolo, comunque, era conscio che Rinaldi era un uomo fatto e finito, il capo di un consistente manipolo di criminali, un leader pericoloso che si divertiva a fingere di essere giocherellone. Di conseguenza, anche se talvolta gli risultava difficile, cercava di non farsi abbindolare dall’apparenza e di mantenere i sensi vigili e all’erta.
    Dormivano insieme tutte le notti, ma il maggiore non aveva mai toccato Jason con secondi fini. Capitava che lo abbracciasse nel sonno come un orsacchiotto o che lo baciasse a tradimento al mattino se si svegliava lui per primo, ma non erano avvenuti contatti più intimi, e il ragazzino gli era segretamente grato per la sensibilità dimostrata.
    Tuttavia, a causa di questa sua doppia personalità, o doppia maschera, non riusciva a scorgere il vero Dominic e stentava a fidarsi. Con lui indossava i panni dello spasimante simpatico, sempre con la battuta sulla punta della lingua, l’idiota a cui piaceva gettarti addosso pezzi di cibo o farti il solletico per strapparti un sorriso; con gli altri, invece, si trasformava nel temuto boss Rinaldi, un capo dal grilletto facile e senza scrupoli, privo di misericordia e spietato. Jason lo aveva visto all’opera, al club, e ne era rimasto scioccato. Cioè, aveva sparato ad un uomo - per fortuna colpendolo al braccio - senza battere ciglio. Anzi, per un fugace attimo gli era parso pure di vederlo ghignare. Quella determinata sera, appena tornati all’appartamento, non se l’era sentita di incrociare il suo sguardo e si era giustificato adducendo la scusa della stanchezza. Ma Rinaldi, forse fiutando qualcosa, non aveva insistito come suo solito e non aveva sconfinato nella sua parte di letto.
    D’altronde, cosa si aspettava? Dominic era ciò che era, inutile piangerci su. L’importante era tenersi alla larga dal suo mondo il più possibile.
    E qui si arriva ad un’altra questione che contribuiva a raffreddare il loro legame: l’incompatibilità. Erano incompatibili, sotto ogni aspetto. Anzi, meglio specificare che lo erano spiritualmente e socialmente, poiché non avevano infatti ancora sperimentato quanto lo fossero fisicamente. E Jason non voleva nemmeno prendere in considerazione l’idea, tanto lo spaventava.
    Eppure, Dominic che lo abbracciava mentre dormiva, il suo profumo che gli invadeva le narici, il suo corpo prestante che lo stringeva con dolcezza e possesso, i finti attacchi mattutini, i baci rubati, i suoi capelli fini e puliti che gli sfioravano il viso ogniqualvolta si avvicinava abbastanza da permetterlo, le sue mani grandi e tiepide che dispensavano sulla sua pelle solo carezze, il calore che emanava con la sua sola presenza, queste piccole cose riuscivano a distogliere l’attenzione del diciassettenne dalla sua altra natura, quella oscura. Il sentimento che poco a poco stava scoprendo di provare per il mafioso non era certo comparabile a quello che sentiva per Alan, non era altrettanto intenso, però probabilmente si stava affezionando. Anzi, si stava abituando a lui, nonostante alcuni giorni proprio non lo sopportasse.
    Era notevole la capacità del più grande nel spedirlo fuori dalla grazia con una sola frase, buttata spesso lì per caso, e l’attimo successivo ridurlo ad un ammasso di gelatina tremante. Jason non sapeva mai come prenderlo, era una bomba ad orologeria.
    Per esempio: “Fra un paio d’ore arriva una consegna, se suonano apri. Mi sono preso la libertà di comprarti un quadro da appendere alla parete, per dare un po’ di colore.”
    La quale asserzione scatenava nel minore l’ira funesta: “Perché diavolo ti impicci dell’arredamento della mia casa?! Decido io cosa appendere ai muri, non tu! Non voglio nessun quadro! Sparisci! Vattene!”
    Così, Rinaldi ribatteva: “Perché? Che ho fatto di male, ora? Sono davvero convinto che quel quadro starebbe bene qui, donerebbe alla stanza un’atmosfera più confortevole. Voglio rendere questo monolocale una vera casa, dove potremmo vivere insieme, perciò dobbiamo arredarla bene.”
    “Vivere insieme?”
    “Sì, come adesso. Sarà la nostra casa, qui saremo al riparo da occhi indiscreti.”
    “Nostra?”
    “Sì. Voglio stare con te per sempre.”
    E Jason si scioglieva come burro al sole, borbottava insulti sconclusionati e andava a rintanarsi in bagno per l’imbarazzo.
    Alla fine, sulla parete sopra il letto Dominic aveva appeso “La notte stellata” di Van Gogh. E non era una copia.
    Era palese che, per quanto il moretto si impuntasse e tentasse di far valere la sua opinione, il rosso vinceva sempre, in un modo o nell’altro; Jason si sentiva frustrato e depredato della sua autorità, e ciò accresceva il suo livello di intrattabilità. Quando l’uomo gli affibbiava scherzosamente, ma non troppo, dello scorbutico, ormai il ragazzino non possedeva più i mezzi per dargli torto.
    Sì, era divenuto scorbutico.
    L’irreparabile, cioè l’evento che diede una scossa alla loro relazione, accadde intorno alla metà di luglio. Erano le dieci di mattina, faceva caldo, nell’appartamento c’erano circa trentacinque gradi, e nessuno dei due inquilini aveva la ben che minima voglia di alzarsi e fare qualcosa, fosse anche bere o andare al cesso. Se ne stavano spaparanzati su letto, seminudi e immersi in uno stato di trance a scrutare con espressione vacua il soffitto. Cercavano di respirare il meno possibile, per non riempire l’aria afosa di anidride carbonica e controllare la sudorazione. Gli unici rumori che si udivano erano quelli provenienti dalla strada o dalle abitazioni attigue.
    “Jason…” rantolò Rinaldi, senza muovere un muscolo dalla posizione supina.
    “Shhh! Non parlare! Se parli, respiri: ciò è male.” proferì secco l’interpellato, anche lui sdraiato a pancia in su, le gambe leggermente divaricate e un sottile strato di sudore che gli ricopriva ogni centimetro di pelle.
    “Devo pisciare.”
    “Sai già dov’è il bagno.”
    “Non ho le energie per alzarmi.”
    “Non azzardarti a bagnare il letto come un moccioso!”
    “Allora, alzati tu e vammi a prendere un catino, così mi sporgo dal bordo del materasso e la faccio.”
    “‘sti cazzi, vattelo a prendere da solo.”
    “Sto per farla…”
    “No!” Jason scattò in avanti e lo spinse giù dal letto.
    Per giunta, oltre all’irritazione, gli era venuto il fiatone a compiere quei piccoli gesti.
    “Ahi! Marmocchio, come hai osato?! Te la farò pagare…” la sua voce, partita combattiva, si affievolì via via. “Non riesco a parlare… fa troppo caldo.”
    “Non è una gran perdita, approfittane per pensare.”
    “Domani telefono a chi di dovere e compro un condizionatore di ultima generazione e tu non mi fermerai. Lo monteranno in poche ore, così potremo dormire in maniera decente.”
    “D’accordo, non ho obiezioni, vostro onore.” convenne che il marchingegno, giunti a tal punto, era assolutamente necessario.
    “Come hai fatto a sopportarlo per tutti questi anni?”
    “Docce. E bibite fresche. E poi, dai, è estate, è normale.”
    “No, qui si tratta di surriscaldamento globale. Ecco, ci siamo dentro, la temperatura di oggi ne è l’esempio tangibile. Quando mai ha fatto così dannatamente caldo?”
    “L’anno scorso, più o meno in questo periodo. Ma non te lo ricordi perché di mezzo c’è stato l’inverno. In più, siamo in città, quindi mescola lo smog e l’inquinamento e ottieni un mix di effluvi tossici che respiri tutto il dì, senza che tu te ne accorga.”
    “Non fare discorsi troppo difficili, non ti capisco…”
    “Tch! Se neanche mi ascolti, non farmi perdere tempo! Scimmione col cervello di una nocciolina!”
    “Guarda che, anche se adesso la mia forza d’attacco è inferiore al due percento, tutti gli insulti che tanto generosamente mi riversi addosso me li segno, eh.”
    Il quel preciso istante, qualcuno bussò alla porta e il moretto impallidì quando sentì la voce di Alan.
    “J.J.! Sono io, ci sei? Apri, ti devo parlare.”
    “Maledizione!”
    “J.J.?” domandò confuso Dominic facendo capolino da dietro il letto, essendo per l’appunto ancora riverso sul pavimento - almeno quello era fresco.
    “Zitto! Vestiti! Nasconditi in bagno!”
    L’uomo afferrò prontamente la pistola che teneva sempre carica sotto il cuscino. Tolse la sicura e la impugnò saldamente, acquattandosi teso e guardingo. “Nemici in vista?”
    “No, scemo! Vai al cesso, ora!”
    “J.J.? Ci sei?” esclamò Alan spazientito.
    “A-arrivo, Al! Un momento, sono nudo!” agguantò una maglietta bianca da indossare sopra i boxer e si lisciò i capelli spettinati con le dita, sotto l’occhiata perplessa del più grande. “Muoviti!” sibilò a denti stretti all’indirizzo del mafioso e lo sospinse con veemenza nel bagno, chiudendocelo dentro.
    Infine, fece un respiro profondo e aprì la porta con un sorrisino nervoso.
    “Al! Che ci fai qui?”
    “Ciao, devo dirti una cosa e… il letto è nuovo? E quello un Van Gogh?!” chiese allibito entrando.
    “Eh eh, già, volevo rimodernare un po’, sai com’è.”
    Fra sé e sé, pregò che l’amico non avesse intenzione di trattenersi a lungo, e non perché fosse contrario alla sua visita, quanto piuttosto per timore che il secondo inquilino commettesse qualche azione insensata, tipo balzare fuori per presentarsi. Alan doveva restare all’oscuro delle vicende avvenute in quelle settimane, altrimenti, di sicuro, avrebbe imbastito una predica infinita e noiosa sull’inesistente senso di responsabilità del diciassettenne. Però, ora che ci faceva caso, rivederlo dopo metà mese non gli aveva provocato chissà quali farfalle nello stomaco. Era felice, ovvio, ma in quel frangente prevaleva l’ansia che il compagno scoprisse di Rinaldi.
    Fino a poco tempo prima, smaniava che Alan restasse a casa sua a dormire, a mangiare, a chiacchierare, godeva della sua sola presenza, invece adesso desiderava che levasse le tende al più presto.
    Scrollò il capo sconsolato: sul serio, non comprendeva più come ragionasse il proprio cervello.
    “J.J., sono qui per chiarire le cose tra noi.”
    “Ah… e non le possiamo chiarire in un’altra occasione?” sorrise agitato.
    Diavolo, perché proprio ora che Dominic sta ascoltando? Alan, hai un pessimo tempismo.
    “No, non possiamo aspettare.” dichiarò e si sedette sulla sponda del letto. “Accidenti, è davvero comodo.”
    “Ti sei tolto il gesso, vedo.”
    “Sì, pochi giorni fa. Ma non posso ancora muovere il braccio per bene, devo stare attento.”
    “E tua madre come sta?”
    “Mh? Bene, bene. Lavora al negozio come al solito.”
    “E tu? Ora che sei in vacanza come te la passi?” si diresse nel cucinino e dal frigo prese due lattine di aranciata.
    “Niente di che. Ah, sono uscito con Raphael, ma probabilmente non vorrai sapere nulla e lo capisco. Per questo sono venuto-”
    “Ma no! Racconta!” lo incoraggiò, porgendogli da bere.
    Rimase in piedi a sorvegliare la porta del bagno, nell’eventualità che un criminale armato di pistola sbucasse esclamando “Sorpresa!”.
    “Ehm…” Alan si bloccò, colto alla sprovvista dall’umore apparentemente accomodante dell’amico. “Non serve che ti sforzi, J.J., davvero. Sai, ho riflettuto molto e finalmente ho realizzato dove sta il problema.”
    “Al, non mi sto sforzando, non preoccuparti.” tentò di distrarlo, invano.
    “No, andiamo al sodo. Tu mi ami, J.J., e chissà da quanto. Sono sempre stato cieco e ho ferito innumerevoli volte i tuoi sentimenti, barricandomi dietro una maschera di egoismo che scambiavo per gentilezza.”
    “Alan, ti prego, aspetta…”
    Se Dominic mi rivolgerà una sola domanda in merito, lo massacro.
    “Io non ricambio il tuo amore, ma ti amo in un modo diverso. Sei il mio migliore amico, una specie di fratello, una parte della mia anima. Non potrò mai fare a meno di te. Ho sbagliato a sottovalutare quello che provi, mi dispiace, però… cioè, io ci sarò sempre. La decisione spetta a te: se vuoi smettere di vedermi per un po’, lo accetterò. Ma non rinuncerò mai alla tua amicizia, J.J., è troppo importante per me. Tu… tu ci rinunceresti?”
    “Io… non lo so, Al. Sei piombato qui all’improvviso e…”
    Strano. Non percepiva più quella sofferenza dilaniante che gli annodava le viscere ogniqualvolta il rosso lo aveva rifiutato. Era… calmo. Spiazzato, ma calmo. Ormai, quella tiritera si protraeva da mesi, non si aspettava più che Alan venisse a confessargli alcunché.
    “Ti lascerò pensare. Chiamami, mandami un messaggio, avvertimi quando avrai scelto. Solo questo, non ti ruberò altro tempo. Non voglio ferirti ancora.” si sollevò e depose la lattina mezza vuota per terra.
    Il rosso abbracciò il moretto e i loro corpi si incastrarono come tessere di un puzzle. Alan e Jason erano compatibili spiritualmente e fisicamente, ma non socialmente, questo considerava il diciassettenne rispondendo al contatto. L’affetto che l’amico riusciva a trasmettergli era commovente e gli scaldava il cuore, ma non era sufficiente. Il minore avrebbe tanto voluto un più che l’altro non avrebbe mai potuto dargli.
    Dopo qualche secondo, Alan stampò le proprie labbra su quelle di Jason, unendole in un bacio casto.
    “Ti amo, J.J..”
    Questi si imporporò e distolse lo sguardo. “Lo so. Vai, ora.”
    “Promettimi che mi chiamerai.”
    “Lo prometto.”
    “Ok. Ci conto.” gli sorrise contento e lo salutò con un altro bacio sulla guancia.
    Appena il coetaneo infilò la porta, il giovane tirò un sospiro di sollievo, rigettando all’esterno tutta la tensione accumulata. Si terse con il polso la fronte sudata e si accasciò sul materasso, svuotato per il caldo e lo stress.
    L’attimo seguente, la porta del bagno si spalancò silenziosamente e Rinaldi ne uscì con un’espressione indecifrabile, la pistola ancora minacciosamente salda tra le dita, benché abbassata lungo il fianco.
    Si accostò a Jason e lo osservò dall’alto.
    “J.J., eh?”
    Il piccolo sbuffò e si nascose il volto sotto un braccio. “No comment.”
    “Oh, commentiamo, invece.” replicò con voce flautata il boss. “Chi era quello, J.J.?”
    “Non chiamarmi J.J.! Nessuno mi chiama così.”
    “A parte lui, vero? È speciale, per te? Sei innamorato?”
    “Senti, non mi va di discuterne.”
    “A me, sì.” inserì la sicura all’arma e la buttò sulle lenzuola sgualcite, poi si mise a cavalcioni del moro e gli immobilizzò i polsi ai lati della testa, con fermezza. “Ebbene?”
    “Cosa c’è? Togliti, pesi e mi soffochi.”
    Dominic ridacchiò sinistro. “Adesso, mio caro, si fa come dico io. Esigo sapere chi era quello.”
    “Il mio migliore amico, contento?” rispose intimidito, spaziando con gli occhi per la stanza.
    “Ci hai fatto sesso?”
    “S-solo una volta.”
    “E lo ami. Ma, a quanto sembra, ti ha rifiutato. Beh, non so se spaccargli il culo perché ha dato il ben servito a un gustoso bocconcino come te come un bravo imbecille, oppure perché ti ha fatto soffrire. La terza opzione sarebbe gioire del suo abbandono e approfittarne, ma prima ti concedo misericordiosamente di spiegarmi.”
    “Non c’è niente da spiegare. Mi sono dichiarato e lui ha detto no, fine.”
    “I dettagli.”
    “Ci conosciamo da tre anni e siamo diventati amici, mi ha aiutato quando avevo bisogno e ho sviluppato un attaccamento profondo. La pianti?” cercò di divincolarsi, ma il rosso rafforzò la presa, provocandogli una smorfia di dolore.
    “Perciò, non è quel teppista borchiato il mio rivale, ma lui?”
    “Non hai nessun rivale, mi ha già rifiutato!”
    “Ma il tuo cuore è suo. E questo… come descriverlo… mi manda in bestia.” sorrise minaccioso e si chinò su Jason, torreggiando con la propria mole sul corpo esile e magro dell’altro.
    “Sei geloso?” lo punzecchiò per sdrammatizzare, però non ottenne l’effetto sperato.
    “Sì. Se mi ingelosisco, non so cosa potrei arrivare a fare.”
    Jason si adombrò e lo studiò con cipiglio severo. “Se gli farai del male, otterrai soltanto il mio odio.”
    “Lo immagino, infatti non gli torcerò un capello. Dovresti, tuttavia, temere per te stesso, J.J..”
    “Che intenzioni hai?” domandò deglutendo.
    Dominic gli serrò i polsi in una sola mano e con l’altra passò sulla sua pancia delicatamente, alzandogli la maglietta e scoprendo il suo torace piatto.
    “Forse è meglio che ti rinfreschi la memoria.”
    Si lanciò sulla sua bocca e lo coinvolse in un bacio violento, abbattendo le difese dei denti e cercando la lingua del ragazzino. Lo divorò, famelico, mentre con le dita andava a stuzzicargli i capezzoli.
    “Io non voglio la tua amicizia, Jason.” ansimò.
    Il suddetto lo fissò furente, le labbra umide di saliva, arrossate e gonfie. “Se è il corpo che ti interessa, prendilo. Non posso impedirtelo.”
    “Ti prenderò, senza dubbio. Ma desidero innanzitutto il tuo cuore, anche se dovessi strappartelo dal petto.”
    “Non lo avrai così.”
    “Chissà? La perseveranza è una delle mie tante qualità. È ora di portare il nostro rapporto a un livello superiore.” soffiò sul suo collo e affondò nuovamente nella sua bocca, zittendo ogni protesta.
    Mentre lo baciava, pensava che non esisteva prelibatezza più squisita al mondo. Il sapore di Jason lo inebriava, allo stesso modo del suo odore, tanto che sentiva non ne avrebbe mai avuto abbastanza. La sua possessività era leggenda nel suo clan, ma il giovane non era a conoscenza di quel lato di lui, che poteva sfociare, se non soddisfatto, nell’ossessione morbosa.
    Rinaldi, sin dalla prima volta in cui aveva posato lo sguardo su Jason, aveva avvertito la freccia di Cupido trapassargli lo sterno e per svariati mesi aveva aspettato la giusta opportunità per rinchiuderlo in gabbia e cestinare la chiave. Ora era lì, sotto di lui, inerme e a disposizione, come un sogno che si avvera, però irrimediabilmente c’era un particolare di origine indefinita che stonava nell’armonia. Aprì le palpebre precedentemente abbassate e osservò il moretto: non sembrava felice di quello che stava succedendo e Dominic tutto voleva tranne compiere qualche gesto impulsivo e spiacevole per la sua preda. Non bramava il suo dolore, ma il suo piacere, i suoi gemiti goduriosi, le sue preghiere estatiche, il bisogno di lui.
    Una lampadina si accese e, sorridendo, si staccò da quelle labbra soffici e seducenti. Sempre tenendolo fermo, scese giù per il busto, lasciando una scia di baci roventi lungo il torace imperlato di sudore salato e sul ventre che si contraeva ad ogni tocco, e infine giunse a destinazione. Gli sfilò la biancheria rapidamente e gli divaricò le cosce, iniziando senza indugi a leccare il pene morbido per ridestarlo.
    “Ah! Dom… no!” squittì il diciassettenne, incapace di liberare gli arti.
    Compiaciuto da quella reazione, il maggiore succhiò più convinto, alternando lievi lappate con decisi risucchi, e in men che non si dica condusse Jason all’erezione.
    “A qualcuno qui piace il trattamento, eh?” ghignò, guardando intensamente il piccolo dal basso, nel frattempo che con la bocca inglobava la punta e la tormentava con la lingua.
    “Smetti!”
    “Perché?” alitò sulla cappella e ingoiò il sesso di Jason fino alla base, cominciando a pompare lentamente per procurargli il massimo piacere.
    L’altro si inarcò in maniera repentina ed emise un gridolino, ondeggiando le anche al ritmo di Dominic. Era più forte di lui, non riusciva ad opporsi, non aveva mai sperimentato un godimento talmente soverchiante da mozzargli il fiato in gola. Sarà stato anche perché nessuno, salvo un paio di episodi terribili e deludenti connessi a violenze, gli aveva mai elargito quel genere di servizio. Ora comprendeva il motivo per cui gli uomini sembravano perdere la lucidità durante l’atto o lo ricercavano con insistenza.
    Gemeva senza sosta e cedette sconfitto le armi a Rinaldi, dandogli carta bianca. Non era più in grado di pensare.
    È dannatamente bravo…
    L’uomo prese volentieri le redini del gioco, non attendeva altro, e aumentò la velocità di suzione, stimolandogli con le dita i testicoli e il perineo, premendo con movimenti circolari. Una manciata di secondi più tardi, Jason venne con impeto, riversandosi con un urlo strozzato nella sua gola e assaporando il secondo orgasmo più appagante della sua vita - il primo lo aveva provato con Alan.
    Con il respiro accelerato e la vista annebbiata, adocchiò Dominic pulirgli il pene dagli ultimi residui di sperma e cospargergli l’interno coscia di baci e succhiotti, ricambiando il suo sguardo con uno altrettanto liquido e focoso. Mollò i polsi di Jason e le mani di quest’ultimo si adagiarono inerti sul lenzuolo.
    In seguito, scivolò ancora più giù e gli inumidì l’apertura rilassata, di un tenero colore rosato, enormemente eccitante secondo il parere del più grande. Però, proprio quando stava per raggiungere il climax e spogliarsi dei boxer pure lui, il suo cellulare squillò, disintegrando l’atmosfera.
    Grugnì contrariato e afferrò l’apparecchio, penetrando al contempo il giovane con due dita bagnate di saliva.
    “Aahh! Dom!” esclamò Jason arrossendo, e di riflesso allargò le gambe.
    Egli ghignò. “Pronto? Sì, sono io, chi vuoi che sia?”
    Roteò le dita e le piegò ad uncino, beccando immediatamente la prostata. Il ragazzo gridò e il suo membro si inturgidì.
    “Uhm? No, non ho sentito alcun grido. Continua, dicevi?” Dominic seguitò a chiacchierare al telefono con tranquillità, mentre sondava le pareti interne del piccolo con inaudita maestria. “Quando? Adesso?!” arrestò il movimento e assunse un’aria corrucciata. “Non posso. Mh, che palle. Sì. Sì, ho capito. Va bene. Ok, ci sarò. Come?” riprese a far godere Jason e via via che la conversazione raggiungeva toni più accessi, anche la stimolazione si faceva più serrata.
    Ora Rinaldi era completamente assorbito dal litigio telefonico e continuava la penetrazione distrattamente, come se stuzzicare ripetutamente la prostata di qualcuno potesse fungere da antistress.
    “Ti dico di no! Se la consegna è avvenuta, non capisco che problema ci sia.”
    Il diciassettenne ansimava pesantemente, le mani sulla bocca per evitare di disturbare il boss. Percepiva di essere vicino all’orgasmo e ciò lo turbava un po’, dato che non si stava nemmeno masturbando. Era possibile venire per il solo piacere anale? Beh, presto lo avrebbe scoperto.
    Dio, non resisterò a lungo!
    Un gemito più acuto degli altri gli sfuggì involontariamente e questo richiamò l’attenzione di Dominic, il quale decise che il divertimento, purtroppo per sé, era terminato. Con il pollice spinse sul perineo e con i polpastrelli avvolti nella carne bollente di Jason fece perno sulla prostata, scatenandogli un orgasmo istantaneo e potente.
    “Te lo ripeto, papà, non sento grida, io. Sarà la tua immaginazione, la vecchiaia fa brutti scherzi, o ci saranno delle interferenze sulla linea, che ne so? Ora riattacco, così mi preparo. Sì. Ricevuto, a dopo.”
    Il moretto, appena udì la parola ‘papà’, si tramutò in una statua di sale, successivamente in un semaforo e infine in una teiera fumante. Cercò a tentoni il lembo del lenzuolo per coprirsi.
    D’accordo, l’ultimo grido che aveva lanciato sorpassava di molti decibel il precedente, ma il fatto di essere venuto proprio mentre quell’idiota di un mafioso era al telefono con il padre… non era imbarazzato, no, voleva morire.
    “Allooora, tesoro. Ti è piaciuta la mia tecnica? Disciplina tantrica.” ridacchiò divertito e scavò nelle coltri per trovare il viso congestionato di un Jason prossimo all’infarto.
    “Sei uno stronzo… ti odio.” pigolò con le lacrime agli occhi e a Rinaldi parve di essere stato fulminato su due piedi.
    Intenerito, lo baciò con dolcezza e gli accarezzò i capelli. “Ah, sei adorabile. Ma, dimmi, chi è stato il migliore?”
    “Eh?” lo guardò spaesato.
    “Chi ti ha fatto godere di più: il tizio di prima, il teppista o il sottoscritto?”
    Jason divenne color porpora e balbettò improperi, scansando l’uomo con una manata.
    Questi rise e lo lasciò fuggire in bagno, il cuore più leggero e sereno. “Ok, senti, io devo uscire. Torno a prenderti stasera per andare al club!” lo informò vestendosi.
    “F-fai come vuoi!” gli giunse in risposta il borbottio isterico del piccolo.
    “Va bene, tieniti pronto per le otto. Ciao, darling!”
    “Fanculo!”
    Il giovane si inginocchiò sulle piastrelle fredde e aprì il getto dell’acqua. Accidenti, con che faccia lo avrebbe guardato in futuro? Aveva giocato con il suo corpo come se fosse una bambola, senza ascoltare le sue proteste. In aggiunta, gli aveva regalato due orgasmi epici, che erano finiti direttamente sul podio. Cioè, non negava che gli fosse piaciuto, però Dominic lo aveva toccato contro la sua volontà.
    Si mordicchiò il labbro inferiore.
    Inoltre, questo li rendeva amanti?
    Il boss avrebbe preteso di fare sesso?
    Il bello era che Jason non si sentiva affatto in colpa nei confronti di Alan, o meglio dei sentimenti che aveva proclamato di nutrire per lui. Nel senso che aveva goduto, era stato divino e… non aveva mai pensato all’amico. Significava che non lo amava come credeva? Oppure no?
    Il caos regnava sovrano nella sua mente.
    In tutto quel casino, v’era tuttavia una certezza inoppugnabile: non doveva accadere di nuovo. Avrebbe relegato l’evento a episodio isolato e avrebbero dimenticato.
    Sì, era la strategia migliore per non rovinare tutto.
    Ma cavolo, che razza di ipocrita, lo avrebbe rifatto mille volte!
    Appoggiò la nuca sul muro e chiuse le palpebre.
    Provava vergogna per se stesso.
     
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  6. Lady1990
     
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    “Come siete rimasti, per stasera?”
    “Mi passa a prendere al locale con la Lamborghini Aventador LP 700-4.” rispose concitato un Harvey nudo come mamma lo aveva fatto, ravanando nell’armadio piegato a novanta, alla ricerca di qualcosa di decente da mettere.
    Gil, mentre era intento a squadrare impassibile il fondoschiena nell’altro, nell’udire quella frase rimase attonito, in silenzio, poi abbassò le palpebre a mezz’asta e guardò l’amico sconsolato. “Ti interessa più il modello dell’auto che il suo proprietario, eh?”
    “Scherzi, vero? La Aventador è il sogno di ogni appassionato di motori, dopo la Ferrari, sarei pazzo se non mi sentissi così… emozionato! Ho le farfalle nello stomaco!”
    “Sei elettrizzato per la macchina? Allora perché non chiedi alla Aventador un appuntamento?”
    Harvey lo ignorò deliberatamente e schizzò verso il bagno brandendo un paio di pantaloni di pelle e dei boxer arancio fosforescente.
    Gil notò subito quel dettaglio ‘abbagliante’ quanto un pugno in un occhio e non riuscì ad astenersi dal commentare: “Sei proprio sicuro di voler rovinare la serata in partenza?”
    “Eh?”
    “I boxer, Harvey. Ti prego, quelli no.”
    “Ma sono in tinta con la macchina!” replicò piccato lo spogliarellista.
    Al coinquilino cadde la mascella. “La macchina è color arancio evidenziatore?” gracchiò inorridito.
    “No, semplicemente arancione. Ma siccome non possiedo altri indumenti arancioni, mi accontento di questi.”
    “Sei vagamente cosciente, amico mio, che se ti metterai quest’orrendo pezzo di stoffa antiestetico, il tuo spasimante scapperà a gambe levate e non ti chiamerà mai più? Non rivedrai nemmeno le tue adorate auto. Riflettici.”
    “Una Lamborghini è più importante della sua opinione sulla mia biancheria intima. Poi da quanto sei diventato così suocero? Pensa agli affari tuoi.” infilò i pantaloni attillati e chiuse la cerniera.
    “Harvey, per la miseria!” esclamò Gil angosciato, alzandosi in piedi e raggiungendo il castano al bagno. “E’ la biancheria che definisce un uomo! Puoi girare anche con un sacco di patate, ma in camera da letto ciò che veramente conta è l’intimo. È quello che ti eccita e te lo fa venire duro, il modo in cui si accompagna alla tua figura, al tuo corpo, come ti fascia il culo… insomma, valorizza la persona! Ma se è di un colore da vomito, la libido fa puff in un secondo.” poggiò le mani sui fianchi e fissò il ballerino con rimprovero.
    “Sei un feticista delle mutande, Gil? Questa mi è nuova… Paul lo sa?” ghignò il giovane attraverso il riflesso dello specchio.
    “Il punto è che quando ti spoglierà, inorridirà in ogni cellula, e addio sesso!”
    “Gil…”, sospirò, “non ci andrò a letto stasera, questo è sicuro. Non so dirti se ci scoperò domani o tra una settimana, oppure tra un mese o un anno, ma è certo che non sarà stasera. Perciò stai tranquillo, non devi preoccuparti della mia vita sessuale.”
    “Non gli darai neanche un contentino?”
    “Non sono una troia come il mio coinquilino, sai?”
    “A chi hai dato di troia, stronzo? Ti ricordo che sto dando il mio culo ad una sola persona.”
    “Che finesse…”
    “Comunque, sopra cosa ti metti?”
    “Non so dove ha intenzione di portarmi a cena, non mi ha concesso alcun indizio, quindi credo che opterò per la classica camicia.”
    “Quella rossa!”
    “In realtà pensavo a quella azzurra.”
    “No, la rossa ti fa sembrare più sexy, una pantera lussuriosa!”
    “Pantera lussuriosa?” rise di gusto scuotendo il capo. “Agli ordini, vada per la rossa.”
    Gil tornò a sedersi sul divano e accese la televisione su un canale qualsiasi, rimuginando su quanto Harvey paresse cambiato dopo aver ricevuto il rifiuto di quel Raphael. Dall’esterno dava l’impressione di essere il solito ragazzo di sempre, sfrontato e arrogante, ma con un fascino innato e conturbante tale da spedirti gli ormoni in orbita. Tuttavia, il moro, che ormai lo conosceva bene, aveva notato la freddezza e l’indifferenza che sprigionava dalla gestualità e dalle parole, un voltafaccia abbastanza destabilizzante per Gil, che era abituato ad avere a che fare con un ‘maneater’ passionale e capace di sentimenti profondi, nonché di una serietà quasi fuori dal comune per un ventiseienne. Adesso, invece, Harvey gli appariva arreso, privo della combattività e della fierezza che lo caratterizzavano, come se si stesse lasciando trasportare passivamente dalla corrente.
    Sperò che quel Dorian riuscisse in qualche maniera a resuscitarlo, a regalargli di nuovo quel brivido di intensa emozione in grado di fargli brillare gli occhi ambrati da belva selvatica. Infatti, ora piuttosto dava l’idea di un felino addomesticato e sconfitto.
    Però, Dorian gli suscitava una sensazione strana e controversa: da un lato era un bell’uomo, ricco sfondato, dotato di charme, dall’altro non gli sembrava la persona giusta per Harvey, anche se preferiva astenersi dal giudicare chi non conosceva.
    Troppo diversi. Ok, gli opposti si attraggono, ma qui… è troppo.
    “Secondo me, siete troppo diversi. Non può funzionare.” mormorò distrattamente, fissando lo schermo del televisore, ma l’amico lo sentì.
    “Perché devi sempre recitare la parte del disfattista? Nella vita non si può mai dire con assoluta sicurezza cosa è possibile e cosa non lo è.” ribatté secco, dirigendosi in cucina a sgranocchiare i biscotti al cioccolato che teneva al sicuro in una scatola di latta nella credenza. Sapeva che non era saggio abbuffarsi di schifezze prima di cena, ma il suo stomaco brontolava in modo insopportabile già da un’oretta abbondante.
    “Sto dicendo quello che penso.”
    “Bene, evita.”
    “Insomma, dai! Tu sei più un tipo da fast food, lui uno da ristorante macrobiotico. Non avete niente in comune!”
    “Se si tratta di abitudini alimentari, concordo. Ma ci troviamo bene insieme e… aspetta, perché devo essere io, il tipo da fast food? Perché non da tavola calda?”
    “Perché la tavola calda fa pensare ad una persona semplice ma curata.”
    “E io non mi curo?” lo rimbrottò imbronciandosi e indicando con un plateale gesto delle mani il suo corpo pulito e slanciato.
    “Sei malato?” chiese Gil, squadrandolo con perplessità.
    “Megalomane e vanesio.” lo corresse con l’indice alzato come una maestrina. “Ma cos’hai contro il fast food?”
    “Io? Mi pareva che fossi tu ad avere qualche problema.”
    “Non ho nessun problema con i fast food. Mi sono offeso solo perché mi hai etichettato come ‘tipo da fast food’!”
    “Allora ce l’hai con te stesso.”
    “Non ce l’ho con me stesso!”
    “E perché te la stai prendendo tanto?” chiocciò con aria innocente il moro, che se la stava spassando a punzecchiare il collega.
    “Mi hai detto che sono un tipo da fast food! Non so nemmeno come sono fatti, questi tipi da fast food!”
    “Beh, descrivendoli per linee generali… sono un po’ come te.”
    “E cioè?”
    “Non scendiamo in futili dettagli.”
    “Perché non vado in giro in giacca e cravatta?”
    “No, è più… un’aura che emani. Sei il classico tipo da fast food.” sentenziò.
    “E su quali basi lo affermi?”
    “Se non sono vittima di realistiche allucinazioni, quello che stai addentando adesso è un hamburger con bacon, senape e formaggio.”
    Per l’appunto, nel frattempo, dai biscotti al cioccolato Harvey era passato a farcirsi un panino con carne, bacon, formaggio e pomodori. “Uhm? Quale hamburger? Hai le allucinazioni.” borbottò fingendosi tonto.
    “Non credo.”
    “E, tanto per la cronaca, ci ho messo la maionese, non la senape.” puntualizzò. “La carne è fredda.”
    “L’hai tirata fuori da frigo, vorrei vedere! È l’avanzo della mia cena di ieri.”
    “Cavolo, questa salsa è squisita. Cosa ci mettono per farla venire così buona?”
    “Lo vuoi davvero sapere?”
    “No, preferisco vivere nell’ignoranza, almeno manterrò il sorriso tutti i giorni.”
    “Ok, passami la Diet Coke. Perché hai il broncio?”
    “Avrei preferito essere ‘il classico tipo da tavola calda’… fa più chic.” rispose mogio il ventiseienne, porgendogli la Diet.
    “Ahh, per l’amor del cielo, Harvey! Era una battuta innocente, un semplice paragone!”
    “Beh, non l’ho apprezzato. Trovane un altro.”
    “Va bene. Allora diciamo che tu sei una matita smangiucchiata e lui una penna stilografica.”
    “Mi piaceva di più la metafora del cibo.”
    “Perfetto, perciò finiamola qui.” sbuffò Gil, bevendo un sorso dalla lattina.
    Harvey divorò l’hamburger e si leccò le dita, andando a raccattare anche le briciole di carne cadute sul tavolo.
    “La prossima volta lo porto a mangiare ad una tavola calda.” borbottò.
    “AH!” esclamò l’altro esasperato. “Fai come ti pare! Non ti dirò più nulla!”
    “Chi è l’acido, ora?”
    “Sei tu che mi trituri le palle!”
    “Tch, volgare…”
    “Ad ogni modo, ti auguro una buona serata. Goditela, tu che puoi.” sbuffò Gil con espressione afflitta.
    “Paul non ti porta mai in qualche posto carino?” indagò cauto Harvey, appoggiando i gomiti sullo schienale del divano.
    “Per lui il Maiden’s è carino quanto basta, non serve andare altrove, bla bla bla, lì c’è il bar, abbiamo a disposizione tutti gli alcolici che desideriamo e centocinquanta metri quadrati per scopare in tutte le posizioni del kamasutra. Cosa c’è di meglio?” spiegò ironico.
    Il ragazzo sospirò e gli spettinò giocosamente i capelli neri, dandogli poi un pizzicotto sul collo. “Non guarderò più il palco allo stesso modo, temo. Grazie per avermi informato."
    “Ahi! Non è colpa mia, è lui!”
    “Imponiti e digli che non sei contento. So che ci tiene a te, non potrà ignorarti.”
    “La fai semplice. Ora però dovresti spicciarti, guarda un po’ l’orologio.”
    “Ops! Spero che non sia uno di quei maniaci della puntualità.”
    “Domanda imbecille, Harvey.”
    “Vero. Ma se prova a farmi notare il ritardo,” afferrò chiavi e cellulare e lanciò un bacio al volo all’amico, “sventolerò un fazzoletto come in quei film drammatici e strappalacrime e gli dirò addio fingendo dispiacere.”
    “Divertiti!”
    Lo spogliarellista, mentre scendeva di corsa le scale del condominio, i capelli sciolti che svolazzavano sulle sue spalle larghe ad ogni scalino, si mordicchiava nervosamente il labbro nel tentativo di tenere a freno l’emozione. Persino il battito cardiaco si era rivoltato contro di lui, rifiutandosi di assumere un ritmo moderato e tranquillo. Stirò le labbra in una smorfia che voleva essere un sorriso e si grattò la nuca, stupefatto di se stesso.
    Da quanto non usciva con qualcuno?
    Negli ultimi anni, precisamente da quando aveva conosciuto Raphael, si era dato al sesso occasionale senza remore, conscio di non poter costruire qualcosa di serio con nessuno a parte il biondo. Realizzando di essere innamorato, aveva respinto le avances di molti uomini e si era sigillato nella sua gabbia di sogni e fantasie romantiche impossibili. Aveva avuto innumerevoli partner, alcuni se li era scopati più di una volta, ma il rapporto che consumava fra le lenzuola era avulso da qualsiasi sentimento, un mero bisogno naturale da soddisfare meccanicamente. Harvey denigrava i legami saldi tra coppie, più che altro per invidia, tuttavia cercava di dimenticare il dolore del suo amore non corrisposto affondando ripetutamente in corpi diversi, immaginandosi Raphael in tutto il suo splendore seducente. Non gli interessava contraddirsi da solo, essere incoerente, viveva alla giornata; odiava avere rimpianti e la sua routine era scandita da incontri superficiali e asettici. Tuttavia, sebbene cercasse di convincersi che la propria filosofia del carpe idem funzionasse, in verità tutte le mattine apriva gli occhi con la speranza che Raphael divenisse suo. Il futuro lo metteva in ansia, lo spazientiva, e il passato lo angustiava, perseguitandolo con i suoi rimorsi.
    Però, dal giorno in cui l’amico aveva distrutto i suoi castelli di sabbia, il castano non aveva più indugiato in contatti intimi con estranei; si era mantenuto casto non perché non avvertisse più la necessità, ma perché si sentiva svuotato, privo di energie, e la masturbazione era più che sufficiente per acquietare i bollori, perciò non v’era alcun motivo per andare a rimorchiare. Anzi, sarebbe risultato addirittura stancante e fastidioso, una scocciatura.
    Si stava lasciando andare alla deriva e non gli importava, tutto aveva perduto senso.
    Poi era arrivato Dorian, con i suoi vestiti firmati e le macchine da urlo. Comunque, non era per tali ragioni che aveva accettato di uscire con lui. Forse aspirava semplicemente ad una boccata d’aria fresca, a qualcuno che stuzzicasse il suo interesse e forse, solo forse, lo aveva trovato.
    Ma aveva veramente il coraggio di rimettersi in gioco? Ne valeva la pena?

    Poche ore prima, Dorian se ne stava seduto davanti alla scrivania a fissare assorto, con le sopracciglia aggrottate e l’espressione grave e concentrata, lo schermo del cellulare. Lui ed Harvey si erano scambiati i rispettivi numeri per accordarsi sul tempo e luogo dell’appuntamento e quella mattina l’uomo d’affari si era deciso ad inviargli un messaggio di conferma per la sera stessa. La risposta gli era giunta dopo pochi minuti ed essa era adesso la causa della sua confusione.
    La segretaria entrò in quel momento, senza premunirsi di bussare, tenendo fra le braccia magre un plico di fogli. Si avvicinò alla postazione del suo capo, che pareva un sovrano arroccato sul suo trono di pelle nera girevole, e depose il carico sulla scrivania.
    “Signor King, dovrebbe occuparsi di questi entro oggi, deve controllarli e firmarli.” proferì con voce squillante.
    “Mh.”
    “Ha chiamato il rappresentante dell’industria Fang stamani, riguardo la proposta di qualche mese fa.”
    “Mh.”
    “Signor King?”
    “Mh.”
    “Signor King!”
    “Eh?” sussultò, guardandosi intorno smarrito.
    “Qualcosa non va?”
    “No, no, nulla.”
    “Ne è sicuro?”
    “Liz, senti…”
    “Sì, signor King?”
    “Cos’è XD?” chiese, scrutando il display come se fosse un oracolo.
    “XD?”
    “Sì, xilofono e Denver.”
    “Una sigla?”
    “Verrebbe da pensarlo… ma per cosa sta?”
    “Non saprei.” rispose la donna, spiazzata. “Un codice?”
    “X… D… X si può leggere anche ‘per’, giusto? In matematica è il simbolo della moltiplicazione.”
    “E D?”
    “D… D… ah! Ci sono! Che genio!” esultò, sbattendo il pugno sul tavolo.
    La segretaria sobbalzò e sbarrò gli occhi, stupita dal comportamento inusuale di King e da quello strano fervore che mai esternava a lavoro.
    “Perdiana!”
    “Eh?” Aveva appena imprecato? Questa poi!
    “Perdiana. Per Diana. È un’imprecazione. Ho ricevuto un messaggio con il seguente testo: ‘Buongiorno! Ok, perfetto. A presto, perdiana.’ Originale, non trovi? Frasi dirette, con carattere, categoriche, che non ammettono repliche. Azzeccate per il tipo di persona quale è il mittente. Mi piace.” decretò con enfasi, mentre le sue labbra si piegavano in un sorrisone compiaciuto e gongolante.
    Liz preferì soprassedere e non farsi coinvolgere nella momentanea pazzia di Dorian.
    “Le porto il solito tè verde?” domandò affabile.
    “Sì, grazie.”
    Ella annuì e lo lasciò solo nell’ufficio che profumava di disinfettante al limone.
    “Perdiana… un po’ antiquata, come esclamazione. Però ha il suo fascino.” convenne tra sé e sé il trentottenne, mettendo da parte il cellulare.
    Tamburellò con le dita sulla superficie liscia della scrivania e controllò l’orologio: ancora cinque ore e lo avrebbe rivisto. Era in totale fibrillazione, neppure la montagna di fascicoli da visionare poteva distoglierlo dal pensiero di Harvey, dal ricordo del suo corpo atletico, dai muscoli scolpiti, dagli occhi ardenti in cui brillava costante una scintilla beffarda, di superiorità.
    All’improvviso, un rumore alle sue spalle lo distrasse e con un calcetto ben assestato fece ruotare di centottanta gradi la poltrona.
    “Ah!” gridò, saltando sulla sedia.
    Il lavavetri della compagnia di pulizie assunta dall’azienda gli fece un cenno di saluto con la testa, accompagnandolo con un occhiolino, per poi riprendere a lucidare la finestra con disinvoltura, in piedi sul montacarichi. Dorian grugnì sospettoso, dopodiché si diede uno schiaffo virtuale e tornò al lavoro, sebbene la consapevolezza di avere uno sconosciuto che spiava il suo operato lo mettesse alquanto a disagio.
    Terminò le proprie mansioni e alle sei uscì dall’edificio, in perfetto orario. Gli restava un’ora esatta per cambiarsi e attraversare mezza New York per raggiungere il Maiden’s Blossom. Era certo che, a far tutto, quel lasso di tempo gli sarebbe bastato e avanzato, tuttavia così non fu. Infatti, non appena si trovò dentro la camera-armadio, rimase gelato da un orrendo dilemma: indossare un completo raffinato e di alta qualità per risaltare la sua persona e fare di conseguenza bella figura, oppure optare per qualcosa di più sobrio e meno appariscente, tale da non rischiare di provocare imbarazzo nel ballerino? D’altronde, sapeva che egli non poteva certo disporre del suo benessere economico, e quindi di un guardaroba fornito e alla moda, ergo forse sarebbe stato meglio mantenersi sul modesto, senza eccedere troppo. In aggiunta, il posto in cui aveva prenotato, proprio pensando allo stile di Harvey, non era un ristorante chic e non richiedeva un abbigliamento specificatamente elegante. Anzi, probabilmente sarebbe apparso fuori luogo.
    Spulciò tra i vestiti firmati, scandagliando ogni pezzo di stoffa che gli capitava fra le mani e scartandolo allorché leggeva a che marchio apparteneva. Erano le otto meno un quarto quando gettò la spugna. Si infilò un paio di pantaloni bianchi di Versace, tinta unita e dal design molto semplice, e una camicia azzurra di Dolce e Gabbana. Niente cravatta, non voleva essere formale.
    Si tolse gli occhiali e si mise le lenti a contatto, si spruzzò il profumo di Hermès dalla punta dei capelli a quella dei piedi e uscì di corsa, per la prima volta in vita sua in ritardo sulla tabella di marcia.
    Sterzò davanti al locale alle otto e mezza e per poco non investì Harvey, che era sbucato dal nulla di lato. Costui lo guardò impassibile e immobile, le braccia incrociate sul torace. Abbassò il finestrino e si sporse dalla parte del passeggero.
    “Ehm… scusa, c’era traffico. Aspetti da molto?”
    Il castano sciolse la sua posa statuaria e gli intimò con un schiocco di dita di uscire dalla macchina. Dorian eseguì lievemente intimorito, pregando in cuor suo che l’altro non gli propinasse una sfuriata o un rifiuto. Senza proferire una sola sillaba, il ventiseienne salì in auto e si posizionò davanti al volante.
    “Sali.” disse in tono piatto e il maggiore deglutì.
    “Ok.”
    Harvey girò la chiave e il motore della Lamborghini ruggì, provocando nel giovane una scarica di brividi di piacere. Sospirò estasiato e sorrise.
    “Sto per avere un orgasmo.” gemette mentre premeva l’acceleratore.
    Dorian sgranò gli occhi e si pietrificò. Poi divenne paonazzo e si allacciò la cintura.
    “Gradisci un fazzolettino?”
    Lo spogliarellista inchiodò e si voltò di scatto a fissarlo dapprima stralunato, in seguito divertito. “La tua bocca sarebbe l’ideale.”
    “Eh?!” gracchiò allibito.
    Harvey scoppiò a ridere sguaiato, appoggiando la fronte sul volante. “Scherzavo, scherzavo! Ah ah ah! Evitiamo di fare incidenti, va bene? Non ho molto autocontrollo.”
    “Eh?!”
    “Ah ah ah! Sei uno spasso. Comunque, qual è la destinazione?”
    “Tra la quarantatreesima e la terza Avenue.” balbettò disorientato.
    “Ricevuto.”
    Era un ristorante giapponese abbastanza popolare, si diceva che la cucina fosse ottima. Il manager lo aveva scelto per venire incontro ai gusti alimentari sia suoi che del suo accompagnatore, poiché vagliando tutte le opzioni possibili gli era parsa quella più indicata. Del resto, se lo avesse invitato ad un normale ristorante, si sarebbe ritrovato a mangiarsi una minestrina o un piatto di verdure, mentre Harvey magari una bistecca o del pollo arrosto. Lì, invece, la specialità era sushi e riso, perciò era sufficiente che evitasse il pesce e il gioco era fatto. Il trucco, nella mente di Dorian, era tentare in tutti i modi di non sottolineare le loro differenze, sia per quanto concerneva il cibo sia per i vestiti o i luoghi frequentati. Desiderava sembrare un uomo comune, non uno spocchioso o schizzinoso attaccato ai soldi, che tra l’altro non era. Ma non si poteva mai sapere, la prima impressione è quella che conta.
    I camerieri li servirono in un battibaleno, con grande stupore di Harvey, che osservava quei tre orientali addetti al loro tavolo snobbare completamente gli altri clienti per esaudire ogni richiesta sua e di Dorian come se fossero dei principi. Cioè, dal canto suo, non era mai stato in un ristorante in cui magicamente un cameriere tornasse a riempirgli il bicchiere appena si svuotava di un centimetro scarso. Così, presto prese a guardarsi intorno sospettoso, temendo di vedere uno di quegli occhi a mandorla appollaiato alla stregua di un avvoltoio dietro di lui.
    “Senti…” chiamò titubante, “che posto è questo?”
    “Uhm?” il moro alzò gli occhi sul ballerino e assunse un’espressione perplessa. “Un ristorante giapponese.”
    “No. No, Dorian.” negò con veemenza, piegandosi verso di lui con aria cospiratoria. “Io sono stato in molti locali di sushi e simili e posso garantirti che il personale non è mai così prodigo di attenzioni come lo è con noi stasera. Cosa c’è sotto?”
    “Sono gentili e sanno fare il loro lavoro, cosa deve esserci di strano?”
    Ad un tratto, Harvey captò una presenza alla sua sinistra con la coda dell’occhio e fece un balzo sulla sedia. Un uomo giapponese vestito elegantemente e di qualche chilo sovrappeso si schiarì la voce e si inchinò al trentottenne.
    “Signor King, è un onore averla a cena.”
    “Mh? Grazie, ma credo di non conoscerla.”
    “E’ così, ma io conosco lei. Sono Takashi Miyamoto, il proprietario di questo modesto ristorante. Mio figlio ha cucinato per lei e i suoi colleghi al Plaza, circa cinque mesi fa, per l’evento di beneficenza. È rimasto colpito quando il signor King lo ha difeso da un cliente ubriaco e si è lasciato bagnare col sake, salvandolo dalla pubblica umiliazione.”
    “Oh! Sì, ricordo benissimo! Quell’ubriacone era un imbucato, la sorveglianza lo ha prontamente allontanato. Ma si figuri, non è stato un problema. Come sta suo figlio?” sorrise cordiale, davanti ad uno sbigottito e ammutolito Harvey.
    “Bene, ma da quel giorno non fa che parlare di lei ed esaltare il suo coraggio e la sua gentilezza, signore, e quando ho scorto il suo nome nella lista delle prenotazioni, ho subito iniziato i preparativi. Per tale ragione, mi permetta di offrire la cena a lei e al suo amico e non si faccia scrupoli: ordini pure tutto ciò che vuole, mio figlio e i miei dipendenti saranno felici di servirla.”
    “Oh… beh… grazie.”
    “Grazie a lei, signor King. Buona cena.” si inchinò nuovamente e li lasciò alle cure degli zelanti camerieri.
    Harvey sbuffò e ridacchiò incredulo. “Dio… sei così… ah ah! Assurdo!”
    “Sono assurdo?” domandò confuso e offeso il più grande.
    “No, no! Sei… fenomenale. Quante probabilità c’erano che tu prenotassi per l’appunto nello stesso ristorante in cui lavora uno dei milioni di giapponesi sparsi per tutta New York, un tizio che tu hai salvato dalla pubblica umiliazione? Dai…”
    “Le coincidenze della vita. Sul serio, non ne ero al corrente, non è stato premeditato per fare bella figura con te, se è questo che pensi.”
    “L’ho pensato, ma sono disposto a ritrattare le mie convinzioni. Cavolo, cibo gratis! La prossima volta, perché non salvi un famoso chef? Magari francese o italiano.” ingoiò l’ennesimo pezzo di sashimi e infine puntò il tamagoyaki, ossia un involtino di omelette ripiena, al centro del tavolo. “Lo mangi, quello?”
    “Sono vegano.”
    “Ah, giusto. Allora è mio!”
    Dorian lo fissò masticare con evidente sconcerto. “Sei una fogna.”
    Per poco ad Harvey non andò di traverso il boccone. “Un insulto?” tossì. “Da te non me lo aspettavo.”
    L’altro impallidì di botto e si mise sulla difensiva. Aveva commesso un errore madornale e doveva rimediare negli immediati dieci secondi, altrimenti Harvey lo avrebbe senza dubbio piantato in asso. Come gli era uscita quell’asserzione, diamine! Quale individuo sano di mente insulterebbe l’uomo che aspira a conquistare?
    “No! No… intendevo che…”
    “Sarei una fogna?” sibilò esageratamente minaccioso il castano, ma in realtà dentro di sé si stava rotolando come un ossesso.
    “Beh, s-sei… una splendida fogna, bellissima, affascinante… anche se le fogne di solito sono puzzolenti, buie, brutte, ma tu no, tu profumi, tu sei…” stava sudando freddo, gli venne quasi da piangere e implorare perdono. “Non sei una fogna, accidenti! Ma, se lo fossi, saresti la più meravigliosa fogna del globo e ti regalerei tutti i miei rifiuti più belli, che non toccherei nemmeno con un dito, quindi non sarebbero rifiuti, ma doni…”
    “Adesso sono un sacco della spazzatura e un tubo di scarico?” chiese severo, riservandogli un’occhiata bieca.
    “No, no, no! Volevo dire…” si nascose la faccia arrossata tra i palmi, arreso. “Meglio farsi portare il conto.”
    Harvey soffocò le risate nel tovagliolo, le spalle scosse da forti singulti. Rise per svariati minuti, sotto il crescente disagio e smarrimento di Dorian, il quale desiderava sotterrarsi nel cimitero più vicino al più presto.
    “Oddio… uh uh!” continuò a ridere così tanto che gli occhi cominciarono a lacrimare e lo stomaco a dolere. “Ripeto, sei uno spasso! Non rammento l’ultima volta che mi sono spanciato così! Bwahahahah!”
    Il trentottenne studiò sconsolato il pavimento, mortificato, e con le dita si accinse a tormentare il polsino della camicia. Era finita ancor prima di cominciare, e tutto a causa della sua imbranataggine. Eppure aveva eseguito anche un training psicologico durante il viaggio in macchina, con tanto di ‘nam myoho renge kyo’ e lavaggio del cervello sul fatto di comportarsi come ad una cena di lavoro. Aveva fallito e non v’era soluzione.
    Harvey riprese fiato e tornò a respirare regolarmente, seguitando a ridacchiare sotto i baffi. “Grazie per avermi regalato cotale momento di immensa ilarità, signor King.” rigirò il coltello nella piaga senza pietà.
    “Lieto di averla intrattenuta, signor Simmons.” rispose mogio.
    “E dunque,” disse il più giovane, riacquistando una parvenza di contegno, “che linea di condotta dovrei adottare con uno che mi ha appena definito una fogna, un sacco della spazzatura e un tubo di scarico?”
    “Ci sarebbero due o tre possibilità, invero: ucciderlo per soffocamento e abbandonare il suo cadavere alla mercé dei piccioni, fare a pezzi il suo corpo e spargere i suoi resti nei quattro punti cardinali, somministrargli del veleno ad effetto prolungato e poi arderlo vivo.” snocciolò mesto.
    “Che ne dice, signor King, se invece io e lei ci rivedessimo a breve?”
    “Ah!” esclamò esterrefatto Dorian. “Tortura psicologica! Lei è un genio del male, se me lo concede.”
    “Esattamente, ha indovinato. Per vendicarmi delle sue calunnie, lei sarà costretto a subire la mia presenza per un tempo indefinito e dovrà sottostare ad ogni mio capriccio.”
    “Sarei felice di diventare il suo zerbino, signor Simmons.”
    “Masochista?”
    “Solo con lei.”
    “Bene, l’accordo è concluso. Ed è inutile chiedere il conto, la cena è offerta dallo staff, caro signor King.”
    “Perdoni la mia stupidità.”
    “Lo farò se mi farà guidare per un’ora o due la sua favolosa Lamborghini.”
    Il maggiore spalancò la bocca, preso in contropiede, poi la serrò colto da un’illuminazione. “Lei vuole ammazzarmi provocandomi un infarto e gettare il mio cadavere fuori città.”
    “Ne discuteremo strada facendo.”
    “Morirò…”
    “Suvvia, potrà finalmente assistere ad una dimostrazione concreta della mia guida sportiva. Non per vantarmi, ma potrei far concorrenza ai piloti più celebri.”
    “Le credo, e questo mi preoccupa.”
    Harvey scosse la testa e gli premette sorridente un dito sul naso. “Tranquillo, davvero. Non hai nulla di cui aver paura.”
    “D’accordo.”
    “Dorian?”
    “Eh?”
    “Devo ammetterlo, sei veramente carino.”
    All’interpellato scoppiò un’arteria e diventò dello stesso colore della camicia dello spogliarellista. Boccheggiò per l’emozione e lo ammirò adorante, con lo sguardo da orata pescata con le bombe.
    “Ih ih! Andiamo.” ghignò Harvey e i due lasciarono insieme il ristorante.
    Quest’ultimo osservò in tralice il manager e una subitanea sensazione di calore gli invase il petto. Era impacciato, relativamente timido, intelligente e ‘puro’, come se fosse ignaro di qualunque tecnica d’imbrocco. Non era seducente, non conosceva l’arte del flirt e se non si fosse trattato di Harvey, il quale sapeva che Dorian non lo avrebbe mai offeso intenzionalmente, di sicuro qualcun altro lo avrebbe sepolto sotto una pioggia di sushi dopo essere stato apostrofato come ‘fogna’. Il giovane si domandò se egli avesse mai avuto una storia o anche se avesse mai fatto sesso. Presto lo avrebbe scoperto da sé, suppose.
    Il viso dolce di Raphael ancora popolava i suoi pensieri e i suoi sogni e non accennava a sparire, ma il cuore, all’improvviso, non faceva più tanto male da strappargli con violenza l’ossigeno dai polmoni. Quella sera, per la prima volta il suo cervello non corse mai al biondo, lo accantonò in un angolo remoto della sua coscienza e si dedicò con ogni fibra del suo essere ad uno sbadato e tenero Dorian Taylor King, beandosi del suo nervosismo e delle sue urla isteriche quando sterzava troppo bruscamente col solo scopo di sentirlo aggrapparsi a lui, smanioso di trovare un’ancora forte e sicura a cui potersi appigliare. Nonostante l’uomo fosse più grande di lui di ben dodici anni, in quei frangenti gli parve un ragazzino alle prime armi, adorabilmente indifeso.
    Gli piaceva il suo odore, il suo aspetto sofisticato e curato, i suoi occhi azzurri, le sue mani, le rughe che gli solcavano la fronte quando veniva colto dall’ansia, piccole linee che lo rendevano maturo e intrigante.
    “Musica?”
    “Si accende da quel pulsante.”
    “Metto la radio.”
    “Ok.”
    L’antenna captò una stazione in cui stavano trasmettendo “I will survive” di Gloria Gaynor e Harvey sollevò le braccia in aria iniziando a cantare a squarciagola.
    “Le mani sul volante, le mani sul volanteee!”
    “Rilassati!”
    “Ci ucciderai! Waaaa!”
    I’ve got all my life to live, I’ve got all my love to give, and I’ll survive, I will survive! Hey, hey!
    “Sei pazzo, oddio, sei pazzo…” il moro si aggrappò al sedile e pregò Dio e tutti i santi del paradiso di uscirne integro.
    Lo spogliarellista sorrise di nuovo, in pace, leggero, e mentre sfrecciava per le strade poco trafficate di periferia gli accarezzò gentilmente un guancia, un gesto dettato dall’istinto. L’altro si irrigidì come un tronco e arrossì, non accorgendosi del ghigno sinistro che si dipinse sulle labbra di Harvey.
    “Attento al dosso.” affermò questi pacato, scrutando dallo specchietto laterale l’immagine di Dorian, che a sua volta osservava rapito il suo riflesso dal vetro del parabrezza.
    “Eh? Aaah! Stronzo! Pagherai tu il carrozziereee!”
    “Bwahahah!” sgommò a velocità massima sull’asfalto, mentre l’orologio segnava la mezzanotte.
     
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  7. Lady1990
     
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    D’estate la Florida si colorava di tutte le tonalità più accese e ogni cosa pareva riprendere vita dopo il lungo letargo invernale. Per non parlare della vastità dell’oceano, che si estendeva a perdita d’occhio, i locali sempre affollati e le feste a ritmo continuo organizzate dai ragazzi.
    Alan e Daisy avevano un bungalow in un campeggio vicino alla spiaggia, a sud, comprato ai tempi in cui il padre del ragazzo era ancora vivo per trascorrerci insieme le vacanze. Ormai tutti gli anni, tra luglio e agosto, madre e figlio si concedevano la pausa estiva immersi nell’odore di salsedine, a migliaia di chilometri di distanza da New York, come una cerimonia, un rito di rinascita.
    “Sennò non è una vacanza!” esclamava piccato il defunto capofamiglia. Per lui, infatti, andare in ferie consisteva nell’interporre quanta più strada possibile tra sé e l’ufficio, così da risultare “libero dagli influssi malefici del Dio-denaro e della Dea-routine.”
    Aveva scelto la Florida perché adorava fare surf, e alla domanda “Perché allora non la California? È più lontana.” rispondeva: “Perché la Florida è più vicina e non spendo un patrimonio in benzina. Ti ho fatto la rima! Ah ah!”
    E così Daisy aveva deciso che tornare lì ogni estate sarebbe stata una specie di tradizione, per ricordare i bei momenti passati tutti insieme. Ad Alan piaceva venire in Florida, e in specie quell’anno aveva accolto con insolito entusiasmo l’idea di cambiare aria. Aveva bisogno di riflettere, assimilare, e non sarebbe stato in grado di farlo a New York, col pensiero fisso di Raphael e la certezza che egli vivesse, lavorasse e respirasse nella sua stessa città, a portata di metropolitana. Era partito senza voltarsi indietro, imbronciato e serio nonostante le voci allegre degli Abba in sottofondo alla radio.
    Che poteva farci, era triste! Chiunque lo sarebbe stato dopo un rifiuto categorico come quello del biondo. Insomma, costui gli aveva assestato l’ennesima batosta; in aggiunta, Alan si era pure reso conto di essere anche lui nel torto con Jason e, benché avessero fatto pace - perché l’avevano fatta, vero? - non poteva esimersi dal sentirsi ugualmente una merda.
    “Mamma, quando partiamo?” aveva domandato una settimana prima alla madre.
    “Domani, tesoro. Qualcosa non va?”
    “Voglio andare via! Voglio fuggire da tutto e rintanarmi in un’isola deserta e nutrirmi solo dei frutti della terra!”
    Daisy aveva sospirato, immaginandosi che c’entrassero qualcosa certe vicende amorose di cui lei era all’oscuro, ma non aveva approfondito solo per quieto vivere, non perché non fosse curiosa. D’altronde, anche lei aveva attraversato la fase del “voglio andarmene via da tutto e tutti e staccare la spina finché non ritrovo me stessa”, e successe proprio quando venne mollata dal suo primo ragazzo al liceo. Un altro episodio identico si manifestò allorché morì suo marito.
    Beh, se fosse stata una buona madre, avrebbe atteso i tempi di Alan per confidarsi; invece era una grande bastarda impicciona e, appena avesse avuto a disposizione l’occasione giusta, lo avrebbe torchiato sino a estorcergli anche la più insignificante informazione. Già gongolava al pensiero. Inoltre, spettegolare sulla vita del figlio era l’unico hobby che aveva e non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
    E dopo sole ventiquattro ore di interrogatorio, Alan aveva gettato la spugna e le aveva raccontato di Raphael, beccandosi per giunta una bella lavata di capo per essersi andato a invaghire di un uomo adulto e per di più vedovo.
    “Con tutti i ragazzi della tua età che ci sono, non dico sulla faccia della terra, ma a New York, proprio su di lui dovevi fissarti!”
    “Al cuor non si comanda.”
    “Alan, io, al tuo posto, mi sarei immaginata uno sviluppo simile. Tra poco compirai diciannove anni, ma resti pur sempre un bambino al suo confronto.”
    “Lo so, non serve che me lo dici tu!” aveva replicato inacidito.
    “E allora perché ti crucci? Volta pagina e va’ avanti.”
    “Non è così facile! Io mi sono innamorato!”
    “D’accordo, ma lui non ti ricambia. Fine della storia. E poi non sarei affatto contenta di vederti accompagnato ad uno di trentaquattro anni con un passato del genere.”
    “Cosa importa del suo passato! Non è stata colpa sua se la moglie e la figlia sono morte. Io lo amo per la persona che è adesso.”
    “Ma lui non ti ricambia, Alan.” aveva reiterato spazientita la donna. “Lascialo perdere e trovatene un altro. Vedrai, quando comincerai a frequentare l’università, la tua ottica cambierà. Lì sarà pieno di tuoi coetanei, di gente che condivide la tua stessa passione per l’arte, perciò troverai sicuramente qualcuno di più adatto.”
    “Può darsi, ma ho coltivato questi sentimenti per Raphael per più di due anni, mamma. Non posso cancellarli così, come se nulla fosse.”
    “Bene, quindi durante queste vacanze coglierai l’opportunità per ricucire le tue ferite e dimenticarti di lui.”
    “Non decidere per me!”
    “Ti sto solo dando dei consigli, perché ti voglio bene.”
    “Risparmiami, sono grande abbastanza per scegliere da solo cosa fare del mio cuore.”
    “Antipatico!”
    E per il resto della settimana si rivolsero a malapena la parola. Il giovane non si sentiva affatto a suo agio in quella situazione, non aveva mai litigato così pesantemente con Daisy e la frattura che si era creata non fece che inasprire, giorno dopo giorno, il loro rapporto. Nessuno dei due aveva la minima intenzione di avanzare delle scuse o intavolare un dialogo civile per rimettere insieme i cocci, troppo orgogliosi per provarci per primi.
    Di conseguenza, Alan trascorreva le sue giornate in spiaggia - aveva scovato un posticino appartato lontano dalla confusione e dal cicaleccio femminile - o nella sala giochi della piccola cittadina là vicino. Non gli andava più di disegnare, poiché il soggetto che la sua mente gli proponeva era sempre e solo Raphael, quindi il blocco era rimasto chiuso nello zaino, gettato in un angolo del bungalow.
    Un pomeriggio, mentre rientrava in campeggio dopo aver fatto la spesa, udì un capannello di ragazzine chiacchierare a proposito di uno scoglio altissimo a un paio di chilometri più a sud. Una stava raccontando di aver sentito dire che se ci sali sopra, gridi il tuo desiderio e ti tuffi dalla cima, quello si avvera. Le amiche sospirarono sognanti, mentre il rosso sghignazzava divertito senza farsi vedere. Magari fosse esistito veramente un posto simile! Se la leggenda corrispondesse a verità, sai quanti turisti lassù a gridare al vento. Baggianate a cui solo gli stupidi potevano credere.
    Però, dato che non aveva niente di meglio da fare, avrebbe potuto recarsi a dare un’occhiata, che male poteva esserci? Ma non avrebbe berciato come un imbecille.
    L’indomani mattina, armato di zaino, cappello, occhiali da sole e asciugamano, camminò in riva al mare in direzione sud ed effettivamente arrivò in vista dello scoglio verso l’ora di pranzo, sudato e affannato per la marcia sotto il sole e con le caviglie doloranti. Giunto in prossimità, si preparò a scalarlo per rimirare il panorama e nel caso scattare qualche foto con la macchina digitale che si era portato dietro. Tirava vento, ma non era così forte da rivelarsi fastidioso; anzi, piuttosto dava refrigerio alla sua pelle ricoperta di sudore e una piacevole sensazione di leggerezza alle sue membra indolenzite. Si sedette sulla roccia, sul bordo, e contemplò il fondale marino che riusciva a scorgere a occhio nudo. Col cavolo che avrebbe fatto un tuffo, come minino sarebbe morto spiaccicato. Che aveva in testa, la gente? Il desiderio si avvera se ti tuffi? Come no! Voli dritto in paradiso!
    Estrasse la macchina fotografica e scattò quattro volte, prima sull’acqua, poi sull’orizzonte, poi su stesso e infine sulla spiaggia deserta. Si spalmò la crema protettiva sul collo e sulle braccia e tenne addosso la maglietta per evitare irritanti scottature. Dopodiché, tirò fuori il blocco da disegno e un lapis appuntito e decise di mettere su carta ciò che anche nei suoi sogni, di recente, lo assillava. Delineò il contorno del viso, gli occhi, le sopracciglia, il naso, la bocca, il mento, le orecchie, i capelli, ma per ultime si lasciò le iridi, quelle che finora non era mai riuscito a rappresentare in maniera soddisfacente. No, ad Alan non bastava che fossero soddisfacenti, dovevano rispecchiare la perfezione, ossia precisamente la realtà. Chiuse gli occhi visualizzando il soggetto da ritrarre e li riaprì lentamente, mentre la mano si muoveva frenetica e apparentemente dotata di una propria volontà. Quando tornò lucido, sollevò il lavoro di fronte al viso e lo rimirò pieno di meraviglia e commozione. Quello era Raphael, il suo Raphael, un angelo bellissimo e triste. Persino la luce che brillava nelle pupille era la medesima che aveva osservato nel parco, quando gli narrava del suo passato. Una luce malinconica, nostalgica, uno sguardo velato dal rimpianto.
    Arricciò appena un angolo delle labbra e staccò il foglio dal blocco. Lo fissò intensamente, trattenendosi a fatica dal piangere. Infine allentò la presa e lo osservò danzare al soffio del vento, trasportando il ritratto sulle onde dell’oceano Atlantico.
    Dimenticare Raphael? Impossibile. Ma tutto quello che poteva fare era provare.

    “Paris! Nous sommes ici!”
    “Colin, piantala! Se lo dici un’altra volta, ti ammazzo!”
    “Dai, Kendra, rilassati. Siamo a Parigi!”
    “Alan, ma tu da che parte stai?”
    “Sono neutrale.”
    “Comodo.”
    Alan diede una lieve botta sul braccio dell’amica e rise.
    Come sua madre aveva predetto quell’estate, all’università aveva incontrato un sacco di ragazzi che condividevano i suoi interessi e da subito aveva legato con due suoi compagni di corso, Colin Nielson e Kendra Jamsow. Il primo era biondo, occhi azzurri e dal fisico allampanato; sebbene fosse secco come un chiodo, la sua figura emanava comunque una sorta di fascino magnetico, forse a causa del suo sguardo acuto e intelligente. Non era bello, eppure possedeva qualcosa di indefinito per cui non riuscivi a distogliere lo sguardo facilmente. Unica pecca? Era un chiacchierone. Dapprima, Alan aveva trovato spassosa la sua indole ciarliera e allegra, ma adesso riconosceva che alla lunga poteva risultare pedante. Era uno dei primi della classe al corso di pittura e anche a storia dell’arte non se la cavava male, grazie al suo innato spirito di osservazione. Kendra, invece, era una ragazza afro-americana, era nata e vissuta a Detroit finché non aveva ottenuto una borsa di studio per l’accademia. Lei era un tipo pragmatico, poco incline alle parole e alquanto suscettibile. All’inizio, il giovane era rimasto colpito dal suo carattere indomito, ma successivamente aveva compreso che sotto quella scorza dura si nascondeva una donna saggia e un’amica sincera. L’unico tratto della sua personalità che ancora gli provocava i brividi era il suo inspiegabile bipolarismo. Oppure era semplicemente lunatica, chissà? Ad ogni modo, in loro compagnia aveva riscoperto il gusto di essere adolescente, e trovarsi a contatto con ragazzi come lui gli aveva trasmesso la serenità che mai una volta aveva assaporato al liceo, in cui era sempre solo ed emarginato.
    I mesi erano passati, era arrivato novembre e con esso la tanto sospirata gita culturale a Parigi, in cui sarebbero andati a tutti i musei e le mostre che era umanamente possibile visitare in due settimane. Il loro gruppo, composto da una trentina di studenti, era capitanato dall’insegnante del corso di restauro e da quella di arte contemporanea. Stando al programma, non sarebbe stata loro concessa nemmeno un’ora libera, poiché la tabella di marcia era fitta di impegni. E anche qualora avessero avuto del tempo, non avrebbero potuto fare niente di più che stare accasciati come moribondi sulle panchine a causa della stanchezza e dei dolori alle gambe.
    Il primo museo che visitarono fu, ovviamente, il Louvre; a seguire, l’Orangerie, il D’Orsay, il Centre Pompidou, il Quai Branly, la Cité des Sciences, l’Institut du Monde Arabe, il Musée national des Monuments, il Gustave Moreau, Notre-Dame, Montmartre, il Rodin, il Panthéon, Versailles, e infine si recarono a Giverny per vedere la casa di Monet. Durante quest’ultima visita, Alan sospirò estasiato per tutto il giro e fece una valanga di foto ai laghi di ninfee, ai salici, al ponticino bianco che compariva in uno dei quadri del pittore e fu come se fosse stato catapultato in uno dei suoi sogni.
    Ci fu chi propose di fare un salto a Disneyland Paris, ma la cosa non andò in porto.
    Alan era esausto ma contento, stupito di quanto ci fosse da scoprire nella capitale francese e felice di non avere neanche la forza per pensare a Raphael. Quest’ultimo invadeva come uno tarlo fastidioso la sua mente, non aveva mai dato tregua al rosso, nonostante si impegnasse a distrarsi. Tuttavia doveva ammettere che non era più un’ossessione. Pian piano si stava abituando al nuovo tran-tran e il cambio d’ambiente stava dando i suoi frutti. Ora aveva diciannove anni, era cresciuto in altezza di ben sette centimetri, si era irrobustito - o almeno quanto bastava per non venire etichettato come ‘pulce’ - e i suoi lineamenti si erano fatti più maturi. In pochissimi mesi si era trasformato, era sbocciato nella parvenza di uomo che poi sarebbe diventato. Era fiero di ciò, desiderava lasciarsi al più presto alle spalle l’adolescenza infantile e vivere la sua vita coltivando le proprie passioni. Inoltre, il fatto di essere circondato pressoché costantemente da Colin e Kendra, gli rendeva assai più facile scacciare i pensieri e i ricordi amari. Non aveva mai parlato loro di Raphael ed essi non ne avevano mai fatto domanda, limitandosi a tirarlo su quando la malinconia lo assaliva.
    Soprattutto era Colin che ci sapeva fare: lo stordiva talmente di chiacchiere che alla fine il suo cervello anelava soltanto a un po’ di quiete e dolce riposo.
    “Senti, Alan.” lo chiamò l’amico.
    “Eh?”
    Stavano passeggiando sugli Champs-Elysée diretti all’Arc de Triomphe, e il giovane, già col fiatone, riusciva a malapena a tenere il passo sostenuto a cui li costringevano gli insegnanti, in particolare quella di arte contemporanea, soprannominata “La virago”.
    “Andiamo a comprarci un croissant?”
    “Sono le cinque del pomeriggio.”
    “Dai!”
    “Ne hai mangiati tre stamattina a colazione! Ti faranno male.”
    “Il mio stomaco può digerire di tutto.”
    “Ah, vero. Sei un mostro. Comunque, vacci da solo se vuoi. Io non posso fermarmi, altrimenti perdo il ritmo.”
    “Il ritmo?”
    “Sì: passo-respiro, passo-respiro, passo-respiro. Se mi fermo, tutto è perduto e collasso sul marciapiede.”
    “Mi sembri un anziano. Hey, Ken! Tu che fai, vieni con me?”
    “Ti sembra… anf… il momento… anf… di mangiare?!” ansimò quella.
    “Non ti ispira un bel croissant caldo, magari farcito di crema…”
    “Piantala o ti ammazzo… anf…”
    “Cosa vai a proporre a lei un croissant, proprio adesso che sta facendo la dieta!” lo redarguì Alan a bassa voce.
    “A me piace la Kendra grassottella! Sennò non sarebbe più Kendra.” commentò tranquillo e pacifico Colin.
    “Ti ho sentito!”
    “Scusa, Ken.”
    “Lo sai quanto è fissata col suo peso, non infierire!” il rosso tirò al più alto una gomitata nel fianco e proseguì di buona lena per non staccarsi dal gruppo.
    “Stupido… mucchietto d’ossa… idiota… con il cervello… di nocciolina…”
    “Ecco, l’hai fatta arrabbiare.”
    “Scusa, Ken.”
    “Ti ammazzo, Colin.”
    “Ok, però prima vado a comprare questo benedetto croissant. Voi andate, poi vi raggiungo. Faccio veloce.” li salutò infilandosi come un fulmine in un caffè.
    “Da dove la tira fuori tutta quell’energia?” borbottò Alan, più che altro rivolto a se stesso.
    “E’ iperattivo, non può farci niente. Ha sempre bisogno di muoversi.” rispose Kendra, asciugandosi il sudore sulla fronte.
    Benché fosse novembre e l’aria abbastanza fredda da necessitare di sciarpe, cappelli di lana e guanti, tutta la ginnastica che erano obbligati a fare per ore li portava a scaldarsi quasi subito, ma sarebbe stato da pazzi spogliarsi fuori col rischio di ammalarsi. Così, dovevano fare la sauna nei loro cappotti pesanti fino a sera, dove sarebbero rientrati finalmente all’hotel per una meritata doccia.
    Con Kendra e Colin stava bene, erano un trio affiatato. Discutevano spesso di cinema, letteratura, arte in generale e il weekend o nelle ore libere di lezione amavano andare alle mostre newyorchesi per tenersi al passo con le novità. Alan sentiva di aver trovato due pezzi della sua anima e ormai era più il tempo che trascorreva con loro che quello in cui era a casa o da Jason.
    Nel periodo in cui era iniziata l’università, o forse già durante le vacanze estive, lui e Jason si erano allontanati. Prima solevano chiamarsi quasi ogni giorno per raccontarsi qualcosa o solo per scambiare due chiacchiere, invece ora non si telefonavano più. L’ultima chiamata risaliva al ritorno di Alan dalla Florida e non si erano detti molto. Era stata una conversazione breve e concisa, fredda per gli standard a cui era abituato, ma non aveva indagato oltre sulle eventuali ragioni di quei secchi botta e risposta. Gli dispiaceva non vedere più il migliore amico, ma per giustificare la sua inesistente voglia di sentirlo - non ne capiva il motivo, in effetti - imbastiva scuse su scuse, come gli impegni per i corsi dell’accademia, visite a musei, stanchezza, e rimandava, rimandava… passarono altri due mesi e a gennaio il nome di Jason non figurava più nella lista dei numeri usati più frequentemente. Al suo posto c’erano quelli di Kendra e Colin.
    Da un lato, si ripeteva che era meglio così, che il cordone ombelicale che li legava doveva spezzarsi prima o poi e che ognuno proseguisse sul proprio percorso; dall’altro, ne sentiva la mancanza, come se una parte di sé gli fosse stata tolta senza avvertirlo, lasciandolo vuoto. Eppure, lui stesso aveva contribuito al distacco, non lo aveva più cercato e non si era più interessato alla sua vita. A volte continuava a domandarsi come stava, se Charles gli dava ancora fastidio, e la tentazione di telefonargli, o solo mandargli un messaggio, si faceva forte in quei momenti, ma poi abbandonava il pensiero con un sospiro, dicendosi che probabilmente, se nemmeno Jason lo chiamava, significava che aveva altro di cui occuparsi.
    Poi, a fine febbraio, Colin aveva fatto coming out, dichiarandosi bisessuale. Alan si era mostrato sorpreso alla rivelazione, ma in seguito aveva confessato anche lui di essere gay. Il compagno si era immediatamente proposto a lui, dato che era da un po’ di tempo che si era infatuato, e il rosso gli concesse una possibilità, per tentare e scoprire se era capace di sperimentare l’amore e il sesso con qualcun altro. Aveva perso la verginità con Jason, ma da quattro anni non aveva più avuto un contatto del genere con nessuno. Inoltre, era pure saltata fuori la cotta per Raphael, ergo non aveva avuto occasione di aprirsi con altri. Ci misero poco ad arrivare a quella tappa, ma dopo i preliminari Alan non fu in grado di andare avanti. L’affetto che provava per Colin era profondo, ma era assai diverso da quello che sentiva per Raphael. La loro relazione, iniziata nel migliore dei modi, alla fine assunse le connotazione di una solida amicizia condita dal sesso ed entrambi si trovarono di comune accordo a non invischiarsi in cose più grandi o complicate. Tuttavia, non giunsero mai fino in fondo, perché Alan non voleva. La loro storia fu una parentesi che aiutò il diciannovenne a fare luce sui suoi veri sentimenti, i quali non si erano affievoliti né erano mutati di una virgola, nonostante i suoi sforzi.
    Era innamorato del biondo bibliotecario ed era inutile convincersi che gli sarebbe passata.
    Non aveva più rivisto Raphael. Certo, aveva evitato con attenzione la zona della biblioteca comunale, ma non gli era capitato di incrociarlo per strada neanche per sbaglio. Provava nostalgia per i giorni in cui si alzava al mattino solamente perché sapeva che la sera sarebbe passato a trovarlo sul posto di lavoro, il ricordo degli appuntamenti e delle uscite che li avevano avvicinati e al contempo allontanati brutalmente sempre vivo dentro di sé. Prima di addormentarsi, desiderava poter godere di nuovo del suo sorriso, del suo profumo, della sua voce e piombava in uno stato di catatonia che lo teneva sveglio per svariate ore a rimuginare su ciò che aveva perso lungo il cammino. Non lo aveva dimenticato. E non era corretto affermare che si era arreso, no. Stava aspettando. Aspettava di crescere sufficientemente per avanzare il diritto di… non sapeva a quale diritto aspirare, in verità. Forse sperava che Raphael capisse che non era più un ragazzino, ma un uomo con dei sogni e delle prospettive chiare per il futuro. Forse ancora sperava che il biondo lo prendesse in considerazione.
    Però era presto, il momento tanto atteso sarebbe giunto più in là, magari. E nel frattempo avrebbe modellato se stesso nell’ideale di adulto che voleva diventare.
    Le giornate si allungarono, l’aria si mitigò e tornò a splendere il sole.
    In un giorno sereno dei primi di aprile, Alan e Raphael si imbatterono di nuovo l'uno nell'altro.
     
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  8. Lady1990
     
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    Da quando aveva dato ad Alan, in sostanza, il due di picche, Raphael aveva cercato di levarsi dalla testa il ragazzino, concentrandosi con tutte le energie sul lavoro e tenendosi occupato in altre mansioni che aveva procrastinato da troppo tempo per mancanza di voglia. Aveva tosato l’erba del giardino, rimbiancato la casa, fatto ordine tra le proprie cose e cambiato la disposizione dei mobili. La sua anima esigeva ad ogni costo un qualche tipo di novità, era un bisogno inconscio insopprimibile, quasi che l’arrivo di Alan avesse inspiegabilmente stravolto la sua intera esistenza dall’interno. Prima di conoscerlo, non gli era mai passato per la mente di spostare neppure un granello di polvere dalla morte della moglie e della figlia, ancora attaccato ai loro vecchi spazi. Infatti, non era più entrato nello studio di Alicia dopo il funerale e nella cameretta di Maggy aveva lasciato tutto così com’era.
    Invece, la mattina di una domenica di luglio si era svegliato per la prima volta nervoso e scontento dell’ambiente che lo circondava. Provava rabbia e sconforto, uniti alla solitudine che da anni imprigionava il suo cuore, così aveva cavalcato sull’onda di tali sentimenti e il resto era venuto da sé. Con gesti quasi cerimoniali aveva riempito numerosi scatoloni con i giocattoli della bambina, deponendoli in cima alle scale con l’intenzione poi di spostarli in garage e trasformare questo in un magazzino. Successivamente, era andato nello studio di pittura e aveva sfiorato in contemplazione per svariati minuti ogni opera della defunta moglie, avvertendo il respiro arrestarsi di botto. Aveva dovuto uscire molto spesso, prima di trovare il coraggio di svuotare la stanza. Ad ogni quadro che maneggiava, con estrema cura e attenzione, tutti i ricordi relativi ad esso riemergevano potenti e brutali, facendo vacillare la sua determinazione. Si era domandato se sarebbe davvero riuscito a fare piazza pulita di quei colori, di quei pezzi di sé che Alicia si era lasciata dietro, ma poi aveva accantonato i dubbi e continuato ad accatastare la roba in un pila perfetta da una parte. Munito di straccio, aspirapolvere e cencio, aveva spalancato la finestra cigolante e arrugginita in alcuni punti e tolto la polvere e lo sporco che in tre anni si erano accumulati, sentendosi morire dentro ogniqualvolta posava inavvertitamente lo sguardo su un dipinto in particolare, cioè il ritratto che la donna aveva fatto di lui nel periodo subito dopo il matrimonio. Pareva passata un’eternità da allora. Sebbene il soggetto fosse se stesso, quella tela rappresentava in ogni dettaglio soltanto Alicia; la pennellata, i colori, le sensazioni che gli trasmetteva non appena si fermava a contemplarlo, tutto era lei. E quel Raphael era il Raphael che Alicia vedeva, non l’uomo che scorgeva lui quando si rimirava allo specchio. Sarebbe stato meglio farlo sparire, insieme agli altri.
    Benché si applicasse quotidianamente con buona lena e si aggirasse come una trottola in giro per la casa, il biondo compiva ogni azione con aria assente, quasi non si trovasse veramente lì e stesse spostando le cianfrusaglie di un estraneo, reliquie di una vita non più sua.
    I suoi pensieri, nel momento in cui stava per addormentarsi, volavano alla moglie, alla piccola, per poi virare violentemente su un ragazzino dalla chioma rossa e ribelle e due smeraldi al posto degli occhi. Così, scivolava nel mondo dei sogni con l’immagine di Alan che lo cullava, senza comprendere appieno quel subbuglio di emozioni che lo travolgevano con costanza. Desiderava incontrarlo di nuovo, ma al contempo aveva paura. D’altronde, cosa mai avrebbe dovuto dirgli, nel caso in cui lo avesse rivisto? Di cosa avrebbero parlato?
    Non aveva senso; Raphael era colui che lo aveva rifiutato e Alan era colui che era stato rifiutato. Quale possibile interazione avrebbe potuto esserci tra loro? Di certo sarebbe stato assurdo.
    Allora, per quale motivo il suo cervello pareva non avere intenzione di cessare di proporgli con sadico divertimento il suo viso, il suo sorriso e la sua voce? Come doveva fare per smettere definitivamente di pensare a lui? Finora non si era mai reso conto di quanto Alan gli fosse entrato dentro, penetrando le sue barriere e la reticenza di cui si faceva abitualmente scudo, tra l’altro con estrema facilità. Che il somigliare in maniera inquietante ad Alicia avesse giocato a suo favore? Poteva darsi, ma in fondo erano due persone diverse.
    In principio era convinto di aver agito per il bene del ragazzino, proprio basandosi su tali considerazioni, ma se esse fossero state veritiere avrebbe dovuto pensare alla moglie, non ad Alan. Invece stava accadendo l’esatto contrario: la figura di Alicia veniva pian piano rimpiazzata da quella del rossino. Perché?
    Comunque, Raphael trascorse le ferie estive facendo ordine e mettendo in rassegna le memorie legate alla sua famiglia e quelle legate ad Alan, riflettendo quindi sui sentimenti che provava per l’una e per l’altro, mentre riempiva scatoloni su scatoloni e li rinchiudeva in garage a doppia mandata. Cambiò in seguito la disposizione dei mobili, buttandone via alcuni e comprandone di nuovi, arredando il suo nido secondo il proprio gusto. Chiuse anche la camera di Maggy e lo studio di Alicia, quest’ultimo ormai spoglio, ma avrebbe ponderato in futuro sul suo utilizzo.
    In autunno ricominciò a lavorare in biblioteca, ma il suo sguardo si era spento ancora di più e le giornate si susseguivano nella totale apatia. Il trentaquattrenne si era riscoperto indifferente a qualunque stimolo esterno, barricatosi di nuovo dietro una facciata malinconica e indecifrabile, e persino il signor Jills, di solito di indole allegra e curiosa, si trattenne dall’indagare sulle ragioni di quell’improvviso intorpidimento. Inoltre, a poco, se non a nulla, servirono gli inviti di Harvey a uscire a divertirsi o a venirlo a trovare al Maiden’s; se non fosse stato per il lavoro, Raphael se ne sarebbe rimasto dalla mattina alla sera inerte sul letto, come un cadavere che tuttavia, contro ogni logica, respira ancora. Un morto che cammina, era così che si sentiva. Sembrava essere regredito ai mesi successivi al funerale.
    Altri ne trascorsero e Glenda lo trascinò letteralmente a casa sua per la vigilia di natale, come tutti gli anni da quando Alicia non c’era più. La serata passò in modo piacevole, con Rose e Jack che si litigavano i regali e la loro madre che lo informava sulle ultime novità scolastiche dei due.
    Rose si era fatta il fidanzato, un suo coetaneo del liceo, e Jack stava prendendo ripetizioni private per alzare i suoi voti. Roger non fu presente a causa di un viaggio di lavoro in India, o almeno questa era la scusa ufficiale, e i genitori di lui non si fecero vivi se non per fare gli auguri ai nipotini tramite telefono.
    Però fu piuttosto Glenda a stupire positivamente Raphael: la donna gli raccontò di aver iniziato un corso di cucina e di aver ripreso ad andare in palestra, dove aveva rivisto delle sue care amiche con le quali aveva perduto i contatti. Il biondo l’aveva osservata per tutta la sera e la trasformazione che era stata operata su di lei era incredibile, poiché appariva assai più rilassata, sorridente e calma. Con Roger la situazione non si era sbloccata, ma a lei sembrava non interessare più.
    “Adesso sono i miei figli la cosa più importante che possiedo. Lui può fare quello che vuole, non lo amo più.” gli confessò sorseggiando un bicchiere di vino rosso, una volta che Rose e Jack furono nelle rispettive stanze. “Quando l’ho realizzato, sai, la mia vita è cambiata di netto e anche la mia prospettiva. Il lavoro è sfiancante come sempre, ma ora finalmente riesco ad avere il tempo per occuparmi di loro, senza struggermi per Roger. Li accompagno al campeggio, al corso di danza, alcune volte vado a riprenderli a scuola, cose che in passato faceva la baby-sitter. Credimi, Raphael, è il paradiso. Adesso vado a dormire soddisfatta di me e della giornata.”
    “Sono felice per te, davvero. Te lo meriti.” le sorrise e poggiò una mano sulla sua con aria partecipe. “Buon natale.”
    “Buon natale.”
    Il capodanno lo passò in compagnia di Harvey, che la sera del 31 dicembre bussò a sorpresa alla sua porta con due bottiglie di spumante e tre DVD dei suoi film preferiti: Il conte di Montecristo, Il Gladiatore e Frankenstein Junior. Rimasero davanti alla tv come due drogati per gran parte della notte, una bottiglia ciascuno in mano e nemmeno l’ombra di un bicchiere. Il brindisi lo fecero da ubriachi, sollevando in aria lo spumante e cantando a squarciagola, peraltro stonati come campane, We are the champions. Il ballerino si fermò a dormire lì, Raphael gli concesse generosamente il divano, e il primo dell’anno, nell’istante in cui si incrociarono per caso in cucina con l’irresistibile voglia di caffè, si guardarono in faccia come triglie lesse, senza ricordarsi un tubo della serata precedente e della relativa baldoria.
    “Harvey… che ci fai qui?”
    “Mmm… che giorno è oggi?”
    “Boh!”
    “Bah, allora vuol dire che sono venuto per il tuo caffè… credo. È molto meglio di quello che prepara il mio coinquilino. A giudicare dal casino in salotto, deduco che ce la siamo spassata, eh?”
    “Ah, oggi è il primo gennaio.”
    “Oh, auguri e buon anno!”
    “Auguri…”
    “…”
    Si fissarono straniti.
    “Devo smettere di bere.” commentò il maggiore.
    “Concordo.” annuì Harvey grave. “Alt!” esclamò a un tratto. Si guardò attorno e assottigliò le palpebre. “C’è qualcosa di… diverso.”
    “Eh?”
    “Mmm… ah! Dov’è andato a finire il mobile dell’ingresso?”
    “Ah, sì. Ho fatto pulizia.”
    “E perché il divano è a destra invece che a sinistra?”
    “Stesso motivo.”
    “Il quadro di fiori accanto alla finestra?”
    “Idem. Chissà perché, ma ho la sensazione di avertelo già detto.”
    Il castano squadrò l’altro con cipiglio allucinato. “Ora pare una casa da single.” ghignò. “Mi piace… mi piace! Mi vedrai spesso, presumo.”
    “Presumi male.” replicò monocorde Raphael.
    “Eddai!”
    “No. Hai il tuo appartamento, se la memoria non mi inganna.”
    “Ma lì c’è quel maiale di Gil!”
    “Non mi tange.”
    “Crudele!”
    “E’ pronto questo benedetto caffè?”
    “Credevo che volessi prepararlo tu.”
    “Tu sei arrivato prima!”
    “E con ciò? È casa tua!”
    “Tch! Opportunista.”
    Harvey restò sino all’ora di pranzo a bighellonare per casa, esplorando le stanze e notando quanto drastica fosse stata la ‘rivoluzione domestica’. In pratica, aveva tolto ogni oggetto relativo ad Alicia, conservando al contrario alcuni giocattoli, libri e peluche di Margareth. Si astenne dal guardare l’amico con compassione, incoraggiandolo invece a staccarsi dal passato e proseguire per quella strada. Più volte fu poi tentato di informarlo su Dorian, ma dopo un paio di tentativi infruttuosi volle soprassedere e rimandare l’argomento finché il suo rapporto con l’uomo d’affari non si fosse stabilizzato. Infatti, era difficile spiegare quale tipo di legame avessero e non gli andava di parlarne col biondo, non ancora. Senza contare che discutere della nuova fiamma con la propria ex cotta non è il massimo.
    Dal canto suo, Raphael si era accorto che lo spogliarellista era stato spesso sul punto di dirgli qualcosa, tuttavia non lo aveva forzato, aspettando che fosse lui a esprimersi liberamente; cosa che non fece neanche nei mesi successivi, accrescendo la sua curiosità.
    Giunse aprile e la sua routine era divenuta parte integrante del proprio essere, precludendogli la possibilità di pensare o scervellarsi riguardo a qualcosa che non fossero i dati che scandagliava ogni giorno sul computer. Non era felice e non era triste ed era consapevole che non lo sarebbe stato né il giorno dopo né quello dopo ancora, quasi stesse consumando la propria esistenza nell’attesa di una scintilla che lo riaccendesse.
    Una sera come tante aveva dovuto trattenersi in biblioteca per controllare dei volumi presenti negli archivi, un lavoretto abbastanza veloce e semplice che gli rubò più tempo del previsto, perciò uscì dall’edificio più tardi di quanto aveva programmato. Salutò il signor Jills con un cenno del capo e si diresse verso l’entrata della metropolitana, ad un isolato da lì - la macchina era dal carrozziere per un malfunzionamento. La gente che affollava i marciapiedi costituiva un muro da sfondare quasi a gomitate, facendogli venire il nervoso: per questo preferiva andare in auto, almeno evitava quel pigia-pigia da concerto rock mentre camminava. La borsa a tracolla sbatteva ritmicamente sulla coscia, una lieve brezza gli spettinava i capelli e il perenne chiacchiericcio delle persone lo avvolgeva come una coperta di suoni molesti e irritanti. Esasperato, scelse di attraversare un piccolo parco, oltre il quale si trovava la sua fermata, solo per non circumnavigarlo e tuffarsi negli incroci zeppi di pedoni. Non appena si fu distaccato dal rumore, esalò un sospiro di sollievo, accogliendo con gioia il cinguettio degli uccelli e il fruscio del vento tra le foglie degli alberi.
    Davanti a sé stava sopraggiungendo una coppia di ragazzi immersi in una conversazione dai toni concitati. Li ignorò e fece per sorpassarli, ma per sbaglio la sua spalla sinistra cozzò contro quella di uno dei due giovani. Si voltò subito per scusarsi, ma l’attimo seguente gelò sul posto.
    Colui che aveva urtato gli era estraneo, però l’altro lo conosceva bene: Alan.
    Come aveva fatto a non distinguerlo dianzi?
    Lo studiò con estrema attenzione e si meravigliò di quanto fosse cambiato. Era cresciuto in altezza e i lineamenti del viso, che nei suoi ricordi possedevano una nota infantile, si erano fatti più marcati e adulti. In un solo, misero anno si era totalmente trasformato. Stentava a crederlo. In secondo luogo, il suo corpo era più tonico; i muscoli della braccia, benché non di considerevoli dimensioni, erano più evidenti e gonfi e la forma perfetta dei pettorali traspariva dalla maglietta di cotone verde che indossava. I capelli erano più lunghi, tanto che li portava legati in un codino sulla nuca. Forse, l’unico elemento che non pareva mutato era la luce calda che gli brillava nelle iridi verde bosco.
    Pure Alan, nell’avvedersi di chi avesse sbattuto contro Colin, si era pietrificato sgranando gli occhi all’inverosimile.
    Entrambi si scrutarono con sconcerto, curiosità e stupore per un tempo che sembrò infinito, fino a quando il terzo incomodo non si schiarì la voce e spezzò la tensione che si era creata.
    “Ehm… Alan? Tutto bene? Lo conosci?” gli sussurrò all’orecchio.
    “Io…” Alan scosse la testa e fissò l’amico con espressione smarrita, per poi venire attirato di nuovo come una calamita su Raphael. “Ciao, Raphael.”
    “Ciao. Quanto tempo.” disse il biondo. Aveva la gola secca ed era un miracolo che avesse trovato la forza per articolare tre parole.
    “Già. Come stai?”
    “Eh? Bene, bene. Tu?”
    “Bene, grazie. Ah, lui è Colin, un mio compagno di università.”
    Colin e Raphael si strinsero brevemente la mano, scambiandosi un sorriso di circostanza.
    “Come mai in giro a quest’ora?” domandò il giovane, avvicinandosi al più grande.
    “Ho finito di lavorare poco fa, stavo tornando a casa.”
    “Capisco.”
    “Tu, invece?”
    “Sono appena stato con Colin al Cinematografo, proiettavano tre pellicole degli anni venti. Film muti. È stato interessante.”
    “Bello. Quindi ti occupi di cinema?”
    “No, no, mi sono iscritto all’accademia, come ti avevo detto. Però non mi dispiace andare a vedere qualcosa di nuovo, qualche volta.”
    Il diciannovenne aveva le mani sudate e le guance in fiamme, ed era solo grazie alla presenza calmante di Colin che non stava iperventilando come una ragazzina di fronte al suo idolo. Riusciva a malapena a reprimere l’emozione di essersi imbattuto in Raphael proprio lì, a circa un anno di distanza. Se non era destino quello!
    Di recente, aveva raccontato di Raphael a Colin, in uno dei momenti che seguivano una sessione di preliminari spinti, allorché entrambi si accasciavano privi di energia sul materasso, nudi e ansimanti; non aveva tralasciato nulla, prodigandosi anzi in descrizioni esaltate sulla sua bellezza e sul suo fascino - nemmeno stesse decantando un’opera d’arte, e Colin aveva ascoltato in silenzio. Alla fine del monologo, questi era scoppiato a ridere e aveva tirato ad Alan una potente cuscinata in faccia, appellandolo col soprannome di ‘Giulietta’, riecheggiando la famosa tragedia di Shakespeare e guadagnandosi terribili promesse di vendetta da parte dell’interessato.
    Così lo studente biondo, appena aveva udito il nome di Raphael rotolare fuori dalle labbra del compagno in un soffio estasiato, aveva immediatamente drizzato le antenne, predisponendosi ad assistere al teatrino drammatico e ridicolo che sarebbe andato in scena molto presto. Già pregustava le prese in giro con cui avrebbe tartassato Alan una volta al riparo da occhi indiscreti. Magari alla presenza di Kendra, sarebbe stato ancor più esilarante.
    Allora, è lui Romeo. Niente male, Alanuccio ha buon gusto.
    Una lampadina si accese all’improvviso e la sua bocca si stirò in un ghigno sinistro, ma i due piccioncini non lo notarono, troppo impegnati a sbavare l’uno sull’altro per badare a lui. Con passi felpati si mise dietro Alan e in un secondo gli circondò i fianchi con le braccia. Dopodiché gli stampò un lungo bacio sui capelli, inalando a pieni polmoni il suo odore squisito. In verità, enfatizzò molto ogni gesto, con l’intenzione di renderlo ben chiaro e lampante.
    “Alanuccio, dobbiamo andare.”
    “Eh? Ah… ehm, scollati.”
    “Perché? Ultimamente mi trascuri…” piagnucolò, sotto lo sguardo di ghiaccio di Raphael.
    “Sta’ zitto!” sibilò il piccolo a denti stretti, voltandosi a fronteggiarlo. “Che ti prende?”
    “Nulla, mi sentivo escluso.”
    “Stattene buono da una parte, ora non posso-”
    Colin si chinò fulmineo su di lui e lo baciò sulle labbra, senza tuttavia approfondire. Con gli occhi cercò quelli del celebre bibliotecario per ammiccargli provocatorio, ma una cascata di brividi freddi gli percorse la spina dorsale, una certezza che in pochi istanti si fece largo tra i suoi pensieri: sarebbe morto in maniera atroce. Raphael stava emanando una forte aura omicida e aveva la medesima espressione di un assassino pronto a colpire.
    “Colin! Che diavolo fai?!” Alan si girò agitato verso il trentaquattrenne con lo scopo di spiegare e tranquillizzarlo - ma perché tranquillizzarlo? Su cosa? Riguardo a chi? Non erano fatti suoi, no? Non era obbligato a spiegare alcunché - però si scoraggiò subito a causa delle pericolose scariche elettriche che parevano aleggiare intorno al gentile e pacato Raphael.
    “Beh, togliamo il disturbo?” propose Colin in un timoroso pigolio.
    La scena era davvero buffa: una pertica di quasi due metri tremante come una foglia davanti ad un altro bipede maschio di altezza media e in mezzo un soldo di cacio completamente spaesato e angosciato.
    “Perdonate me, non mi ero reso conto di stare interrompendo un appuntamento.” replicò il maggiore con voce tetra.
    “Eh? Eh?!” esclamò Alan. “No, no, no! Hai frainteso! Non stiamo insieme!”
    “No?”
    “No!”
    “Io avrei da ridire…” si intromise Colin, ma venne deliberatamente ignorato.
    “Ti ha baciato.”
    “Lo fa sempre!”
    “E a te sta bene?”
    “Sì… cioè no! Aspetta, mi sono perso.”
    “Se ti bacia, significa che vi frequentate.”
    “No… cioè, ci siamo frequentati per un po’, ma…”
    “Non devi giustificarti con me, Alan. Sono contento che tu abbia trovato qualcuno con cui essere felice, ero stato io il primo a spingerti a farlo. Sul serio, calmati.”
    “Io e Alanuccio siamo molto uniti, sai? Però non cessa mai di parlare di te, Raphael, ormai è come se ti conoscessi.” li interruppe di nuovo il biondino, frapponendosi tra il compagno e il bibliotecario con naturalezza. “E’ una noia starlo a sentire mentre ti osanna e tesse le tue lodi, però intendo comunque lottare con tutto me stesso per averlo. Quindi, per favore, potresti concederci la tua benedizione? Così questo funghetto rosso si metterà definitivamente il cuore in pace ed io avrò via libera.”
    “Colin? Ma che stai…”
    “Ebbene, Raphael? Te la senti di affidarlo alle mie esclusive e amorevoli cure?”
    Raphael rimase di sasso. Perché non avrebbe dovuto, in fondo, approvare la loro relazione? In passato, aveva più volte spinto Alan a cercare un ragazzo della sua età, a fare nuove esperienze, ma allora per quale dannata ragione adesso lo infastidiva così tanto?
    Contrasse la mascella e serrò la presa sulla tracolla, incapace di proferire parola.
    “Ok, noi andiamo!” disse il rosso, sospingendo l’amico lontano. “Passerò in biblioteca uno di questi giorni, va bene?” sorrise nervosamente al più grande, “Magari ti offro un caffè.”
    “Alanuccio, mi fai male!”
    “Spicciati, hai combinato un disastro! E taci!” lo picchiò alla base del collo e gli assestò una ginocchiata nelle terga. “A presto, Raphael! Ci vediamo!”
    “Mh…”
    I due studenti sparirono quasi correndo e Raphael li seguì con lo sguardo fino all’ultimo, scioccato nel profondo. Di tutto ciò che si era aspettato, questo travalicava ogni più assurda fantasia.
    Alan e Colin.
    Alan fidanzato.
    A suo dire non stavano insieme, però era evidente che tra loro c’era qualcosa di più dell’amicizia. Avvertiva l’impellente desiderio di spaccare la faccia a quel tizio, che a suo parere si arrogava troppe libertà. Come aveva osato baciarlo di fronte a lui? E perché Alan non lo aveva respinto con più decisione?
    Eppure avrebbe dovuto essere compiaciuto, sentirsi sollevato. La sua intenzione non era forse sempre stata di indirizzare il giovane verso compagnie più adatte? Lo aveva rifiutato, lo aveva anche umiliato e svilito nei sentimenti, perché ora avrebbe dovuto pentirsene?
    Non gli importava con chi se la faceva Alan, era giusto che vivesse la sua vita come meglio credeva. Davvero, non gli importava.
    No, si corresse, gli importava che Alan stesse bene e trovasse un fidanzato perfetto per lui. Ecco, quindi quel Colin non era ‘adatto’. Lo percepiva, il diciannovenne non sarebbe stato felice con un tipo simile. Ergo, non approvava.
    Non era geloso, affatto, non ne aveva motivo. Soltanto, non era soddisfatto della scelta di Alan, tutto qui.
    Sì, è così. Colin non mi convince.
    Non era geloso, questo volle chiarirlo anche col proprio cervello. Non lo era.
    Si voltò a rallentatore e camminò assorto verso la metropolitana, rimuginando su quanto si fosse fatto bello il ragazzino, su come fosse sbocciato bene, un vero gioiello. Ad un tratto, si sentì investito dell’obbligo di cercargli un partner impareggiabile, una sacra missione alla quale avrebbe adempiuto con tutto se stesso. Alan necessitava di un uomo gentile, attento ai suoi bisogni, maturo, interessante e bello. Difficile trovare un tipo del genere, ma ci sarebbe riuscito, per il bene del piccolo.

    “Alanuccio… ti prego…”
    “Soffri.”
    “Alaaaaan! Ahiaaaaa! Pietà, pietà!”
    Alan intensificò la presa sulle caviglie di Colin e si piegò in avanti portandosele appresso. Il compagno giaceva a pancia in giù sul letto del rosso, mentre costui, a cavalcioni sulla sua schiena, lo intratteneva con una tecnica imparata al corso di judo, che consisteva appunto nel tirargli da dietro le gambe su fino alla testa. Tuttavia, Colin non era affatto uno sportivo e la sua elasticità era pari a zero, di conseguenza bastava un leggera pressione sul bacino per farlo gridare in preda al dolore.
    “Mi arrendo! Chiedo umilmente perdono! Scusami, scusami!”
    “Fa male?” indagò sadico.
    “Sì, sì, fa male, fa male!”
    “Mh, può bastare.”
    Lasciò Colin ad agonizzare sul materasso e si recò in cucina a sgranocchiare delle patatine. L’amico lo raggiunse dopo una decina di minuti, barcollando piegato con una mano sulla schiena.
    “Bene, ora spiegami: che cazzo ti è successo, prima? Potevi evitare di farmi fare brutte figure, non pensi?” lo apostrofò con acidità. Buttò la confezione vuota nel bidone e attese una risposta.
    Colin sospirò e si sedette direttamente sul tavolo. “Era una strategia.”
    “Strategia? Su come farsi ammazzare brutalmente?”
    “Ascolta, ho solo reputato vantaggioso farlo ingelosire. L’ho fatto per te! Hai visto come ha reagito?”
    “Non me ne frega un fico secco! Baciarmi davanti a Raphael! Sei impazzito?!” sbatté con aria minacciosa la mano a pochi centimetri dalla gamba di Colin e questi sussultò.
    “Tu mi avevi detto che lui non era interessato a te, ma oggi mi è parso il contrario. Io dico che hai una chance.”
    “Chance un emerito corno! Ora crederà che stiamo insieme, capisci? Quindi si tirerà indietro, capisci? Quindi non vorrà più vedermi perché ormai si è convinto che sono accompagnato, capisci???”
    “Alanuccio, canta con me: ‘Relax! Take it eeeeaaasy!’ Pensieri positivi. Om!” assunse la posizione di un monaco buddhista in preghiera.
    Il giovane lo scrutò con cipiglio preoccupato. “Io non so da dove sei sbucato, ma sei conscio di non essere normale?”
    “Essere normali significa essere banali! Io sono un genio!”
    “Il genio dell’imbecillità.” sospirò afflitto e prese posto su una sedia. “Ora come posso rimediare?” borbottò tra sé e sé.
    “Continua a tendere la corda, Giulietta.”
    “Eh?”
    “Sì, cioè, fagli credere che stiamo insieme. Fallo rodere di gelosia e vedrai che scoppierà come una bomba.”
    “Non è il tipo, Colin. Anzi, si terrebbe tutto dentro fino ad avvelenarsi.”
    “Chi te lo dice? Un uomo innamorato e per di più inconsapevole di esserlo è imprevedibile! Sottoponilo ad un test e guarda come va.”
    “No, meglio chiarire le cose subito.”
    “Ma c’è il rischio che a quel punto lui non si senta più depredato di una sua proprietà e si rintani di nuovo dietro al muro, dato che il pericolo è scomparso. Dai retta a me, fidati.”
    “Se c’è una cosa che ho imparato trascorrendo il tempo con te, è che non mi devo mai fidare.”
    “Cattivo! Questa è una pugnalata al cuore!”
    Alan lo trafisse con un’occhiata eloquente e l’altro si affrettò a cambiare argomento.
    “Ehm… tornando a quello che stavamo discutendo prima di incontrare il tuo Romeo… dici che dovrei dichiararmi a Kendra?”
    Il rosso emise un verso esasperato e posò la fronte sul tavolo. “Colin…”
    “Lo so, lo so! Ma… insomma, litighiamo sempre, mi insulta ad ogni occasione, non manca mai di rimproverarmi per ogni minima questione, anche stupida, e pensa che io sia insopportabile…”
    “Beh, su quest’ultimo punto concordo.”
    “Alanuccio, aiutami!” lo supplicò facendo tremare il labbro inferiore.
    “Levati quel broncio dalla faccia. A parte che mi hai spiazzato quando te ne sei venuto fuori con la frase ‘Ho realizzato di essermi innamorato di Ken!’, di sicuro non vi avrei mai immaginati come coppia, ma cosa vuoi che ti dica ancora? Io non sono messo meglio e non mi trovo nella posizione corretta per darti consigli.”
    “La mattina, appena mi sveglio, mi ripeto convinto che quello sarà il giorno in cui mi confesserò, ma alla fine non ce la faccio. Cosa ci troverò di attraente in quella sottospecie di amazzone moderna?”
    “Dai, è simpatica e piacevole.”
    “Come un carciofo nel culo.”
    “E’ intelligente.”
    “Se la mena come una diva.”
    “E’ dolce.”
    “Dove?! Dove la vedi dolce?!”
    “E’ saggia, sa ascoltare.”
    “Non mi lascia mai parlare, mi zittisce sempre.”
    “Perché tu sei pedante. Moderati un po’ e vedrai che non la irriti.”
    “Da dove diavolo sono nate queste emozioni? Da dove è spuntata questa passione?”
    “Dal tuo cervellino bacato, ovvio. Siccome fai tanto lo spaccone, perché non le riveli tutto e la fai finita? Se poi non va, amici come prima.”
    “E’ così facile?”
    “Se lo fosse, nessuno avrebbe scritto libri sulla sofferenza che deriva dall’amore.”
    “E poi… Colin.”
    “Mh?”
    “Chiudiamola qui. Smettiamola di… andare a letto insieme. D’accordo, non facciamo nulla a parte masturbarci a vicenda o qualcosa di più, ma Kendra lo sa perché glielo abbiamo detto. Questo potrebbe essere un ostacolo non indifferente. Se lei sa che ce la spassiamo, considererà la tua proposta uno scherzo di cattivo gusto e si sentirà la ruota di scorta. Cioè, non lo so, ma potrebbe accadere. È un fattore da non sottovalutare.”
    Colin si intristì, ma convenne con l’idea di Alan. Aveva avuto una colossale cotta per lui sin dai primi giorni di università, ma in seguito si era rivelata essere una cosa passeggera. Voleva bene al piccoletto, tuttavia da poco aveva scoperto di provare dei sentimenti sinceri e complessi nei confronti di Kendra ed riteneva giusto concentrarsi solo sulla ragazza senza nascondere niente.
    “Ok, hai ragione.” annuì mesto.
    Il padrone di casa lo osservò arreso, con un sorriso gentile e comprensivo. “L’astinenza comincerà domani.”
    Il biondino si riscosse e, afferrando l’antifona, si aprì in un sorrisone gioioso.
    “Questa notte sarà l’ultima.” specificò Alan.
    “Assolutamente.”
     
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  9. Lady1990
     
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    Durante l’estate, a partire dall’ultima volta che Alan si era fatto vivo a casa sua, Jason aveva trascorso molto tempo a riflettere sulla natura dei sentimenti che lo legavano all’amico. Considerava emblematico il non aver provato quella fitta atroce di gelosia quando il rosso era venuto a scusarsi e a ribadire il proprio amore per Raphael, o quantomeno insolito, dati i precedenti. Aveva sempre sofferto nel sentirsi rifiutato, messo da parte come ruota di scorta, ma quella volta, quell’unica volta, non aveva avvertito niente. Niente. Ricordava solo di aver pregato che se andasse in fretta dall’appartamento per evitare che scoprisse il suo nuovo coinquilino. Non appena aveva spalancato la porta, era rimasto sorpreso di vederlo, ma non felice o emozionato; e quando lo aveva salutato, il sollievo che si fosse levato di torno aveva sbaragliato e sopraffatto ogni altro sentimento.
    La situazione lo aveva destabilizzato, facendolo cadere in una sorta di apatia condita da dubbi esistenziali, e nemmeno Dominic era riuscito a distoglierlo in alcun modo. Così, il mafioso decise di lasciargli tempo e spazio e lo informò che avrebbe passato il mese d’agosto all’estero per affari, mera scusa e probabilmente Jason lo capì, eppure il ragazzo non indagò e non chiese nulla, grato per la sensibilità dimostrata dall’altro, il quale comunque si adoperò affinché non rimanesse sguarnito di protezione ventiquattro ore su ventiquattro.
    A settembre il boss tornò e, dopo le quattro settimane in cui era stato abbandonato a se stesso e alla solitudine, il diciassettenne si stupì di provare gioia per la sua rinnovata presenza nella propria vita. Lo accolse con un sorriso e gli preparò la cena, poi si fece raccontare del viaggio e alcuni aneddoti inverosimili sulle strabilianti avventure estive di Dominic, di cui risero sino a farsi dolere la pancia. La notte dormirono abbracciati, poiché il giovane, più per istinto che per un vero ragionamento logico, ricercò il suo calore sotto le lenzuola, avvinghiandosi al suo corpo muscoloso e prestante a mo’ di koala.
    Dal canto suo, Dominic non tentò più di costringerlo ad un contatto più intimo, comprendendo bene che in quel momento Jason stava attraversando un periodo difficile costellato da enigmi complessi, perdite di riferimenti e domande circa il legame che lo univa ad Alan. Si limitò quindi a rispettare i suoi tempi, ad aspettare che fosse il piccolo a compiere la prima mossa, ad abbassare le difese e donarsi a lui. Infatti, si era risolto a non agire finché non fosse stato Jason stesso a domandarglielo, cosicché la vittoria sarebbe stata totale. Voleva che arrivasse a desiderarlo con la stessa bramosia con cui lui lo desiderava, senza imporgli alcunché e senza forzarlo, altrimenti non avrebbe ottenuto niente di più che il suo corpo. Ci aveva pensato, in effetti: possederlo con la violenza o approfittando della sua momentanea vulnerabilità lo avrebbe portato sì a fare sesso con l’oggetto che da mesi popolava i suoi sogni più spinti, ma oltre a ciò non ci sarebbe stato nulla. Si sarebbe rivelato soltanto un atto vuoto e squallido, buono unicamente a svuotare i testicoli e a regalare un appagamento effimero, destinato a svanire il giorno successivo. Non era questo a cui anelava dalla prima volta che aveva posato gli occhi sul moretto, voleva tutto e non solamente il suo corpo.
    Tuttavia, doveva ammettere che la loro vicinanza e la naturalezza con cui ormai Jason si comportava lo mettevano a dura prova. Innanzitutto, quando andava a fare la doccia non esitava a spogliarsi di fronte al mafioso, seppur con un’innocenza priva di malizia o secondi fini; seconda di poi, girava in mutande per quel minuscolo monolocale, perciò, se Dominic voleva riuscire a calmarsi e non gettare alle ortiche l’autocontrollo, la sola cosa che poteva fare era chiudersi nel cesso a doppia mandata. Per non parlare delle notti insonni trascorse con l’odore squisito che Jason emanava da ogni poro a inondargli le narici e le sue forme magre e spigolose spalmate con la colla sul proprio torace, sulla schiena, sulle gambe; oppure anche quando il respiro regolare del diciassettenne gli solleticava il collo, l’espressione indifesa mentre dormiva, la posa languida, le labbra lievemente dischiuse, le ciglia lunghe e nere a dipingergli tenui ombre sugli zigomi, il biancore della sua pelle quasi fatto apposta per essere profanato da baci, morsi e succhiotti. In sostanza, un paradisiaco inferno, una sadica tortura.
    In seguito, visto che la faccenda lo stava pian piano logorando e conducendo al punto di non ritorno - data la frequenza con cui si masturbava sotto la doccia - gli propose di trasferirsi con lui in una casa più grande, con più stanze, o almeno una a testa in cui potersi rintanare in salvo, ma il ragazzino si oppose sempre con fermezza, asserendo di essersi abituato e affezionato a quel buco e di non volerlo lasciare solo per un capriccio di un boss megalomane pieno di soldi.
    Di conseguenza, il grande Rinaldi si trovò costretto a comprare tutta la palazzina in cui viveva Jason, sfrattare gli inquilini previa una cospicua sommetta e usufruire dei nuovi, numerosi spazi a disposizione. Alla notizia dell’acquisto, Jason per poco non aveva dato di matto, gridando che non era suo diritto scacciare così le persone dalle proprie abitazioni, ma Dominic lo rassicurò dicendogli che si erano mostrate più che accomodanti quando avevano visto il denaro in contanti. Ergo, non c’erano problemi.
    Fu così che l’uomo trasformò il bilocale accanto a quello del piccolo in una reggia di dimensioni ridotte, da adibire a suo angusto nido in cui si sarebbe rifugiato allorché le parti basse avessero spedito il mayday. La soluzione si rivelò ottima e finalmente il mafioso poté comportarsi in maniera meno tesa, ora rilassato e a suo agio.
    A dicembre celebrarono insieme, loro due soli, il diciottesimo compleanno di Jason, con tanto di torta, addobbi e canzoncina scema, interrotta purtroppo sul nascere a causa dell’imbarazzo dallo stesso festeggiato, che assestò un gancio destro direttamente in faccia ad un dapprima divertito poi dolorante Dominic, il quale ne uscì ammaccato, con un ematoma di considerevoli dimensioni sotto l’occhio.
    “Non sai stare al gioco! Cazzo, che male…”
    “Scusa, scusa, scusa, scusa, scusa… mi dispiace…” pigolò Jason, sinceramente mortificato per quel gesto fuori luogo nei confronti dell’uomo che aveva organizzato la festa.
    Era quasi scoppiato a urlare dalla felicità quando egli aveva estratto la torta dal frigo al ritorno dal lavoro al club, erano anni che non spengeva le candeline con qualcuno - Alan gli faceva solo il regalo, niente dolce. Anzi, ad essere onesto non si ricordava di averlo mai fatto in presenza di qualcuno. Quando giungeva il giorno del suo compleanno, di solito andava al bar ad un isolato di distanza e si comprava un muffin al cioccolato, poi ci infilava sopra una candelina, esprimeva il desiderio e soffiava. Il tutto nella solitudine e nel buio deprimente del monolocale.
    Invece, non appena Rinaldi si era accinto a cantare, le sue guance erano andate in fiamme per la vergogna e non era riuscito a trattenere il pugno, non perché era arrabbiato, tutt’altro. Quindi si sentì in colpa per il resto della notte, dato che brindarono - succo di frutta per Jason e vino per Dominic - e mangiarono la torta di cioccolato e panna fino all’alba. Il trentaduenne, quando entrambi furono sazi ed esausti, gli consegnò il regalo: un biglietto aereo per due persone per l’Italia e soggiorno pagato nei migliori hotel a cinque stelle del bel paese.
    “Puoi andarci con chi desideri, non necessariamente con me. Sarà una vacanza di due mesi e la scadenza per decidere è ad aprile dell’anno prossimo. Sei libero di scegliere quando partire, basta che me lo comunichi per tempo così ti assegno le ferie dal club.” gli spiegò sorridendo beato, mentre il moretto lo riempiva di teneri bacetti sulla fronte, sulle guance, sul naso, sul mento e perfino sulla bocca.
    “Beh, mi sembrerebbe da ingrati non andarci con te che hai pagato tutto di tasca tua…” replicò Jason al colmo della contentezza.
    “Non preoccuparti, è il tuo regalo e voglio che lo usi come più ti pare. Se vuoi andare con Alan, non mi offenderò, tranquillo.”
    “No… non credo che Alan accetterebbe.” mormorò con un sospiro stanco, sedendosi sulle gambe del mafioso. “Non lo sento da un pezzo e credo che ormai si sia costruito la sua vita, con l’università e magari un fidanzato.”
    “Non ti abbattere! Chiediglielo, non hai niente da perdere.” lo incoraggiò il maggiore, accarezzandogli con i polpastrelli le cosce coperte dai pantaloni della tuta.
    “Meglio di no. Preferisco che il mio compagno di viaggio sia tu.”
    Dominic lo fissò con un ghigno. “E’ una dichiarazione?”
    “Tch! Ti piacerebbe.”
    “Ovvio.”
    “D’accordo, ci penserò.”
    “Alla dichiarazione di amore eterno?!” esclamò sbigottito Rinaldi.
    “No, idiota. Intendevo a chi portare con me. Adesso però sono le sette del mattino, andiamo a dormire?”
    “Sì, tra poco svengo.”
    “Ok. E grazie. È il più bel regalo che abbia mai ricevuto, davvero.” sorrise commosso, rigirandosi tra le dita il biglietto ed evitando con cura lo sguardo dell’altro.
    “Di nulla, sono stato adeguatamente ricompensato.” ridacchiò in risposta il boss, spettinandogli scherzosamente i capelli.
    Festeggiarono anche il capodanno, stavolta in un centro termale di proprietà di Dominic, e gennaio iniziò nel migliore dei modi. Ogni giorno che passava, Jason pensava sempre meno ad Alan, ripetendosi che era inevitabile dati i ritmi di lavoro e altre occupazioni - con l’appoggio del mafioso si era iscritto ad un corso di tiro con l’arco - ma in realtà sapeva che erano solo stupide giustificazioni. La verità era che non si sentiva ancora pronto per chiamarlo o rivederlo dopo così tanto tempo, avvertiva che i mondi in cui vivevano era veramente troppo distanti, talmente distanti da non riuscire nemmeno a sfiorarsi o a scorgersi da lontano. Ormai, benché si ostinasse a negarlo, Jason era entrato a far parte della malavita e se avesse ricontattato Alan temeva di coinvolgerlo in grossi guai. Dominic lo aveva sempre lasciato fuori dalle questioni interne al clan, lotte tra famiglie, sparatorie, contrabbando di droga, e non parlavano mai del suo lavoro. Se invece capitava, il rosso non scendeva mai nel dettaglio, mantenendosi più vago possibile. Comprendeva anche Rinaldi che la posizione del moretto era delicata e cercava di tenerla nascosta con ogni mezzo disponibile.
    La notte del 4 febbraio sancì per Jason la rottura definitiva tra il suo passato e il suo presente, tracciando una profonda linea di confine. Erano circa le tre e per le strade c’era pochissima gente, senza contare i barboni ubriachi sdraiati sulle panchine o i marciapiedi. I due coinquilini stavano tornando a casa, scortati da una decina di uomini armati in borghese, sottoposti di Rinaldi. Jason aveva insistito per non usare la limousine, desiderava fare quattro passi e respirare un po’ d’aria dopo sette ore chiuso nel locale a preparare cocktail. Il tragitto non era molto lungo, il club distava dall’appartamento solo una ventina di minuti, perciò era altamente improbabile che accadesse qualcosa proprio in quel breve lasso di tempo. O perlomeno questo era ciò di cui tutto il gruppetto era convinto. Tuttavia, quando si trovarono in vista della palazzina, udirono dei rumori di lotta provenire da non lontano, uniti a delle grida di donna e invocazioni di aiuto.
    Dominic fece cenno agli scagnozzi di estrarre le pistole e avvicinarsi al punto da cui giungevano i gemiti. Jason si nascose dietro la figura possente del boss e si aggrappò al suo cappotto, poi lo seguì, inoltrandosi in un vicolo buio e puzzolente.
    “Non allontanarti da me neanche di un millimetro.” gli ordinò l’uomo in un sussurro.
    “Sì, lo so. Ma non voglio che mi fai da scudo.”
    “E io non voglio che ti capiti qualcosa per colpa mia, perché non ti ho protetto come dovevo. Sta’ zitto e fa’ come ti dico.”
    Era un vicolo cieco e presto, nell’ombra, scorsero due figure aggrovigliate. Una sovrastava l’altra e a giudicare dai movimenti del bacino era palese cosa si stava consumando. La donna stesa a terra piangeva e singhiozzava, forse era ferita, ma non si divincolava perché il suo aguzzino le teneva i polsi ben inchiodati sull’asfalto.
    “Hey!” esordì un tirapiedi per richiamare l’attenzione dello stupratore. “Lascia quella donna. Subito!”
    L’individuo rise e arrestò i movimenti. Si voltò verso il gruppo armato e scoppiò in una risata folle. A tutti fu chiaro che il tipo era ubriaco o si era fatto.
    “Alzati e metti le mani sopra la testa!” continuò il sottoposto di Rinaldi.
    “Fa’ molto modus operandi della polizia…” bisbigliò Jason.
    “Perché, credi che la mafia prema solo il grilletto e tanti saluti?”
    “Sì, lo credevo.”
    “Non ho niente contro quella donna, non fa parte di nessuna famiglia.”
    “Allora perché la stai salvando?”
    “Per farmi fico davanti a te.” snocciolò con un’occhiata eloquente.
    “Se non ci fossi stato io, l’avresti lasciata violentare senza battere ciglio?” si infervorò il ragazzino, pur trattenendo la voce.
    Era abbastanza lontano dalla scena, ma se avesse parlato con un tono di voce normale, tutti avrebbero sentito i suoi discorsi.
    “Sì. Non sono un uomo di giustizia, Jason, ma un boss della mafia. Ciò che non riguarda la mafia, non mi interessa.”
    “Io non riguardo la mafia.”
    “Tu sei speciale. Sei l’unica eccezione.”
    “Perché? Cosa c’è di diverso tra me e quella povera donna?”
    “Beh,” sbuffò Dominic con una risatina, “io sono innamorato di te, non di lei.”
    Jason lasciò la presa dal cappotto del più grande e lo guardò come se lo vedesse per la prima volta.
    “La lasceresti morire.”
    “Sì.”
    “La stai salvando per apparire un eroe ai miei occhi.”
    “Sì.”
    “Ma ora che mi hai svelato le tue intenzioni e il tuo modo di ragionare, anche se la salverai non sarai mai il mio eroe.”
    “Eppure la salverò. Conterà pure qualcosa.”
    “Mmm, presumo di sì. Però lo farai solo perché il caso ha voluto che io fossi presente.”
    “Evidentemente, grazie a te, la morte non la prenderà oggi. Possiamo dire che la stai salvando tu.”
    “Sei un mostro.” sputò Jason arrabbiato e arretrò.
    “Sono Dominic Rinaldi, il boss del clan Rinaldi. Sono un criminale ricercato dal governo di sei Stati, lo sapevi? No, non te l’ho mai detto. Pensavi che fossi un buon samaritano o una persona normale solo perché non ti porto con me mentre ‘lavoro’? Ciò che faccio per la maggior parte del mio tempo da quando avevo dieci anni è uccidere, Jason.” accorciò le distanze, gli fece sbattere la schiena contro il muro di mattoni e lo ingabbiò fra le proprie braccia, scrutandolo con freddezza. “Sono un assassino, il peggiore in circolazione. Non mi faccio scrupoli ad ammazzare la gente, anche se mi limito a fracassare di proiettili solo la testa dei miei nemici. Gli estranei li abbandono al loro destino, non li calcolo di striscio, non sono affar mio. Se mi mettessi a salvare tutti gli innocenti in cui mi imbatto, non la finirei più. Inoltre, perderei la mia autorità all’interno del clan e addirittura la fiducia e l’appoggio della mia famiglia.”
    “Potresti farlo, se lo volessi. Potresti mollare tutto e trovare un lavoro onesto…”
    “Stronzate da telenovela o da romanzi d’amore per bambocci coglioni, che non sanno nulla del mondo.” si chinò e accostò la bocca all’orecchio di Jason. “Tu non sei un bamboccio, hai assaporato la crudeltà della strada sulla tua pelle. Conosci l’ipocrisia delle persone, il loro egoismo, la loro cecità. Quando ti prostituivi nessuno è venuto a salvarti, eppure avevi… quanto? Dodici anni? Poi è arrivato Alan, lo so, e gli sono grato per esserti stato vicino quando ne avevi bisogno, è un bravo ragazzo. Come lui ne sono rimasti pochi. Ma Alan arrivò molto dopo.”
    “C-come…?” boccheggiò, colto alla sprovvista. Si sentì all’improvviso pugnalato alle spalle, in un certo senso, dato che qualcuno aveva indagato sul suo passato a sua insaputa. Dominic non aveva il diritto di scavare nella sua vita seguendo i suoi capricci, non aveva un minimo di rispetto per la privacy?
    “Ho fatto le mie ricerche. Tornando all’argomento principale, cosa te ne frega? Tu hai sempre saputo che tipo di uomo sono, che genere di lavoro svolgo, che cazzo di posti frequento. E ora non cominciare a piagnucolare che non ne avevi idea. Avresti potuto rifiutare la mia offerta, invece l’hai accettata e hai fatto il tuo ingresso nel mio universo brutto e cattivo.”
    “Non mentire! Non mi avresti lasciato scelta, anche se mi fossi rifiutato!” sibilò, fissandolo in cagnesco.
    “Vero, domando scusa.” rise. “Esatto, Jason, sono il tuo carceriere e tu il mio prigioniero prediletto, la mia ossessione. Ma non lamentarti, sono stato infinitamente gentile sinora, concordi? Non ti ho mai fatto del male, sono stato dolce, comprensivo, e insieme abbiamo trascorso momenti sereni e piacevoli. Se mi chiedi il motivo è perché ti amo.”
    A Jason si mozzò il fiato in gola e si ipnotizzò a contemplare le iridi castane di Dominic, a pochi centimetri dal proprio viso.
    “Ti amo come non ho mai amato nessuno, farei di tutto per te, ma non rinuncerò ai miei poteri o al mio stile di vita. Perché? Perché se lo facessi, verrebbe meno anche la protezione di cui godi e potremmo essere presi di mira tutti e due da una banda rivale. E in quel caso, nessuno dei Rinaldi muoverebbe un dito per salvarci, poiché ho rinnegato il legame con la famiglia. Anch’io sono prigioniero, Jason, le catene che mi dilaniano i polsi sono più robuste delle tue e non sono in grado spezzarle. Per sopravvivere nel mio mondo ci sono delle regole. Te lo ripeto: non sono il principe azzurro dei tuoi sogni, ma il contrario! Sono un fuorilegge, un criminale, non posso permettermi azioni avventate come fare l’eroe, rischio di farmi scoprire dalla polizia. Meno interferisco con i normali cittadini, più sono al sicuro. E lo sarai anche tu, ormai ci sei dentro fino al collo.”
    “Avanti, obbedisci! Alzati!” intimò minaccioso lo scagnozzo, levando la sicura alla pistola.
    La sua voce distrasse Dominic e Jason ed entrambi decisero tacitamente di mettere da parte il discorso per un po’. Adesso dovevano concentrarsi sull’assalitore sconosciuto…
    “Fatevi i cazzi vostri. Se volete, ce n’è per tutti! Questa puttanella ha ancora la forza di ribellarsi.” biascicò quello in mezzo alle risate.
    … che tanto sconosciuto non era.
    Il ragazzino osservò Charles pietrificato e incredulo, mentre il suo incarnato diveniva pallido come quello di un fantasma.
    Charles…
    “Charlie?” esalò con un filo di voce.
    Rinaldi si irrigidì e contrasse la mascella, lo sguardo omicida che brillava sinistro nel buio. Estrasse la pistola dalla fondina all’interno del cappotto e controllò che fosse carica. Nel vicolo scese il silenzio.
    “Mh?” Charles assottigliò le palpebre e scandagliò il gruppetto, fino a scovare il cucciolo che gli era stato ingiustamente sottratto mesi prima. “Piccolo!” si alzò e barcollò in preda ad un attacco di vertigini. “Quanto sono felice di rivederti! Vieni qui, dammi un bacio!”
    “Charlie, che hai fatto a quella donna?” lo rimproverò il giovane facendosi avanti.
    “Mi annoiavo. Tu sei sparito, non ti trovo mai a casa quando esco dal lavoro…”
    “Che? Sei venuto a casa mia?” fissò Dominic in cerca di una risposta, ma quello fece spallucce e scosse la testa. “Quando?”
    “Vengo almeno una volta a settimana, ogni volta cambio giorno. Dove vai di notte, cucciolo?”
    Adesso soltanto un misero metro li separava.
    “Lavoro in un locale notturno. Sono di servizio al bar.”
    “Il nome? Così passo a trovarti!” lo abbracciò di slancio e affondò il naso nei suoi capelli profumati.
    Dio, quanto gli era mancato.
    “Non è il caso, Charlie.”
    “Perché no? Ah, non mi vuoi fra i piedi mentre lavori, lo capisco. Ma potrei aspettarti a casa quando stacchi…”
    Le mani di Charles si mossero in maniera più audace, così come le sue labbra: le prime a circondargli i fianchi sotto il giubbotto, le seconde ad assaggiare il suo collo.
    Jason.”
    Quell’unica parola rimbalzò sui muri pieni di graffiti e ruppe con violenza la cappa di tensione venutasi a creare. Pure il teppista si immobilizzò sotto una cascata di brividi gelidi. Deglutì e sollevò gli occhi verso l’individuo che aveva parlato.
    Dominic aveva il braccio destro alzato, l’arma ben stretta tra le dita e l’indice sul grilletto. Dallo sguardo, pareva più che intenzionato a trasformarlo in cibo per i vermi.
    Anche l’interpellato diventò una statua di sale e pregò di uscirne incolume. Dominic era furioso, lo percepiva nelle viscere, e una sola mossa azzardata avrebbe potuto decretare la sua morte. Una parte di lui era conscia che il boss non lo avrebbe mai ammazzato, l’altra però non era così convinta da metterci la mano sul fuoco. La gelosia rende ciechi e sordi e annulla la lucidità.
    “Chi è il damerino? Amico tuo?” domandò Charles afferrando l’antifona.
    “Uhm… ecco… diciamo di sì.” borbottò incerto, girandosi a fronteggiare un Rinaldi in versione killer spietato. “Va tutto bene, Dom. E’ tutto a posto.” protese le mani di fronte a sé, suggerendogli di abbassare la pistola.
    “Non vuoi più salvare la donna, Jason?” ringhiò il rosso.
    Il moretto rabbrividì, ma tentò di calmarsi. Studiò la vittima e lei ricambiò, una muta preghiera dipinta sul viso.
    “Charles, lasciala andare, ok?”
    “Ok. Hey, tu! Vattene.” ordinò perentorio alla donna e quella scappò via piangendo. “Era una prostituta, ma mi sono rifiutato di pagarla e ha cominciato a fare un sacco di storie.” spiegò Charles con un ghigno.
    “E non vuoi punire l’aggressore, Jason?” continuò Dominic in tono cavernoso, sfoggiando un sorrisino inquietante alla Joker.
    “Non… non serve…”
    “Ah no?”
    “N-no…”
    “Perché? Se non vuoi che lo uccida, potrei aiutarti a portarlo alla polizia.”
    “Ehm… no, è ok. Sul serio.”
    “Per me non è ok, Jason.”
    “Co-cosa vorresti fare?”
    “Mmm, sono indeciso. Sai, non riesco proprio a scegliere, le opzioni sono tante. Potrei tagliarlo a livello dell’intestino e impiccarlo con le sue stesse, merdose frattaglie; oppure potrei fargli un buco nello stomaco e sedermi comodo ad ascoltare le sue urla agonizzanti mentre scivola lentamente all’inferno; impallinargli il cervello e farglielo ingurgitare da morto, mozzargli una ad una le dita delle mani e dei piedi e disegnare ghirigori avanguardisti sul suo cazzo, per poi tagliarglielo e ficcarglielo su per il culo. Mi aiuti, Jason?”
    “Dom…”
    “Sì?”
    “Lascialo vivere…”
    “Questo rifiuto umano ti ha stuprato in svariate occasioni, ti ha trattato come una puttana, un animale, con crudeltà e disprezzo. Ti ha fatto del male, ti ha fatto piangere e il suo ricordo ti perseguita. Talvolta, di notte, chiacchieri nel sonno, lo sapevi? Quindi perché dovrei concedergli di respirare ancora per qualche giorno? Eh, Jason?!” chiese secco, articolando ogni parola con rancore e collera.
    “Io… smettila, Dom! Mi fai paura…”
    “Io ti faccio paura e non il tizio che hai alle spalle? Lo stai pure difendendo! Non mettere alla prova la mia pazienza, piccolo. Charlie morirà ora. Spostati.”
    “No! Lui…” disse agitato, il cuore che batteva all’impazzata nello sterno, “lui non farà più del male a nessuno, né a me né ad altri. Lo promette! Promettilo, Charlie.” gli consigliò e il teppista sorrise.
    Dopodiché estrasse il coltello a serramanico dalla cintura e lo puntò fulmineo alla gola di Jason.
    “State tutti fermi, se non volete che lo ammazzi! Buttate le armi, subito! Un solo passo falso e il cucciolo tirerà le cuoia!”
    “Charlie! Che fai?! Metti via il coltello!”
    “Zitto! Comando io, te lo sei dimenticato mentre questo bellimbusto ti fotteva? Puoi aprire la tua boccuccia solo per succhiarmelo, non per dirmi cosa devo fare! E voi, forza! Giù le armi!”
    Jason puntò gli occhi in quelli di Rinaldi e vi affogò dentro. Comprese che sarebbe stato inutile opporsi all’ineluttabilità, il destino di Charles era segnato. Serrò le palpebre e pochi secondi più tardi uno sparo riecheggiò nell’aria. Il corpo di Charles fu scosso da un breve spasmo e l’attimo successivo si accasciò a terra privo di vita, con un foro grondante sangue in mezzo alle sopracciglia scure. Il ragazzino cadde in ginocchio per lo shock, incapace di assimilare l’accaduto e terrorizzato dall’uomo che credeva di conoscere, la medesima persona con la quale aveva vissuto per mesi sotto lo stesso tetto.
    I sottoposti di Dominic rinfoderarono le pistole, il loro capo raccolse Jason come un sacco di patate senza incontrare resistenza e se lo caricò in spalla, infine tutti si allontanarono velocemente dalla scena dell’omicidio in silenzio, scambiandosi solo fugaci occhiate confuse.
    Il rosso aprì con le chiavi la porta dell’appartamento e se la richiuse dietro con un tonfo sonoro. Depose il giovane e lo sostenne sotto le ascelle per farlo rimanere in piedi. Poi lo schiaffeggiò e per la potenza con cui compì quel gesto la testa del minore scattò repentinamente di lato. Quest’ultimo non riuscì a frenare le lacrime e le iridi azzurre si riempirono di dolore.
    “Sei per caso affetto dalla sindrome di Stoccolma? Hai sviluppato un attaccamento perverso nei confronti del tuo carnefice? Mi stavi impedendo di trucidarlo come meritava, te ne rendi conto?” lo sgridò il boss.
    Jason si lasciò scappare un singhiozzo e il mafioso lo colpì di nuovo sull’altra guancia.
    “Piantala di fare la vittima!” sbraitò stritolandogli le braccia. “Saresti potuto morire! È una fortuna che sia bravo con la pistola, ma se non lo fossi stato…”
    Il moretto prese a piangere e a quel punto Dominic si vide obbligato a ingoiare la predica. Lo strinse a sé come se desiderasse inglobarlo.
    “Ti sei messo in pericolo… non farlo mai più, Jason. Ho avuto paura, tanta paura. Non ho mai avuto così paura in tutta la mia vita, perché non ho mai avuto qualcuno da proteggere. Ho rischiato di perderti stanotte e non mi è piaciuto.”
    Jason tirò fuori la voce e pianse più forte, le membra tremanti e fredde. In risposta, il trentaduenne si accinse a dispensargli gentili carezze fra i capelli, suo malgrado intenerito da una simile manifestazione di estrema fragilità. Non era pentito di averlo schiaffeggiato, il piccolo doveva capire quanto era stato idiota ad intromettersi, però non voleva causargli ulteriore sofferenza e non aveva più senso arrabbiarsi e infierire. Era andato tutto bene e nessuno ne era uscito ferito o cadavere, tranne il bersaglio.
    “Jason, guardami.” gli sollevò il mento e lo costrinse ad eseguire. “Non ho idea della ragione per cui tu abbia tentato di difenderlo dopo tutto quello che ti ha fatto, ma ora è morto. Charlie non c’è più, è sparito per sempre. Sei libero, il suo fantasma non ti tormenterà più. Tutto ciò che ti dava era dolore perché tu desideravi dolore. Lo desideravi per cancellare un altro tipo di dolore, molto più intenso e profondo, forse originato da Alan, se le mie supposizioni sono corrette.”
    Il diciottenne lo scrutò smarrito.
    “Come lo so? Tu e mia sorella minore siete simili. Ma lei è una donna del clan e non ha bisogno di protezione, sa cavarsela da sola. Tu invece no.” sospirò e lo fece sdraiare sul letto, salendo poi a cavalcioni su di lui. “Lascia che ti riveli una cosa: per cancellare il dolore dell’anima non serve il dolore fisico, perché esso in realtà si accumula senza che tu te ne accorga, facendoti precipitare nella disperazione più nera. Non c’è via d’uscita, il dolore non svanisce, resta lì a consumarti giorno dopo giorno, fino a che non muori.” gli sorrise con dolcezza e si piegò a baciarlo lentamente.
    “Dom… scusa…” singhiozzò Jason, allacciandogli le braccia dietro il collo.
    “Vuoi conoscere un segreto?”
    “Mh…”
    “Per sconfiggere il mostro del dolore occorre soltanto una goccia di pura felicità. Un istante di autentica gioia è in grado spazzare via ogni incubo e curare il tuo spirito. Io sono qui per prendermi cura delle tue cicatrici e per donarti tale felicità, se la accetterai. Dipende da te. È tempo di staccarsi dal passato e fare un passo avanti verso il futuro, ed io sarò sempre al tuo fianco a tenerti per mano.”
    “Dom…”
    “Ti amo, Jason. Ti amo.”
    Il piccolo arrossì come un semaforo e bofonchiò indefiniti insulti all’indirizzo del maggiore.
    “Ti amo.” reiterò Dominic baciandogli la fronte, ignorando gli epiteti che gli venivano rivolti. “Ti amo.”
    “Basta, ho… ho capito.”
    “Ti amo.”
    “Basta…”
    “Tiamotiamotiamotiamo!”
    “Basta! Ti odio!”
    Il rosso ridacchiò tollerante. “Lo so.” stavolta lo baciò veramente, inserendo la lingua e divorando le labbra di Jason. “Ti odio anch’io.”
    Il giovane assunse una gradazione ancor più purpurea e scacciò malamente il boss con una pedata dove non batte il sole. Nel frattempo che Dominic rantolava sul pavimento, si risolse a prendere una decisione riguardo al suo regalo di compleanno.
    "Dom, voglio andare con te in Italia. Partiamo domani!"
    "Se sarò ancora vivo... con piacere... porca...!"
     
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  10. Lady1990
     
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    Furono giorni intensi quelli di luglio, per Dorian. Da un lato c’era il lavoro che lo assorbiva completamente nelle ore diurne, dall’altro c’era Harvey, che occupava molte delle sue serate. Dopo il primo appuntamento, infatti, ne seguirono a ritmo a serrato altri tre nell’arco di dieci giorni, poi un altro dopo una settimana e l’ultimo verso la fine del mese, arrivando ad un totale di sei. Per l’uomo d’affari era come vivere in paradiso, trascorreva le giornate in uno stato di grazia perenne e pure la sua segretaria aveva notato quanto ultimamente fosse con la testa fra le nuvole, proiettato in un reame incantato in cui soltanto lui aveva il privilegio di entrare. Certo, nello svolgere le sue mansioni King continuava ad essere impeccabile e concentrato, però capitava di coglierlo a fissare il vuoto con aria sognante, immerso in chissà quali pensieri.
    Liz, da donna pettegola quale era, aveva subito arguito che dovesse esserci qualcosa sotto e l’ipotesi più accreditata fra le sue colleghe era che il capo si fosse innamorato. Si rodeva il fegato dalla curiosità di sapere chi fosse la fortunata, ma non osava indagare di persona, poiché domandare informazioni sulla via privata di King al diretto interessato era assurdo anche immaginarlo. Lei era la sua segretaria, non la sua migliore amica, ed esistevano dei confini che non dovevano essere oltrepassati, almeno non in ufficio. Ne era perfettamente conscia, Liz, eppure senza accorgersene si ritrovava spesso e volentieri a frugare di nascosto nel cestino di Dorian con la scusa di svuotarlo, in cerca di un indizio qualsiasi, oppure scandagliava le sue e-mail ogniqualvolta ne aveva l’occasione - accadeva che l’uomo glielo permettesse qualora non avesse il tempo di farlo lui stesso - per scovare un nome femminile sconosciuto o un contenuto sospetto. Ma finora la sua missione non aveva manifestato alcun esito. L’ultima opzione era riuscire ad aver accesso al suo cellulare, tuttavia si rendeva conto che era troppo rischioso e non intendeva ‘prenderlo in prestito’. L’unica era attendere che egli si sbottonasse da solo in un momento di estrema stanchezza, in cui avrebbe abbassato le sue difese, ma anche in questo caso era pressoché impossibile farlo cadere nel sacco, era troppo intelligente e troppo sveglio. D’altronde, se non avesse posseduto simili doti, non sarebbe giunto a ricoprire la posizione di amministratore delegato di un’azienda così famosa e di spicco.
    Comunque, il secondo appuntamento con Harvey si svolse al Central Park, un innocuo pic-nic serale all’ombra di una quercia secolare, con il cinguettio degli uccellini in sottofondo. Fu però molto breve, perché il ballerino aveva il turno alle undici al Maiden’s, quindi mangiarono, chiacchierarono di argomenti superficiali e infine Dorian lo riaccompagnò al locale.
    Al terzo andarono al cinema e il trentottenne considerò quell’uscita come la peggiore in assoluto; non tanto per il film proiettato, Iron man, e tutto sommato bello anche se non era il suo genere, quanto per il fatto che non avevano mai parlato perché intenti a guardare lo schermo. Non era avvenuto nessun contatto o scambio di sguardi, perciò a Dorian era parso di stare a casa sua da solo davanti alla televisione.
    Al quarto tornarono al ristorante, una tavola calda molto carina e in voga tra i newyorchesi, a detta di Harvey, e cenarono in tranquillità discutendo di libri, musica, film e lavoro. Praticamente si trovarono in contrasto su tutto, non c’era un solo argomento su cui andassero d’accordo, e per tale motivo si aprì un dibattito dai toni accesi su chi fosse meglio tra Tolkien e Hemingway, i Rolling Stones e Beethoven, Spielberg e Woody Allen, Via col vento e The Avengers e così via. Dorian si rivelò piuttosto ‘antiquato’, con dei gusti leggermente datati dal punto di vista di Harvey. Ad ogni modo il giovane dovette convenire che gusti del genere non erano affatto pessimi, quanto invece frutto di un’educazione diversa e dell’influenza di uno specifico ambiente. Se l’uomo d’affari diceva il vero, egli era cresciuto nell’alta società, perciò era stato costretto ad apprendere costumi e tradizioni di quel mondo chiuso, ristretto e privo di scappatoie verso l’esterno. Normalmente si crede che i ragazzi ricchi americani passino la loro adolescenza a organizzare festini con alcool a fiumi e ad ascoltare musica spaccatimpani, tuttavia Dorian, al contrario, sembrava vissuto in un universo parallelo. Gli insegnamenti che gli erano stati impartiti erano di vecchio stampo, dato che i suoi genitori erano nati in un’Inghilterra conservatrice e molto attaccata ai riti e al galateo dell’aristocrazia inglese. Di conseguenza, ascoltando tutto questo insieme di dettagli sul suo passato, Harvey promise a se stesso di operare una profonda opera di conversione farcita di gruppi come i Queen, i Sex Pistols, i Depeche Mode e gli altri che avevano nutrito la sua mente durante il liceo. Lo avrebbe iniziato anche all’hip-hop e all’ R’n’B, parola sua, altrimenti si sarebbe sparato a furia di sorbirsi Mozart.
    Il quinto appuntamento ebbe luogo in un parco divertimenti. Il ragazzo trascinò di peso Dorian in quel posto pieno zeppo di teenager, coppiette e famiglie con bambini, facendo accrescere il senso di disagio che provava nel frequentare luoghi simili. Insomma, pareva un carciofo trapiantato di forza in un campo di variopinti tulipani.
    “Rilassati, dai! Guarda, saliamo lassù!” esclamò un pimpante Harvey indicando un’altissima montagna russa con tanto di giri della morte.
    Se c’era una cosa che il moro aveva appreso stando con lo spogliarellista, era che non poteva mai permettersi la totale tranquillità. Harvey era un pazzo scatenato. Però non se la sentiva di negargli niente, non voleva arrecargli dispiacere o fare la parte dell’anziano, a discapito della propria salute fisica e mentale.
    “Non sarebbe meglio la ruota panoramica…?” propose esitante, deglutendo sonoramente.
    “Perché? Non dirmi che hai paura!”
    “No! No, non ho paura.” ribadì mentre diventava sempre più pallido. “Solo che… ho appena mangiato.”
    “Non è vero. E anche se fosse, ciò che mangi tu dovresti digerirlo in due minuti. Avrei capito nel caso di una bistecca o di tre Big Mac con patatine super-size e un litro di Coca, ma non certo un piattino di verdurine con una misera fettina di pane e un bicchierino di acqua. Andiamo, ti terrò io la mano!”
    “Ehm…”
    “Sbrigati, che c’è la fila! Ah, metti al riparo gli occhiali.”
    Dorian eseguì con espressione mesta e rassegnata, preparandosi psicologicamente al martirio. Salirono sul trenino e tirarono giù l’imbracatura di protezione.
    “Harvey, senti…”
    “Mh?”
    “Come mai quelli che sono scesi prima di noi piangevano?”
    Il ventiseienne ghignò: “L’emozione può fare questi effetti.”
    Il maggiore lo fissò interrogativo, ma gli venne la pelle d’oca. Poi Harvey, forse impietosito, intrecciò le loro dita e accarezzò appena con il pollice il dorso della mano di Dorian, il quale arrossì e distolse lo sguardo.
    Il piccolo convoglio partì sfrecciando alla velocità della luce e il respiro del pacato amministratore delegato gli si mozzò in gola per la spinta improvvisa, che lo schiacciò allo schienale. Quando giunsero a pochi metri dalla prima discesa ripida, quasi verticale, il castano ampliò il suo sorrisino sinistro e sollevò repentinamente le braccia, così che anche uno degli arti di Dorian si innalzò verso il cielo invece di rimanere attaccato alle maniglie di sicurezza.
    “Si volaaaaaaa!”
    “Kyaaaaah!”
    Harvey scoppiò a ridere in maniera sguaiata, ma non lasciò mai andare la mano del compagno. La giostra durò circa venti secondi, tuttavia all’uomo parvero venti secondi infiniti. Era come essere imprigionati in una centrifuga a massima potenza, non esattamente una bella sensazione. Inoltre, comprese che le lacrime dei passeggeri non erano tanto il frutto dell’emozione, ma piuttosto della velocità disumana. Scesero dal trenino, Harvey esaltato e saltellante e Dorian con un colorito verdognolo e l’aria sconvolta, e il più giovane decise che sarebbe stato meglio concedersi una pausa.
    “Allora? Piaciuto?”
    “No… sto per vomitare.”
    “Trattieni! Il bagno è da quella parte!”
    “Non ce la faccio…”
    Harvey studiò con agitazione lo spazio circostante. “Bidone… bidone! Laggiù!”
    Il moro rigettò anche l’anima e si comportò involontariamente alla stregua di uno straccio per il resto dell’appuntamento. Si prodigò in mille scuse e insistette molto affinché il ventiseienne si godesse comunque le attrazioni, lui lo avrebbe aspettato a terra. Perciò Dorian si accomodò avvilito su una panchina, tutto solo, ad osservare il via vai di gente davanti alle giostre, pentendosi di aver acconsentito a venire. Aveva immaginato infatti i possibili risvolti negativi, però vedere la faccia sorridente e in fibrillazione dell’altro lo aveva fatto capitolare. Perlomeno, lo accompagnò alla casa stregata e a fare una pedalata sul laghetto sopra una barchetta orribile a forma di cigno.
    A fine serata andarono a mangiare in un fast food, anche se Dorian rifiutò di ingerire un solo boccone di insalata spiegando di avere ancora lo stomaco ribaltato. L’uscita si concluse come al solito, con il trentottenne che riportava a casa Harvey, ma quest’ultimo, sentendosi in colpa per avergli rovinato l’appuntamento, gli regalò a sorpresa un casto bacio sulle labbra, prima di schizzare fuori dall’auto e sbattere la portiera. Dorian ci restò di stucco e per qualche minuto non si mosse, incapace di ordinare al suo cervello di connettere. Quando realizzò l’accaduto, si piegò appoggiando la fronte sul volante, e celando così le guance color porpora, e cercò di calmare il battito forsennato del suo cuore. Era stato un contatto fugace, troppo per memorizzare ogni particolare, ma poteva chiaramente avvertire le proprie labbra formicolare laddove erano state sfiorate da quelle del ragazzo. Se le leccò e l’emozione lo mandò in tilt. Sorrise allo specchietto retrovisore come un beota e ridacchiò, per poi mettersi a canticchiare un motivetto allegro.
    Al sesto, Dorian invitò Harvey a trascorrere un weekend in un resort a cinque stelle nei pressi di Miami, volo, alloggio e soggiorno già pagati di tasca sua, ma prenotò due camere singole, non sapendo se poteva azzardarne una matrimoniale o almeno doppia. Ovviamente desiderava spasmodicamente accorciare le distanze, osare di più, dare un aiutino all’imperscrutabile fato, ma la timidezza lo frenò a tal punto che fu teso tutto il tempo, a malapena riuscì a condurre una conversazione decente.
    Lo spogliarellista si avvide del turbamento di Dorian già sull’aereo all’andata e, a causa della sua indole esplicitamente sadica, si divertì a punzecchiarlo e a provocarlo ad ogni piè sospinto, sganasciandosi di fronte alla sua purezza e ingenuità. Tuttavia, ad un tratto si rese conto di stare esagerando e se avesse infierito o premuto troppo sull’acceleratore sarebbe successo l’irreparabile. D’altra parte, nemmeno lui aveva la minima idea di cosa desiderava dall’uomo, per la prima volta non aveva un piano d’azione attuabile. Tentare di conservare quel rapporto, basato su frecciatine e occhiate intense, in una posizione di stallo era difficile, perché la bilancia presto avrebbe propeso per un serio sviluppo o un amaro addio. Era inevitabile che prima o poi l’equilibrio si spezzasse.
    Poi, la notte prima della partenza per tornare a New York, Harvey calcò inavvertitamente la mano e i due finirono ubriachi di vino a baciarsi sul divanetto della suite di Dorian, che si sarebbe trasformato nei minuti a seguire nel palcoscenico di un atto assolutamente non premeditato. Anzi, il termine baciarsi non è corretto, meglio dire divorarsi a vicenda come due affamati che non toccano cibo da giorni. Il trentottenne aveva la mente annebbiata, sentiva caldo e i vestiti cominciavano a diventare fastidiosi. In più, il fiato bollente e speziato del giovane a cavalcioni su di lui non lo aiutava a ritrovare neanche una parvenza di autocontrollo. Era assalito da ogni lato, mani e labbra lo violavano sotto la camicia, tastando, suggendo e mordendo, senza mai dargli tregua. I rispettivi respiri si mescolavano, le bocche si cercavano con foga, i bacini si sfregavano l’uno sull’altro per regalare un po’ di sollievo alle erezioni coperte dai pantaloni.
    Dorian posò i palmi aperti sulle natiche del ballerino, saggiandone la consistenza privo di pudore, mentre Harvey gli tormentava il collo e le orecchie, spedendogli scariche di eccitazione ovunque. Non appena il maggiore fece scivolare le dita sotto la stoffa con l’intenzione di segarlo, Harvey emise un ringhio gutturale compiaciuto e gli morse il labbro inferiore, prendendo ad ondeggiare i fianchi per andare incontro ai movimenti lenti e impacciati dell’altro. L’alito caldo del castano appannava il vetro degli occhiali di Dorian, rendendogli arduo ammirare il suo viso deformato in una smorfia di piacere, così erotica da rischiare di venire in un istante. Il pensiero che il ventiseienne stesse godendo grazie a lui lo incoraggiò a massaggiarlo con più forza e naturalezza, gesto che si rivelò semplice e appagante, una volta perduti tutti i freni inibitori e abbattute tutte le barriere, talmente appagante che, anche dopo essersi sporcato la mano di sperma, seguitò a vezzeggiarlo con delicatezza.
    Harvey ansimava pesantemente nel suo orecchio, spossato dall’orgasmo e dall’alcool tracannato come se fosse acqua - strano, perché abitualmente lo reggeva bene e la sbornia non gli provocava mai grossi problemi - ma poi si riprese e con un ghigno feroce da seduttore incallito si inginocchiò fra le cosce di Dorian, prodigandosi subito a sbottonargli i pantaloni.
    “Adesso è il mio turno.” soffiò suadente, leccandosi le labbra gonfie e tumide.
    L’uomo deglutì a quella vista e percepì il pene pulsare dolorosamente. Quando la cerniera fu completamente aperta e la biancheria tolta di mezzo, Harvey fu libero di contemplare quel muscolo turgido, arrossato e umido sulla punta che poco prima premeva come una lancia sul suo sedere. Si umettò le labbra e l’attimo dopo lo inglobò fino alla base in un colpo solo, accingendosi a succhiarlo con trasporto, come se non ci fosse un domani, e ficcandoselo in gola con sconvolgente disinvoltura. Dorian venne scaraventato in una sorta di paradiso dei sensi, benché una piccolissima parte di lui fosse rimasta scioccata dalla maestria che sfoggiava Harvey nel servirlo; tuttavia, le sue domande furono inghiottite nella bocca dello spogliarellista insieme alla sua erezione vicina a scoppiare, dato che non scopava da vari mesi e l’unica cosa che aveva toccato il suo cazzo era stata la sua mano.
    “Ahh sì! Di più…” gemette totalmente perso e in balia del piacere. “Sei bravo… ah!” gli accarezzò i capelli lunghi e glieli scostò per avere una visione incensurata del suo viso concentrato. La lussuria che sprigionava era illegalmente inebriante.
    “Vuoi sborrarmi sulla faccia?” rise, del tutto ubriaco.
    “Sì, ah! Succhia di più… ti prego!”
    Il ragazzo, scrutandolo con sfida dal basso, obbedì e accelerò il ritmo di suzione, stimolando con la lingua la punta e con le dita i testicoli gonfi, accompagnandolo con una rapidità inaudita in prossimità dell’orgasmo. Così presto, anzi prestissimo, Dorian si riversò con un grido strozzato e libidinoso nella sua bocca, sporcandogli con schizzi di seme il mento e la guancia sinistra, e lo guardò bere il resto con nonchalance.
    Il sudore aveva reso per entrambi i vestiti fastidiosi e la stoffa intrisa di sudore, poiché il desiderio animalesco montato in loro dopo essersi scolati una bottiglia intera a testa gli aveva impedito di occuparsi pure di quelli. In quel momento erano stati travolti da un attacco di potente eccitazione e nessuno dei due si era minimamente interessato ad approfondire il contatto tra i loro corpi, ma solo a trovare sollievo fisico, un mero atto sessuale senza risvolti romantici.
    Harvey si pulì con il polso e si stese sul pavimento ridacchiando, mentre la realtà intorno a lui vorticava dandogli la nausea. Dorian non era messo meglio e si addormentò con la patta aperta sul divano; non ebbe nemmeno il tempo di dare la buonanotte al compagno che crollò in un sonno senza sogni.
    La mattina seguente si svegliarono con una pazzesca emicrania. A dire la verità, il moro si ricordava chiaramente alcuni sprazzi degli eventi della sera precedente e solo quelli bastarono per farlo divenire paonazzo. Non era stato come lo aveva immaginato, ossia non aveva avvertito l’ombra della dolcezza o della tenerezza che invece popolavano le sue più segrete fantasie, ma rammentava con assoluta nitidezza di aver goduto quasi sino alle lacrime.
    Harvey notò il suo rossore e lo osservò interrogativo. “Che c’è?” chiese con voce impastata.
    L’amministratore delegato distolse prontamente lo sguardo e lo puntò sul soffitto, supplicando che… beh, non sapeva cosa sperare: se anche il ballerino ricordasse quanto accaduto oppure stenderci un velo sopra, dimenticare e comportarsi come se nulla fosse successo.
    Cavolate, chi voleva ingannare?
    Sarebbe stato stupendo se d’ora in poi la loro relazione fosse progredita, evolvendosi in qualcosa di più. D’altronde, le sue intenzioni erano sempre state palesi e Harvey era consapevole dei sentimenti del trentottenne. Quindi, ecco, se fossero riusciti a fare un passo avanti…
    “Sono confuso.” mormorò in tono stanco. “Ieri… abbiamo bevuto?”
    “Sì, in bocca ho un sapore strano, ma qui sul tavolino ci sono due bottiglie e due bicchieri. Deduco che ci siamo andati giù pesante.”
    “Mh…” Dorian decise di cambiare strategia e sondare diversamente il ballerino. “Perché ho i pantaloni aperti?” assunse un’espressione sbigottita. “Non dirmi che…”
    “Mmm… boh!”
    Quell’esclamazione fu sufficiente per arguire che l’episodio passato non avrebbe avuto un continuo. Dorian sembrò afflosciarsi privo di vita sul divano e l’aura cupa che emanò da lì fino a New York fece desistere Harvey dal domandargli delucidazioni. Quest’ultimo, prima di salire sul taxi dell’aeroporto e farsi portare al Maiden’s Blossom, si mordicchiò un’unghia incerto se sputare o meno il rospo. Infatti aveva mentito, si ricordava eccome di avergli fatto un pompino, ma da bravo re dei codardi si era sentito mancare il coraggio e aveva finto ignoranza a causa della sbornia.
    “E’ stato divertente, il posto era magnifico. Grazie!”
    “Di nulla.” rispose laconico il moro, sistemandosi gli occhiali sul naso.
    “Beh… allora ci sentiamo. La prossima volta tocca a me scegliere la destinazione, ti chiamo io.”
    “Ok.”
    “Bene.”
    Si fissarono a lungo, occhi negli occhi, ma nessuno proferì parola. Harvey sospirò e lo salutò con un sorriso e un cenno del capo, poi si accomodò nell’auto e sbatté la portiera, biasimandosi e affibbiandosi tutti gli insulti che gli saltavano in mente. Era stato un idiota, ma aveva avuto paura; la paura di immischiarsi in qualcosa di misterioso e sconosciuto e di rinunciare alla propria libertà lo aveva bloccato e istigato a scansare una situazione potenzialmente imbarazzante con una bugia.
    Francamente Dorian gli piaceva, e oltre ad essere un buon partito lo intrigava parecchio sotto ogni aspetto. Inoltre gli occhiali gli conferivano la medesima aria intellettuale che tanto amava in Raphael, di conseguenza non poteva negare di essere attratto da lui. Tuttavia, proprio per tale ragione non era sicuro di stare agendo in maniera corretta nei suoi confronti, non desiderava trattarlo da sostituto e neppure illuderlo o illudersi di provare qualcosa di più intenso. Gli aveva concesso la possibilità di corteggiarlo e ciò che lo spaventava era che sentiva di stare cadendo nella rete. Considerava spassoso trascorrere del tempo con Dorian, non si annoiava mai, però da qui ad affermare di essersene innamorato ce ne correva.
    Aveva bisogno di riflettere e di vedere Raphael. Era da molto che non passava a trovarlo e percepiva la necessità di incontrarlo per testare i propri sentimenti e verificare se il biondo gli suscitasse sempre le solite emozioni: solo così avrebbe potuto comprendere la natura di quelle che lo legavano all’uomo d’affari, una specie di prova del nove.
    Comunque, nonostante gli accordi presi con Dorian, la stagione estiva risultò più impegnativa del previsto e Harvey dovette lavorare sodo quasi tutte le sere, poiché molti dei suoi colleghi partirono per le ferie. Telefonò al maggiore un paio di volte per fissare, ma anch’egli spiegò di essere purtroppo talmente occupato da avere a disposizione a malapena qualche ora di sonno per ricaricarsi. In aggiunta, i suoi capi gli imposero un viaggio di lavoro di due mesi in Giappone per concludere un affare, così i due furono obbligati a rimandare il settimo appuntamento a data da definire.
    Quando Dorian tornò a New York i primi di ottobre, il portiere del grattacelo in cui viveva gli consegnò una lettera sigillata, che indicava come mittente sua madre. La scartò immediatamente, dopo essere salito in ascensore, in preda all’ansia e al nervosismo, perché la donna non gli aveva mai spedito della posta prima di allora. Ad avvalorare la sua ipotesi che fosse avvenuto qualcosa di grave arrivò il contenuto stesso della missiva, che altro non era se non un invito al funerale di suo padre.
    Suo padre era morto e la madre non lo aveva nemmeno chiamato per comunicargli a voce la notizia?
    Irruppe nell’appartamento come una furia, con le mani tremanti e il respiro affannato. Si diresse verso il mobiletto del telefono fisso e premette il tasto per ascoltare la segreteria, dove in effetti c’era un messaggio registrato.
    “Pronto, signorino Dorian, sono Lambert.”
    Ah, il caro e vecchio Lambert, il maggiordomo di casa King. Ma perché avevano piazzato lui davanti alla cornetta? Sua madre non aveva le palle per dirgli che papà aveva tirato le cuoia?
    “La chiamo per informarla che suo padre, il signor Philip, è deceduto per un infarto questa mattina. Mi dispiace riferirle tale notizia in questo modo e io in persona, ma sua madre Catherine è distrutta da dolore e non se la sente di parlare e vedere nessuno. L’avrei contattata anche sul cellulare, ma il numero che usava l’anno scorso non funziona più. Spero che ascolti presto questo messaggio e partecipi al funerale, la signora ci tiene molto. Poi mi ha pregato di dirle che urge parlare con gli avvocati e recarsi all’ufficio del notaio per il testamento. Se possibile, mi telefoni per avvertirmi quando arriverà a casa. A presto, signorino, e sincere condoglianze.”
    Con estrema lentezza si rigirò fra le mani la lettera dell’invito e controllò la data: risaliva a ventuno giorni prima.
    Pallido e all’improvviso incapace di pensare lucidamente si accasciò sul divano e vi sprofondò. Era vero, aveva cambiato il numero di cellulare perché lo aveva perso, ma si era scordato di avvertire la famiglia a proposito. Era tornato la sera precedente da Tokyo ed era troppo stanco e stravolto dal jet-lag per badare alla segreteria telefonica, e il portiere era già andato a dormire. Ergo, per una futile dimenticanza era stato assente al funerale del padre e non era rimasto accanto a sua madre per consolarla, non aveva parlato con alcun avvocato né ascoltato alcun testamento. Lasciò cadere l’involto di carta a terra e nascose il volto fra le mani, mentre tentava invano di trattenere le lacrime. Sapeva che in teoria non poteva continuare a gingillarsi, doveva mettersi subito in macchina e sfrecciare come un fulmine a casa nel Connecticut, eppure il suo cervello non pareva avere intenzione di reagire.
    E poi era alquanto ironico che ora piangesse per il defunto, quando per tutta la vita lo aveva odiato per il regime educativo soffocante e castrante impostogli sin dalla nascita. Negli ultimi anni, dall’inizio del college più o meno, lo aveva evitato come la peste per cercare di celare la sua omosessualità e non incorrere in problemi. Partecipava ai party di compleanno e a quelli allestiti per le feste comandate, ma non si era mai fatto vedere al di fuori di essi per timore di scoprirsi o di commettere un passo falso. Già era una tortura presenziare ai normali branch, durante i quali i suoi genitori lo tartassavano per spingerlo al matrimonio con una delle figlie dei loro amici; ponderare dunque di passare per un saluto veloce un giorno qualsiasi sarebbe equivalso a suicidio.
    Però era pur sempre suo padre quello che era morto e in fondo all’anima provava una grande tristezza. Non era pentito delle proprie scelte, affatto, ma avrebbe potuto risparmiare ai suoi genitori la propria freddezza e serietà, magari dimostrando loro un po’ di affetto. Ormai era troppo tardi.
    Si cambiò gli abiti come un automa e preparò l’occorrente per una settimana, infilò tutto in valigia e alle undici di notte del 5 ottobre partì alla volta di casa King.
    Come aveva immaginato, Catherine lo riempì di insulti, domande, lacrime e ancora insulti. Dorian tentò di spiegare cosa lo aveva tenuto lontano, ma lei non volle ascoltarlo e si rinchiuse in camera. Nella villa di famiglia trovò anche sua zia Marge e suo cugino Doyle, rimasti lì dal funerale per assistere la donna. Lì salutò mortificato e si rese subito disponibile per aiutare laddove ce ne fosse la necessità. Sbrigò tutte le pratiche con gli avvocati e gli venne consegnato il testamento, dove Philip lo nominava erede legittimo di tutte le sue proprietà, non avendo fratelli o sorelle fra cui spartire i suoi beni. Così Dorian decise che la villa in cui era nato e cresciuto restasse alla madre, come anche il cottage per la villeggiatura nel caso in cui volesse cambiare ambiente. La barca a vela la regalò al marito di Marge, appassionato di marina e munito di patente nautica, mentre lui si tenne la Z4 decappottabile, l’auto preferita del padre. Della baita in montagna, situata in Alaska, avrebbero potuto usufruirne tutti i King, purché concordassero in anticipo il periodo di soggiorno, e quanto al fondo monetario… beh, il trentottenne si avvide di possedere trentamilioni di dollari in più sul suo conto. Ne diede quindici a Catherine e l’altra metà la tenne per sé, onde evitare lotte interne per accaparrarsi l’ingente eredità.
    Infine, scosse le fondamenta della famiglia facendo il tanto agognato coming out. L’occasione si era presentata a fagiolo, poiché Dorian aveva atteso apposta l’esatto momento in cui la madre gli avesse proposto l’ennesima candidata a moglie, proprio durante la cena con le tre coppie di zii e i loro figli.
    “Sai, se devo essere onesto, mi piacciono i maschi.” preferì pacato dopo aver sorseggiato un ottimo Dom Perignon.
    Silenzio di tomba tra i convitati.
    Ci aveva riflettuto a lungo e si era risolto a rivelare il suo orientamento sessuale, non voleva avere rimpianti. Se poi fosse stato rifiutato, i danni non sarebbero stati insormontabili e il testamento non si poteva cambiare. Volarono minacce, altri insulti, grida isteriche, recriminazioni, ci fu chi svenne e chi si versò un bicchiere di vino per brindare, ma tutto sommato, in mezzo a quel caos, Dorian non subì niente senza averlo già premeditato. Tutto si era svolto secondo i piani e ora avrebbe levato le tende con la coscienza pulita. Si era trattenuto in Connecticut più del previsto e a fine mese rientrò a New York dopo tre settimane di ferie. Per fortuna i capi non si erano lamentati, tranne solo per rimproverargli la richiesta all’ultimo minuto - normalmente si discute prima il periodo di vacanza, ma siccome aveva lavorato come un asino per tutta l’estate Dorian non si era imbattuto in fastidiosi ostacoli burocratici. Riprese ad andare in ufficio tutte le mattine e il tran tran quotidiano riuscì a distoglierlo da ogni pensiero, assorbendolo così tanto da archiviare pure Harvey.
    Ricevette da costui molte telefonate, ma non gli rispose, desiderava stare da solo per un po’ e mettere a posto i cocci con i parenti, grattacapi che gli provocarono l’insonnia. D’altra parte, venire assillato da persone che aveva visto sì e no un paio di volte riguardo l’ingiustizia di non dividere il cospicuo lascito di Philip lo mandava in bestia. Affermavano che, dato che era gay, non aveva realmente bisogno di tutta quella somma, perché non avrebbe mai dovuto provvedere ad una famiglia e pagare l’istruzione dei figli, ma Dorian si dimostrò irremovibile e fermo sulle proprie decisioni.
    Giunse dicembre e finalmente si convinse a far visita ad Harvey al locale, soprattutto per scusarsi di averlo ignorato senza fornirgli una spiegazione.
    Parcheggiò davanti al Maiden’s intorno a mezzanotte e spense il motore. Scese dalla macchina e si lisciò il cappotto scuro, voleva apparire al meglio e fare bella figura. Tuttavia, compì appena un passo prima di scorgere la familiare silhouette di Harvey nell’ombra, nella stradina a fianco al locale. Stava fumando una sigaretta parlando con qualcuno, ma era troppo lontano per riuscire ad udire i loro discorsi. Si sporse giusto quel tanto che bastava per notare che la seconda persona era una donna e dal suo atteggiamento capì che si conoscevano ed erano anche molto intimi. Non si fece strane idee, sapeva che Harvey era omosessuale, ma comunque non poté esimersi dal provare irritazione per il modo in cui lei lo abbracciava e poggiava le mani sulle spalle di lui. In più, il ballerino era di schiena, quindi gli era impossibile accertarsi che quella non stesse cercando di sedurlo. Attese per qualche minuto, impaziente e rigido come un palo, la testa piena di dubbi e curiosità. A un tratto, assistette ad una scena surreale: la donna si aggrappò ad Harvey e chiaramente gli stampò un bacio sulla bocca. Vedere i loro corpi allacciati per un attimo gli suscitò una potente ondata di rabbia e risentimento, e sbuffando rimontò in macchina con l’intenzione di sparire per sempre.
    Non mi faccio vivo per poco più di tre mesi e lui se la fa con un’altra? Ma non era gay? Me lo ha assicurato, ma se nel frattempo si fosse scoperto bisessuale? Non è stato difficile accantonarmi, eh?
    Inspirò a pieni polmoni e si impose la calma. Forse stava traendo conclusioni affrettate e lui in primo luogo non si era comportato bene con Harvey, quindi non era nella posizione per giudicare. Sì, gli avrebbe concesso l’opportunità di difendersi dalle accuse, non lo avrebbe condannato a priori.
    Occhieggiò ansioso le due figure ancora appartate e sentì il cuore contorcersi in una morsa dolorosa.
    Lo aveva perso davvero?

    “Grazie, sei un tesoro!” cinguettò Dana spalmandosi di nuovo sul collega.
    “Sì, sì, ricordati che sei in debito.” sospirò Harvey scollandosela di dosso.
    “Andrete sicuramente d’accordo! Ah, mandalo a letto alle nove e non fargli guardare troppi cartoni.”
    “Capito, ora rientriamo che fa freddo.”
    “Grazieeee!”
    “Piantala.”
    “Hey, di chi è quella macchina? Caspita…”
    A sentire ‘macchina’, Harvey rizzò le antenne e seguì il dito di Dana, che indicava una Porche assai familiare ferma nel parcheggio. Si pietrificò per un istante e serrò il pugno con forza, fissando severo l’auto.
    “Vai avanti, io ti raggiungo fra un attimo.”
    Dana lo scrutò perplessa, poi annuì e si dileguò. Il ventiseienne fece il giro largo, così da arrivare alle spalle del guidatore. Dall’interno dell’abitacolo Dorian non si era accorto della sua presenza, perciò quando si chinò per bussare al finestrino fece un balzo non indifferente sul sedile. I due si guardarono negli occhi con espressione impassibile, soltanto una sottile barriera trasparente a separarli. In seguito Harvey gli intimò di venire fuori, un ghigno intimidatorio dipinto sulle labbra, e dopo un secondo di esitazione il moro eseguì. Appena mise il piede sull’asfalto, il giovane lo afferrò con prepotenza per il bavero del cappotto e lo sbatté sul cofano, imprigionandolo con la sua mole.
    “Ma guarda chi c’è, il signor King è tornato! Alla fine ti sei degnato di onorarmi con la tua aristocratica presenza, eh?” cantilenò cattivo a due centimetri dalla faccia di sconvolta di Dorian.
    “Har-Harvey? Lasciami…”
    “Sennò che fai? Dove sei stato?”
    “Scusa, è colpa mia, lo so. Per favore ascoltami.”
    “No, ascolta tu me. Ti ho chiamato come avevamo pattuito, pensa che mi sono pure preso la briga di preoccuparmi per la tua salute, invece mi hai snobbato come se fossi spazzatura!” sibilò inviperito. “Eppure, se non erro, sei stato tu a insistere perché ti frequentassi.”
    “Hai ragione, ma sono successe delle cose… per cui…”
    “E non ti è venuto in mente di dirmelo?! ‘Ciao, Harvey! Senti, sono successe delle cose, per cui…’ no?!”
    “Scusa, perdonami.”
    “No, dovrai farti perdonare.” ringhiò carico di rancore, stringendo la mano intorno al suo collo. “Mi sono sentito un fesso e nessuno oserebbe mai farmi sentire un fesso, comprendi?”
    “S-sì…”
    “No, non comprendi. Mi hai fatto fare la parte della mogliettina abbandonata dal maritino e non lo tollero. Ho un cazzo di orgoglio da difendere e non mi faccio trattare così dal primo che passa!”
    “Che devo fare per farmi perdonare? Ah, potresti lasciarmi? Mi fai male…”
    “Che devi fare?” Harvey lo squadrò intensamente, i suoi occhi due pozze di ambra liquida.
    Si piegò di scatto e fece combaciare le loro labbra in un bacio feroce. Quando si sollevò, un filo di saliva ancora li univa. Dorian era arrossito per l’imbarazzo, ma l’aria vulnerabile e smarrita che sfoggiò un attimo dopo spedì forti scariche di eccitazione al ballerino, il quale sfregò l’erezione nascente sulla coscia dell’uomo.
    “Al diavolo gli appuntamenti, voglio scoparti!”
    “Eh?!” gracchiò basito l’altro, immobilizzandosi. “Qui? Adesso?”
    “Tch, non adesso, stupido. Devo lavorare. Dopodomani, a casa tua. Alle otto. E non si accettano obiezioni.”
    “Ma… aspetta, ragionia - ah! - mo…”
    Harvey aveva cominciato a mordicchiargli il collo e Dorian era stato immediatamente attraversato da innumerevoli brividi di piacere, che andarono a convergere nelle sue parti basse.
    “Prima… con quella donna…” balbettò senza convinzione, già succube dell’impetuosità del castano.
    “Chi, Dana? Che c’entra Dana?”
    “Ho visto che ti baciava…”
    “Lo fa con tutti, ma non sono attratto da lei. Mi ha chiesto di fare da babysitter a suo figlio domani sera.”
    “Ah…”
    “Geloso?”
    “No…”
    Un morso sulla mascella.
    “Ok, un pochino.”
    Un altro morso sul pomo d’adamo.
    “Ok, decisamente.”
    “Sei passivo?”
    “Mh?”
    “Ti piace di più fottere o farti fottere?” sparò Harvey con schiettezza.
    “Ah… io… ecco… ehhh…”
    “Ti fotterò lo stesso, non hai voce in capitolo. Io sto sopra.”
    “Harvey!! Tra poco tocca a te!”
    Dana si affacciò alla porta del Maiden’s e il ballerino sbuffò contrariato per l’interruzione.
    “Arrivo!” gridò in risposta, poi si rivolse a Dorian, “Preparati, perché ti farò piangere.” sussurrò lascivo al suo orecchio.
    Lo sgravò dal proprio peso e si allontanò ancheggiando, mentre il moro restò paralizzato, sconcertato e sdraiato sul cofano per altri cinque minuti abbondanti. Sì, se l’era cercata e ben gli stava.
    Un momento.
    Harvey aveva appena detto di voler fare sesso con lui?
    Sogno o son desto? Oh. Mio. Dio.
     
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  11. Lady1990
     
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    Harvey fissava sconcertato Gil dalla cucina, mentre sorseggiava lentamente una lattina di birra. Lo guardava in religioso silenzio, pregando che almeno un neurone del cervello del suo coinquilino sopravvivesse alla crudele strage. Per non parlare del fatto che il giovane ballerino stava diventando sordo a furia di ascoltare la musica a tutto volume proveniente dallo stereo e le persone che vivevano negli appartamenti attigui aveva già cominciato a manifestare il proprio disappunto per il rumore.
    Harvey fissava Gil sempre più preoccupato, osservandolo saltare sul divano come un invasato e cantare a squarciagola “Dancing Queen” degli Abba, peraltro stonato come una campana sugli acuti.
    L’intenzione del collega, in principio, era di celebrare l’imminente nottata a luci rosse di Harvey, ma poi la situazione gli era sfuggita di mano e le cose erano degenerate. E il bello era che Gil non aveva toccato neanche un goccio di alcool, la lattina posta sul tavolino di fronte alla televisione era ancora sigillata. Per tale motivo, il castano si trovava in una posizione di incertezza, perché non sapeva decidere se fosse più consigliabile chiamare qualcuno per preservare la propria salute mentale o lasciare che Gil si sfogasse ed esaurisse le energie.
    Nel frattempo, mentre tentava di elaborare una strategia per sedarlo, beveva la sua birra e pensava a cosa indossare per la serata con Dorian. Al locale se n’era uscito con quell’audace affermazione, ma a mente lucida si era reso conto che forse era stato troppo avventato. Soprattutto lo spaventava il ‘dopo’, quando di solito, una volta sfumata l’estasi del coito, arrivavano le classiche domande: “Cosa sono io per te?”, “Cosa provi per me?”, “Ma adesso stiamo insieme?” e via dicendo. Le temeva per la semplice ragione che non possedeva una risposta. Alla fine, il problema era sempre lo stesso: quanto di ciò che sentiva per Dorian era illusione e quanto invece sincero?
    Nonostante avesse rivisto Raphael di recente, non era affatto riuscito a schiarirsi le idee. Il biondo continuava a provocargli le famose farfalle nello stomaco, la sua bellezza continuava ad essere magnetica e la sua voce un’angelica melodia alle sue orecchie; tuttavia, doveva riconoscere che anche Dorian era un bocconcino delizioso e spesso si scopriva a sognarlo ad occhi aperti più di quanto sognava Raphael. Ma era questo, l’amore?
    I dilemmi non lo avevano abbandonato come aveva sperato, anzi si erano fatti più insistenti, però ora urgeva affrontare il presente e quindi l’incontro con il trentottenne. Come avrebbe dovuto gestirlo? Entrare, salutare e saltargli subito addosso oppure rilassare l’atmosfera e aspettare il momento giusto?
    “Harvey!” trillò Gil, riportandolo con i piedi per terra.
    “Abbassa la voce!” ruggì di rimando, scocciato.
    “Canta con me!”
    “Nemmeno morto.”
    “Dai! Dovresti essere felice! Finalmente potrai affondare l’uccello nel bel culetto del riccone!”
    “Ti perdono la finezza verbale, perché so che è un tuo marchio di fabbrica, ma non è come pensi.”
    “Vuoi farci sesso, no? E lui ha acconsentito, no? Dove sta la fregatura?”
    “Che non sarebbe solo una scopata. Cambierebbe tutto, se in meglio o in peggio non oso immaginarlo.”
    “Beh, lui ti piace?”
    “Sì, certo.”
    “Allora è ok!”
    “Ok? Ok un tubo! Lui è innamorato di me, cristo!”
    Gil scese dal divano, spense lo stereo - le orecchie di Harvey si profusero in una valanga di taciti ringraziamenti - e si avvicinò all’amico, prendendo posto su una sedia davanti a lui.
    “Harvey, se non te la senti di farlo, puoi sempre dirgli che ci ha ripensato.”
    “E con quale faccia tosta potrei dirglielo, scusa?”
    “Sei nervoso, agitato, e lo comprendo. Aspetta di vedere come si evolve la faccenda e il resto, se deve venire, verrà naturale. Non serve preoccuparsi come stai facendo. Anzi, potrebbe essere l’occasione per respirare aria fresca! Rifletti, finora hai sempre avuto Raphael nella testa, come un chiodo fisso che ti ha tenuto ingabbiato per tutti questi anni. Non ti sei mai guardato tanto intorno perché avevi lui; spasimavi come una verginella per il tuo biondino, di conseguenza non ha mai lasciato avvicinare nessuno. Poi ecco che all’orizzonte giunge Dorian e riesce a fare breccia, come per magia, nel tuo cuore infranto. Permettigli di curarlo, non allontanarlo a causa delle tue insicurezze, perché esse svaniranno nel momento in cui gli regalerai una vera opportunità.”
    “Eh? Che dici, gliela sta già dando…”
    “Harvey, parliamoci seriamente: fino ad oggi hai solo giocato. Ti sei divertito con lui, ma non hai mai avuto l’intenzione di approfondire. Magari ti sei ripetuto più volte che il tuo approccio era onesto, che davvero gli stavi dando la possibilità che desiderava, ma non è vero. Non ti sei mai impegnato ad aprirti e scrollarti di dosso la tua cotta.”
    Il ventiseienne aggrottò le sopracciglia e scrutò Gil dall’alto in basso. “Cazzo, mi fai venire i brividi quando fai discorsi del genere, sembri quasi maturo. Ti prego, smettila, sei inquietante…”
    “Chiudi la ciabatta e stammi a sentire!” replicò acido il moro, accavallando le gambe e sollevando l’indice di fronte al viso a mo’ di maestrino. “Sei attratto da Dorian perché è bello e affascinante. È pure simpatico, colto, ha un sacco di soldi e ti tratta con una galanteria disarmante. Perché uno come lui dovrebbe perdere tempo prezioso dietro ad uno come te, che piuttosto dovrebbe lucidargli le scarpe? I suoi sentimenti sono cristallini e ce li hai sempre avuti sotto al naso, potevi tirarti indietro in qualsiasi momento, ma non lo hai fatto. Ti sei chiesto perché?”
    “Perché mi piace stare in sua compagnia.”
    “Quindi è anche una persona piacevole. Pare proprio il principe azzurro! Ma dall’altra parte c’è Raphael, che non ti si fila, ti snobba e tuttavia possiede ancora una parte del tuo cuoricino. Dunque, la situazione è la seguente: puoi continuare a struggerti per un amore non corrisposto, col rischio concreto di rimanere solo per il resto della vita, oppure concedere una vera chance a Dorian e lasciare che si prenda cura di te nella maniera che meriti. Sarebbe capacissimo di farlo, lo sai anche tu, ha tutte le carte in regola.”
    “Mi stai dicendo che lo amo?”
    “No, sto dicendo che potresti amarlo. Non intendo che devi sforzarti di amarlo, sarebbe inutile. Devi cercare di mostrargli chi è Harvey, metterti a nudo e ricompensare la sua sincerità e la sua dolcezza. Se poi in effetti noti che non funziona, tronchi la relazione, per quanto doloroso potrà essere. Non è che se ci vai a letto e ti ci metti insieme sei vincolato per l’eternità.”
    Harvey poggiò la lattina vuota sul tavolo e chiuse gli occhi.
    “Vuoi sapere la verità, Gil?”
    “La verità?”
    “Io…” sorrise mesto, “ho paura di amarlo. Come hai detto, Dorian è perfetto, l’ideale di uomo che ogni ragazza sogna sin da quando è bambina. E… io sarei in grado di amarlo alla follia, così come ho amato e amo tuttora Raphael. Certo, se amassi Dorian, dimenticherei l’amore per Raphael, rimarrebbe soltanto il ricordo di esso, però è proprio questo, capisci?, che mi terrorizza. Non mi si è mai presentata un’alternativa oltre a Raphael, ho sempre avuto lui dinanzi a me, il mio unico obiettivo… Innamorarmi di Dorian significherebbe…”
    “Harvey, sta per arrivarti una randellata sulle gengive. Ascolta, non ci sarebbe niente di male a innamorarsi di Dorian, anche perché saresti ricambiato! E comunque, adesso ti fai ‘ste seghe perché sei in ansia, ma vedrai che appena ce lo avrai davanti tutti i dubbi spariranno.”
    “Lo spero. Non voglio ferirlo, mi sentirei un mostro.”
    “Sei umano.”
    “E gli esseri umani non sono forse mostri?”
    “Una categoria molto complessa e variegata di mostri. Alcuni possono amare.” sorrise comprensivo e gli fece l’occhiolino. “Ora mi scolo una birretta e volo al Maiden’s, tu sbrigati a prepararti e non fare attendere il riccone.”
    “Mh…”
    “Ah, non dimenticare lubrificante e preservativi! In camera tua ho messo un pacchetto, un regalino per te e Dorian! Goditelo!”
    “Eh? Che regalino?”
    “Guarda tu stesso, io sono in ritardo!” esclamò ridacchiando e si dileguò in bagno a farsi una doccia.
    Il ragazzo si recò in camera e sul comodino trovò una busta, contente due confezioni di preservativi alla fragola, tre di lubrificante alla vaniglia e un grosso vibratore color fucsia. Fissò il tutto con espressione granitica, poi afferrò un lubrificante e ignorò le altre cose, appuntandosi di scaraventarle in faccia al coinquilino alla prima occasione. Per giunta, i preservativi profumati erano pericolosi perché spesso troppo sottili, potevano rompersi facilmente se si usava una forza eccessiva, e Harvey, conoscendosi, reputò saggio non prenderli neanche in considerazione.
    Indossò un paio di jeans, una maglietta a maniche lunghe, un maglione di lana, le scarpe da ginnastica e il giubbotto, infine agguantò chiavi e cellulare e uscì di casa senza salutare Gil, altrimenti lo avrebbe gonfiato di botte.
    Più o meno a una quindicina di isolati da lì, Dorian si stava occupando di un importante ed esistenziale dilemma: come vestirsi. Dato che sapeva quale sarebbe stato l’esito della serata, era inutile scegliere abiti eleganti e addobbarsi di tutto punto modello albero di Natale, tanto Harvey glieli avrebbe strappati di dosso in qualche minuto. Al solo immaginarlo, la sua schiena venne percorsa da un brivido di emozione. Perciò, era meglio infilarsi in una tuta e farla finita. Ma la tuta non era certo un indumento sexy, anzi non era mai stato il tipo da tuta.
    Dopo numerose simulazioni e prove davanti allo specchio, optò per una camicia semplice e dei pantaloni neri, look sobrio ma nemmeno così modesto. Si mise le lenti a contatto e si assicurò che tutto fosse in ordine, che i bicchieri per il vino fosse brillanti, che la bottiglia fosse fresca, che l’appartamento profumasse di pulito e la temperatura fosse mite, ma soprattutto che le coperte del letto non presentassero una singola, intollerabile piega. Era tutto perfetto e in cuor suo pregò che tutto filasse liscio come l’olio, senza inconvenienti penosi o imbarazzanti.
    Inoltre, poiché era passato un bel po’ dall’ultima volta che un uomo lo aveva toccato in specifiche parti, sotto la doccia, con le guance rosse per la vergogna, si era allargato dietro con le dita scivolose di sapone, onde evitare spiacevoli attriti e fitte di dolore una volta raggiunto il climax. Ovvio, non si aspettava di provare l’estasi nell’immediato, ma almeno si sarebbe risparmiato smorfie di fastidio, che avrebbero necessariamente rallentato l’atto.
    Tutto era pronto, mancava solo l’ospite d’onore. Sarebbe stata una notte indimenticabile.
    Alle otto meno dieci il campanello suonò e Dorian si precipitò ad aprire con il cuore in gola e le mani sudate. Premette il pulsante e fece scattare la porta per accostarla, mentre correva come un fulmine in bagno per darsi un’ultima, provvidenziale sistemata ai capelli. Non appena udì il tintinnio dell’ascensore, segno che era arrivato al piano, si diresse nell’ingresso e protese il braccio per afferrare la maniglia della porta, quando essa venne spinta dall’esterno nel medesimo istante, con forza bruta. Il risultato fu che l’anta sbatté violentemente sulla faccia dell’uomo, il quale arretrò di colpo tenendosi le mani a coppa sul naso.
    “Aaah! Porca…!” gridò.
    “Oh, merda. Dorian, scusa!” esclamò Harvey mortificato, accorrendo in aiuto. “Scusa, scusami! Non sapevo che eri lì dietro!”
    “Non… non fa nulla, tranquillo…”
    “No, ci vuole del ghiaccio! Stenditi sul divano, te lo porto subito.”
    Mentre il ventiseienne si procurava il ghiaccio, Dorian cercò a tentoni il divano, poi ci si accasciò sopra con un gemito, il naso che pulsava in modo insopportabile. Se fosse stato solo, avrebbe volentieri pianto, al diavolo la virilità, ma con Harvey lì non voleva apparire ancor più femminuccia di quanto già non fosse.
    “Ecco, mettilo così.” disse il più giovane, posando con delicatezza il sacchettino gelido sulla zona lesa. “Scusa, perdonami…” mormorò dispiaciuto.
    “Non è colpa tua, è stato un incidente.”
    “Cavolo…”
    “Harvey, respira e accomodati, sto bene…”
    “Non sembra.” commentò, osservando l’espressione contratta e agonizzante del moro.
    “Dettagli. In cucina ci sono due bicchieri e lo spumante. Avrei voluto servirti io, ma temo di combinare un altro danno.”
    “Non preoccuparti, faccio io.”
    Si alzò, stappò la bottiglia e versò il vino nei bicchieri, dopodiché si girò per tornare in salotto, ma assorto e agitato com’era calcolò male la traiettoria tra la propria faccia e lo stipite della porta della cucina. Così, all’impatto, un bicchiere cadde sul pavimento, frantumandosi in mille pezzi, e Harvey lanciò una colorita imprecazione, coprendosi il naso con la mano libera.
    “Oddio, Harvey!” urlò Dorian, scattando verso di lui per aiutarlo.
    “Cazzo!”
    “Fermo, attento! È pieno di schegge di vetro.”
    Due minuti più tardi entrambi sedevano sul divano con una borsa del ghiaccio premuta sul viso.
    “Un bel modo per iniziare, eh?” ridacchiò il ballerino.
    “Non esattamente…”
    “Ero ironico.”
    “Ah.”
    “Beh, che si fa?”
    “Aspettiamo che il dolore passi.”
    “Ok.”
    Dopo altri dieci minuti, Harvey sbuffò. “Mi annoio.”
    “Ho un mazzo di carte. Partita a briscola?”
    L’altro scoppiò a ridere, seguito a ruota da Dorian, e improvvisamente la tensione si allentò.
    “Come va? Meglio?” domandò il trentottenne.
    “Un po’. Tu?”
    “Direi di sì. Il ghiaccio si sta sciogliendo.”
    “Va bene, da’ qua.” Harvey riportò ciò che restava del ghiaccio in cucina, attento a scansare i frammenti del bicchiere.
    Il maggiore lo raggiunse e gli sorrise divertito. “Hai il naso rosso e gonfio.”
    “Senti chi parla.”
    “Ma sei carino lo stesso.”
    “Oh, cos’è? Un’avance?”
    “Forse.”
    Lo spogliarellista ghignò e lo ghermì per le spalle in un attimo, unendo le loro bocche nel bacio che tutti e due desideravano. Le loro labbra si accarezzarono e le lingue cominciarono a danzare frenetiche, mentre Harvey sospingeva Dorian verso la camera da letto. Presto affondarono nel materasso, spogliandosi a vicenda con gesti frenetici, bramosi di far scontrare i loro corpi accaldati ed eccitati.
    Ad un certo punto, nella foga del momento, i loro nasi cozzarono l’uno contro l’altro ed entrambi gemettero sonoramente.
    “Ahi!”
    “Scusa!”
    “No, colpa mia.”
    “No, sono stato io.”
    “No, io. Scusa.”
    “Che palle.” grugnì Harvey, ma non si fece distrarre e scese a baciargli il mento e il collo, per poi andare a leccargli un orecchio.
    “Ahn!”
    Il castano emise un verso compiaciuto e continuò a bearsi dei gemiti goduriosi di Dorian finché non si ritenne soddisfatto. Le mani scivolarono sul torace del moro, le dita corsero a stuzzicare i capezzoli e il bacino prese a dondolare ritmicamente per far sfregare le rispettive erezioni, ora prive di qualunque barriera. Tastò i muscoli appena accennati dell’addome e proseguì più giù, fino ad impugnare saldamente il sesso di Dorian, il quale si sciolse in un sospiro appagato e divaricò le gambe per permettergli di posizionarsi meglio. Harvey si sollevò per ammirarlo in tutto il suo splendore, dai capelli spettinati, al volto stravolto dal piacere, con gli occhi azzurri lucidi e profondi e la bocca lievemente dischiusa da cui usciva il respiro affannato. Il suo corpo non era atletico o allenato come quello del ballerino, ma possedeva una grazia e una flessuosità perfette; era magro ma non scheletrico, ogni forma ben delineata e armonica. Una striscia di rada peluria nera partiva dallo sterno e terminava nella zona pubica, le cosce erano tornite e sode, anch’esse cosparse da un sottile strato di peli, particolare che lo differenziava da Harvey, che invece per motivi di lavoro era costretto a depilarsi dappertutto. Questo piccolo dettaglio però lo infiammava a dismisura, perché rendeva ancor più evidente il fatto di stare abbracciando un uomo, un vero uomo.
    Tornò a baciarlo, gustando il suo sapore sul palato, divorandolo senza dolcezza e aumentando la velocità del polso.
    “Ahhh-Harvey! No… bastaaah…”
    “Vieni. Puoi venire tutte le volte che vuoi.” sussurrò succhiandogli il labbro inferiore.
    Dorian si abbandonò ai suoi gesti sapienti e in poco tempo riversò il proprio seme nella mano del ragazzo. Alzò le braccia e circondò le spalle larghe di Harvey, tirandolo a sé per baciarlo di nuovo, mentre si lasciava coccolare e toccare più a fondo. Ad un tratto si accorse di stare comportandosi da egoista e non voleva essere l’unico a ricevere piacere. Quindi ribaltò il castano e lo fece sdraiare supino, poi si mise a cavalcioni al contrario su di lui, con le ginocchia ai lati della sua testa, e senza esitazioni posò un bacio sulla punta del suo pene, sentendolo bollente sulla propria lingua. L’istante successivo lo inglobò nella sua bocca e si accinse a succhiare, mettendo in pratica ciò che aveva imparato dal suo ex, sebbene all’epoca non vantasse una tecnica sopraffina. Si augurò di risultare almeno decente, d’altronde desiderava far godere Harvey come lui aveva fatto al resort.
    L’altro rimase a subire per qualche minuto, immerso in un vortice di piacere inaspettato, ma in seguito tentò di non farsi sopraffare troppo e di sfruttare la situazione in maniera produttiva. Allargò le natiche del moro e con la lingua andò a stimolare l’apertura fra queste, che si contrasse al primo, umido contatto. La bagnò e infine la penetrò con un dito, sondando le pareti interne lentamente, alla ricerca della prostata. Fu certo di averla scovata quando Dorian inarcò la schiena di scatto, levando un gemito più acuto, così ci si concentrò finché l’uomo non diventò nuovamente duro. Interruppe i giochi per scendere dal letto e prendere il giubbotto, dove aveva nascosto il tubetto di lubrificante e due preservativi. Li estrasse rapido e si tuffò ancora una volta sulla bocca di Dorian, ansioso di entrare in lui. Lo preparò con calma, studiò la sua espressione per appurare che non provasse dolore, dopodiché cosparse di lozione il proprio sesso coperto dal profilattico e buttò la confezione da una parte.
    “Farò piano, promesso.” sussurrò nel buio della stanza, la voce resa roca dall’eccitazione.
    Il trentottenne scosse la testa e gli posò una mano sulla guancia. “No, voglio che tu faccia di me quello che desideri. Se non è nella tua natura essere delicato, lo accetterò comunque, non mi importa. Ti prego, non trattenerti.”
    “Disse l’agnellino al lupo cattivo.” ghignò in risposta.
    “Non sono un agnellino indifeso.”
    “Lo so. Allora rilassati.”
    Gli fece assumere una posizione prona e si portò dietro di lui, afferrandogli con forza i fianchi per impedirgli di scappare. Agguantò la propria erezione con decisione, la condusse verso l’apertura umida di Dorian e in un paio di potenti spinte fu dentro. Il maggiore annaspò e si aggrappò con energia alle coperte sgualcite soffocando un grido, ma Harvey si piegò immediatamente, aderendo con il torace alla sua schiena, e intrecciò le loro mani, mentre il suo fiato caldo gli solleticava l’orecchio.
    “Rilassati… sei troppo stretto.” gli intimò il ballerino, sentendosi stritolare dalla carne rovente.
    “Non badare a me… vai pure…”
    “Sicuro?”
    “Sì, lo son-oh! Ah!”
    Il ventiseienne partì a spingere con impeto, senza trattenersi, come Dorian lo aveva incoraggiato a fare. Mise le mani sulle sue natiche, le massaggiò a palmi aperti, quasi le stesse impastando, tempestò di baci e leccatine la sua nuca, le scapole, la spina dorsale, sibilando il suo nome inebriato dal piacere.
    Il moro, al contrario, con la faccia nascosta nelle lenzuola, reprimeva i lamenti e celava al compagno le lacrime che si riversavano fuori dai suoi occhi serrati. Piangeva sia per la sofferenza fisica causata dalle violente stoccate di Harvey, sia per la felicità di percepirlo nitidamente dentro di sé, cosa che a lungo aveva bramato. Le emozioni che lo travolsero erano contraddittorie e caotiche, ma c’era solo una certezza a cui volle aggrapparsi in quel frangente: Harvey era lì, con lui, in lui, su di lui, avvertiva la pelle formicolare laddove il ballerino la toccava e la palpava, non ne aveva mai abbastanza, e i suoi capelli lunghi lo sfioravano e lo circondavano come una soffice tenda scura. Pian piano il dolore scemò, lasciando spazio al godimento più puro, che lo catapultò direttamente in paradiso. I suoi gemiti, dapprima strozzati, si trasformarono in piccole urla estatiche, le quali si susseguirono pressoché ininterrotte per un considerevole lasso di tempo, istigando come un incantesimo il più giovane, che di rimando si accinse a montarlo con più urgenza, sentendo l’orgasmo crescere e avvicinarsi. Fece stendere Dorian a pancia in giù, così che l’erezione dell’uomo strofinasse sulle coperte, e lo scopò quasi con disperazione, mentre si chinava a succhiargli e mordergli un orecchio.
    “Ahn! Aaah! Ha-har… vey…”
    “Vieni, Dorian.” bisbigliò suadente, accarezzandogli col fiato caldo il padiglione, e fu sufficiente quello, unito al proprio nome, perché Dorian si svuotasse sul materasso con un gemito impregnato di lussuria.
    Si irrigidì di botto e strinse i muscoli dell'ano, inarcandosi e sollevando il bacino per farsi penetrare più a fondo durante gli ultimi istanti. Di conseguenza, imprigionato in quell’anello di carne bollente, anche Harvey percepì le prime avvisaglie dell’orgasmo e lo cavalcò con gioia, abbracciando il maggiore e ringhiando a pochi centimetri dal suo viso il proprio piacere.
    Dopo aver recuperato un po’ di ossigeno, si sfilò dal corpo dell’uomo, si tolse il preservativo e lo gettò sul pavimento senza tante cerimonie. Infine tornò sopra il compagno, lo girò e lo avvolse nell’ennesimo abbraccio, baciandolo con trasporto. Rimirò il suo volto arrossato e l’aria sbattuta ma soddisfatta, sentendosi invadere da un sentimento tenero e protettivo. Volle coccolarlo per interminabili minuti, annusare la sua pelle e colmare le narici del suo odore; si rifiutò di staccarsi da Dorian per tutta la notte, assuefatto dal calore che questi emanava e dalla felicità che brillava nei suoi occhi azzurri, adesso languidi e prossimi a cedere al sonno.
    “Sei stanco? Non ti va un altro round?”
    “Se è come quello appena passato, semplicemente non ne ho le forze. Non sono allenato e morirei di infarto.”
    “Oh, penserò io a temprarti come si deve, è solo questione di abitudine.”
    “Ho paura. E mi fa male il sedere.”
    “Affari tuoi, sei stato tu a darmi carta bianca.”
    “Sì, ma non credevo che mi avresti fottuto come una bestia!” ridacchiò imbarazzato e gli diede le spalle.
    Subito venne abbracciato da dietro e si lasciò cullare dalla voce bassa Harvey.
    “Si raccoglie ciò che si semina, mio caro. Però ti è piaciuto, vero?”
    “Mh…”
    “Visto? Fidati di me, non ti farei mai del male volontariamente, non sono sadico.”
    “Lo so, lo so…”
    Lo spogliarellista sorrise nell’oscurità e stampò un altro bacio sul collo di Dorian. “Buonanotte.”
    “Notte.”
    A differenza di quello che il ragazzo immaginava, l’amministratore delegato non se ne uscì mai con frasi smielate o dichiarazioni di amore eterno, né pretese fedeltà o attenzioni.
    “Sai già perfettamente cosa provo per te, non serve ribadirlo o sbandierarlo ai quattro venti.” gli spiegò alcuni giorni più tardi. “E poi, se mi chiami spesso per scopare significa che ti piaccio e questo per ora mi basta. Ovvio, non mi arrendo, perché il mio scopo è farti diventare il mio fidanzato, ma mi farai tale onore se e quando lo vorrai. Non si ottiene nulla di buono imponendo i propri sentimenti sull’altro, solo bugie.”
    Sorpreso, Harvey realizzò che l’insopportabile macigno che pesava sul suo stomaco affondava le sue radici proprio in quell’argomento e il fatto che Dorian lo avesse sollevato da un simile fardello lo fece tornare a respirare sereno. Così anche le volte successive visse tutto con più tranquillità, assaporando i momenti di intimità senza crucci e indagando con interesse la personalità del moro, scoprendolo un uomo meraviglioso e spassoso, sexy, intelligente, una droga a cui si rivelò impossibile rinunciare.
    I mesi si sommarono e i due seguitarono a frequentarsi assiduamente, sebbene non avessero ancora stabilito con precisione che tipo di rapporto li legava, ma non lo ritennero necessario. Sapevano di stare bene insieme e non c’era altro da aggiungere. La fedeltà di entrambi al partner non fu altro che una naturale conseguenza del loro cercarsi e viversi e, anche se non vollero ufficializzare nulla, era ormai chiaro che il filo che li univa non era più fatto solamente amicizia o complicità.

    Se c’era una caratteristica che ad Alan non mancava, questa era la determinazione. Benché infatti fosse stato rifiutato più volte da Raphael, non si era mai arreso alla sconfitta, consapevole che gettare la spugna a causa di qualche fallimento non lo avrebbe mai aiutato a crescere come sperava. La vita, si ripeteva, è tale perché irta di ostacoli ed enormi difficoltà, talvolta insormontabili e talvolta superabili con un briciolo di grinta in più, ma comunque bisogna lottare per ottenere quello che si desidera. Quasi niente ci viene dato senza compiere alcuno sforzo.
    Perciò inspirò a pieni polmoni e fissò battagliero le porte automatiche della biblioteca, pronto allo scontro. Entrò nell’edificio e si recò a passo di marcia alla reception, dove il biondo ticchettava febbrile con le dita sulla tastiera, lo sguardo incollato allo schermo del computer. Giunto che fu di fronte al banco, si schiarì la voce e attese con trepidazione che Raphael si voltasse. Quando lo fece, quest’ultimo sgranò gli occhi per lo stupore e gli regalò un sorrisino perplesso.
    “Ciao, Alan.”
    “Ciao! Sono passato a trovarti come ti avevo detto, ricordi?”
    “Sì, certo. Come stai?”
    “Bene, grazie. Tu? Lavori sodo?”
    “Mi sto consumando, ad essere franco. Posso aiutarti? Vuoi rinnovare la tessera di socio?”
    “In realtà volevo invitarti a prendere un caffè.” rispose ammiccante, controllando che non ci fosse nessuno in a portata d’orecchio.
    “Oh, con piacere. Stacco tra mezzora, se per te non è un disturbo aspettare.”
    “Nessun problema, mi siedo laggiù.” indicò una fila di sedie accanto all’entrata.
    “Ok, cerco di sbrigarmi.”
    “No, no, fai con comodo. Anzi, scusami per essere piombato qui di punto in bianco.”
    Raphael sorrise e scosse il capo. “Vai, ti raggiungo presto.”
    Appena il ragazzino si fu allontanato, rilasciò in una volta il fiato che aveva trattenuto. Era stato un fulmine a ciel sereno, non credeva davvero che Alan si sarebbe presentato in biblioteca; insomma, era convinto che la sua fosse stata solo una frase di circostanza atta a levarsi velocemente di torno. Invece, vederselo comparire davanti gli aveva suscitato una sorta di batticuore. Era contento che fosse venuto, impossibile negarlo, ma non aveva la più pallida idea di cosa avrebbero parlato. Magari poteva domandargli dell’accademia, farsi raccontare qualche particolare in più… Magari poteva chiedergli di Colin. No, non erano affari che lo riguardavano, troppo personale. E poi si trattava soltanto di un caffè, sarebbero occorsi pochi minuti e non un’intera giornata. Era assolutamente in grado di gestire una pausa caffè.
    Mezzora dopo condusse il rosso ad un bar dall’altro lato della strada, ordinarono due cappuccini e si accomodarono ad un tavolo vicino alla finestra.
    “Beh? Come va l’università?”
    “Benone, mi piace un sacco!” esclamò Alan elettrizzato, sia di parlare di nuovo con Raphael sia dell’argomento proposto. “Sai cosa mi è successo il primo giorno?”
    “Cosa?”
    “Avevo domandato in segreteria informazioni sull’aula di disegno dal vero e avevo seguito alla lettera le indicazioni. Alla fine, busso alla porta e mi viene detto di entrare… e cosa vedo! Praticamente, appena metto piede nella stanza, una ragazza si spoglia del tutto e me la ritrovo completamente nuda di fronte. Il bello è stato che gli altri studenti non hanno minimamente reagito, come il professore, mentre io temo di essere diventato rosso di vergogna. Infatti ho detto: ‘Scusate, ho sbagliato.’ e allora l’insegnante ha riso insieme alla modella e mi ha invitato a prendere posto. Cioè, immagina lo shock! Sono rimasto basito, traumatizzato.”
    “Ah ah ah! Immagino la scena! Povero piccolo…”
    “Non scherzare! Poi mi sono abituato, ma all’inizio non riuscivo quasi a disegnare per l’imbarazzo.”
    “Il corpo femminile ti fa questo effetto?” indagò l’altro enigmatico.
    “Se intendi che mi eccita, direi di no. Però… ecco, io non sarei mai capace di fare quel lavoro. Mi sentirei in soggezione, mentre tutti osservano ogni centimetro del mio corpo, per di più nudo. Potrei fare un’eccezione se avessi la biancheria, è un po’ come fingere di essere al mare in costume.”
    “Capisco. Gli altri corsi?”
    “Stupendi! È tutto fantastico! Pensa che l’anno scorso a novembre siamo andati in gita a Parigi!”
    “Oh, bello! Cosa avete visitato?”
    Alan gli raccontò dei musei, della città, dell’atmosfera europea che lo aveva incantato, il tutto con occhi luccicanti di emozione.
    “Sono felice che ti sia piaciuta così tanto. Io non ci sono mai stato.”
    “Davvero? Devi andarci, è un ordine!”
    “Come desidera, padrone.” accennò un inchino, provocando le risate del giovane.
    “Tu che hai fatto?”
    “Niente di che. Durante l’estate ho imbiancato e arredato la casa, fatto un po’ di pulizia… non avevo molta voglia di muovermi. Poi ho ricominciato la mia routine, nessuna novità.”
    “Attento a non annoiarti, altrimenti invecchi prima del tempo.”
    “Ah ah! Col cavolo!”
    Finirono di bere il cappuccino e un silenzio pesante calò su di loro.
    “E…” Raphael si inumidì con la lingua le labbra secche, “con Colin come procede?”
    “Eh?”
    Improvvisamente, la conversazione era entrata in un campo minato. Il rosso tergiversò chiamando il cameriere per un’altra tazza, indeciso su cosa rispondere. Da un lato era tentato di usufruire della strategia di Colin e giocare un po’ per scoprire se il più grande era geloso, dall’altro non lo convinceva e si sentiva in colpa a dare adito ad una menzogna, che avrebbe potuto originare fastidiosi fraintendimenti.
    Però… forse un pochino… per verificare la reazione…
    “Procede. Perché vuoi saperlo?”
    “Niente, banale curiosità.” si schermì il biondo, apparentemente disinteressato.
    “E’ un bravo ragazzo, carino, gentile, simpatico, c’è molta compatibilità.” snocciolò, studiando di nascosto i mutamenti di espressione di Raphael.
    “Ottimo.” sospirò questi, sfoggiando poi un sorriso finto.
    Era palese che non apprezzasse tali elogi e che fosse ansioso di cambiare ad ogni costo soggetto di discussione, ma Alan era troppo lanciato per badarvi.
    “Usciamo spessissimo e abbiamo sempre qualcosa di cui parlare! Sai…” gli spedì un’occhiata eloquente, “è anche bravo in quel senso…”
    “Lieto che vi troviate bene, è raro incontrare qualcuno con cui creare un feeling del genere.” proferì sbrigativo.
    Alan avrebbe volentieri mugugnato stizzito. Tuttavia, purtroppo il diciannovenne non era esperto di linguaggio del corpo, perché se lo fosse stato, avrebbe notato i piccoli segnali che Raphael gli stava inviando solamente analizzando la postura: rigida e ferma mentre stava zitto e mobile con inconsci scatti nervosi e bruschi delle gambe o delle mani mentre parlava, segno che non pensava veramente ciò che affermava. La mascella era contratta, lo sguardo mai rivolto sul ragazzino e prima di aprire la bocca per commentare deglutiva, ergo era a disagio e irritato.
    “Qualcosa ti turba?” buttò lì in maniera casuale.
    “No… è che lui non mi ispira. Non mi ispira per te.”
    Il rosso sbuffò divertito e compiaciuto: “Cioè?”
    “Non è… adatto.”
    “Perché pensi che non sia adatto?”
    “Perché… non so. È un’impressione.”
    “Quindi stai costruendo un giudizio su un’impressione.”
    “No, ma… non so spiegare. Aspetta, vi auguro comunque di… procedere nel verso giusto, però non…” balbettò colto alla sprovvista.
    “Chi sei, mio padre? È la mia vita privata, non dovresti preoccupartene. Non te la sto raccontando per chiedere un consiglio o un’opinione, non ti riguarda. Ad ogni modo, chi riterresti più adatto a me, Raphael? Vuoi candidarti?” lo provocò.
    Raphael lo scrutò allibito, ma ad un tratto consapevole. Aveva appena realizzato un dettaglio di fondamentale importanza.
    Si fissarono negli occhi per una manciata di secondi, quando il cameriere spezzò l’atmosfera servendo il secondo cappuccino ordinato da Alan.
    “Ecco a lei.”
    “Forse è meglio che vada, la pausa pranzo sta per terminare.” borbottò il bibliotecario, frugando nelle tasche della giacca in cerca del portafoglio.
    “No, un attimo! Ancora non mi hai detto…”
    “Ascolta, è semplicemente che Colin mi dà l’idea, probabilmente errata, di un tipo arrogante, presuntuoso, superbo e superficiale, ma non lo conosco e ammetto che non sarebbe corretto etichettarlo in base a mere speculazioni. Perdonami, non avrei dovuto…”
    “Ma chi riterresti adatto a me?”
    “N-nessuno in particolare. La sola cosa che conta è che tu sia felice.”
    “E se io fossi felice con Colin? Ti andrebbe bene?”
    “Perché non dovrebbe?”
    “Già, perché non dovrebbe?”
    “Io desidero solo il tuo bene, sul serio. Nonostante tutto, mi sono affezionato a te.”
    “Oh, così ora te ne esci con questo atteggiamento paternalistico e pretendi di impiantarmi la pulce nell’orecchio, dichiarando che Colin non è adatto a me. Su quali basi? So badare a me stesso, sono cambiato.”
    “Sì, l’ho visto.” replicò secco, facendo per alzarsi e andarsene.
    Il giovane lasciò una banconota sul tavolo e lo rincorse fuori dal bar.
    “Raphael! Mi dici come mai ogni fottuta volta che ci vediamo finiamo per litigare?” lo bloccò afferrandogli una manica.
    “Perché non siamo compatibili, che domande.”
    “O forse lo siamo sin troppo.” ribatté, squadrandolo intensamente dal basso.
    Raphael esitò e venne attraversato di una scarica di brividi per le implicazioni di quella piccola frase. Annegò in quelle iridi verdi senza più riserve, allungò una mano e la posò gentilmente sulla guancia di Alan. Successivamente la spostò sulla sua testa, infilando le dita fra le ciocche di capelli rossi come il sangue, arricciati e pieni di boccoli; non li aveva legati come l’ultima volta, così il biondo poté constatare che erano cresciuti fino alle spalle. Senza accorgersene, si ipnotizzò ad ammirare il volto con quei lineamenti ancora lievemente fanciulleschi, lo stesso volto che lo perseguitava durante il sonno, gli stessi occhi che avevano ormai rimpiazzato quelli di Alicia, la stessa bocca che con frequenza aveva immaginato di…
    Alan spalancò le palpebre sbalordito e il respiro gli si mozzò in gola. L’odore dolce di Raphael gli penetrò nelle narici e alcuni ciuffi di capelli chiari andarono a solleticargli la fronte.
    In un primo pomeriggio di aprile finalmente le sue labbra assaporarono per la prima volta il gusto della vittoria.
     
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  12. Lady1990
     
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    Per Alan, il tempo parve arrestarsi. Anzi, quel momento, dopo un primo attimo di stupore, fu come se si dilatasse all’infinito, sottraendogli anche l’ultimo briciolo di razionalità. Gli occhi sgranati vennero presto celati dalle palpebre, che si abbassarono lentamente, e il fiato fuoriuscì tutto in una volta dal naso, mentre si abbandonava a quel bacio casto e inaspettato.
    In principio, per un istante, pensò di stare sognando o di essere vittima di un’allucinazione alquanto realistica, ma poi considerò che non gliene importava niente. Non gli importava di trovarsi in mezzo al marciapiede, sotto lo sguardo imbarazzato, disgustato o sorpreso della gente, né del fatto che quel gesto avrebbe innescato una serie di ignote conseguenze. In circostanze differenti si sarebbe fatto sconfiggere dall’ansia, ma adesso desiderava soltanto godersi quel lieve contatto abbastanza a lungo da imprimerselo a fuoco nella memoria, nel caso in cui non si fosse ripresentata un’occasione simile. Un unico, bellissimo ricordo da custodire fino alla tomba.
    Dopo qualche secondo, Raphael si scostò un po’ troppo bruscamente, indietreggiando con un’espressione sbigottita. Una leggera sfumatura rosata gli colorava le guance, ma per Alan fu impossibile decifrare cosa gli passasse per la testa a causa del riflesso della luce sulle lenti degli occhiali, i quali celavano le profondità delle iridi azzurre. Avrebbe tanto voluto immergersi di nuovo in esse, constatare se fosse emozionato e coinvolto quanto lui, ma il biondo gli diede le spalle prima che riuscisse ad elaborare un piano infallibile. Poco male, avrebbe puntato sull’improvvisazione, qualcosa si sarebbe inventato.
    “Scusa, non so che mi sia preso.” bofonchiò l’uomo.
    “Cos…? Aspetta, non scappare.” il giovane lo acchiappò per un lembo della giacca. “Aspetta.”
    “No, io… devo tornare a lavoro. Non posso.” rispose senza voltarsi.
    “Puoi, invece. Non fai che dartela a gambe da un anno, Raphael. Sono stanco.”
    “Ti ho chiesto scusa, non volevo…”
    “Non volevi baciarmi? Ma l’hai fatto. Vieni, andiamo a parlare in un posto meno affollato.”
    “No! No, Alan, sul serio. Io… non posso…” insistette con aria afflitta e strattonò la giacca per far mollare la presa al rosso. “Non succederà mai più. Colin…”
    “Lascia perdere Colin, che te ne frega di lui? Ora dobbiamo parlare.” sottolineò l’ultima frase con sguardo severo e una voce che non ammetteva repliche. “Non puoi più impormi i tuoi comodi, non te lo permetto.”
    “Hey, non ti allargare.” lo rimproverò Raphael, infastidito. “Non abbiamo tutta questa confidenza. Poi sono molto più grande di te, abbi rispetto per-”
    “Gli anziani? Non fare lo scorbutico e piantala di nasconderti dietro a patetiche giustificazioni, perché lo sai che non sono altro che questo. Voglio che la smetti di prendermi in giro.” lo rimbrottò piccato.
    “Devo ripetertelo ancora? Scusa, Alan. Scusa. Va bene?”
    “No, non va bene. Perché mi hai baciato?”
    “Non lo so.” mormorò, incamminandosi verso la biblioteca per sfuggire al più presto a quell’irritante interrogatorio messo su da un ancor più irritante ragazzino.
    “Oh, non lo sa!” sbuffò ironico, roteando gli occhi spazientito. “Senti, fermati un secondo e…”
    “Non mi fermo.”
    “Chi è che si sta comportando da bambino, adesso?”
    “Sono oggettivo.”
    “No, sei solo un idiota.”
    Raphael, all’insulto, si girò inviperito e lo squadrò dall’alto in basso. “Chi ti credi di essere, eh?”
    “Il ragazzo che hai appena baciato in mezzo di strada.” rispose in tono di sfida, per nulla intimorito. “Mi devi ascoltare.”
    “Non voglio farlo.”
    “Lo farai, altrimenti comincerò a recitare la parte del tenero virgulto molestato da un bibliotecario represso e pervertito. Qui, davanti a tutte queste ignare persone timorate di Dio. Decidi tu.” lo provocò con un sorrisetto sfacciato e incrociò le braccia sul petto.
    L’altro schioccò la lingua, improvvisamente in trappola. “D’accordo.” grugnì cupo, il disappunto evidente dalla piega in cui aveva atteggiato le labbra.
    “Andiamo.” Alan lo costrinse a proseguire la passeggiata, sospingendolo tramite una lieve pressione delle dita sulla base della schiena.
    Mentre camminava, tentava di imporre una parvenza di ordine al caos che aveva nel cervello, incapace di assimilare quanto appena successo. Raphael lo aveva baciato per la prima volta, probabilmente sotto l’impulso del momento. Ma qual era stato il motivo scatenante, la miccia che aveva fatto scoppiare la bomba? Gelosia? Di certo era l’ipotesi più gettonata, sebbene immaginare che il biondo fosse geloso andasse al di là di ogni più rosea aspettativa. Insomma, l’anno precedente aveva sudato sette camice per far sì che Raphael lo considerasse, si era fatto in quattro per riuscire a farsi accettare o solo a farsi notare da lui, e adesso bastava snocciolare qualche ‘innocente’ frasetta su Colin per suscitare quella reazione? Non che non gli fosse piaciuta, ci mancherebbe, è bene precisarlo.
    È che tutta quella situazione aveva un qualcosa di surreale…
    Era ciò che aveva sempre sognato, eppure aveva una paura folle che effettivamente potesse avverarsi: infatti, un conto è fantasticare su eventi che mai credi si realizzeranno, perciò ti coccoli nella dimensione onirica convinto di essere al sicuro, un altro è vederli realizzati sul serio. Lo shock. Alan era stato colto impreparato e doveva ammettere di non sapere dove sbattere la testa. Cosa sarebbe accaduto d’ora in avanti?
    “Beh? Che vuoi?” proferì Raphael in tono scorbutico.
    “Perché mi hai baciato?”
    “Non lo so. Quante volte ancora vuoi sentirtelo dire?”
    “Bugiardo. Ma dato che non hai le palle per confessarlo, lo farò io per te: ti piaccio.”
    “Fisicamente parlando, non sei male, no.” convenne, mantenendosi il più distaccato possibile.
    Il giovane emise un verso esasperato e lo fissò più agguerrito che mai.
    “Sei il tipo da baciare le persone solo perché ti piacciono fisicamente?”
    “Potresti affermare il contrario?”
    “Non rispondere ad una domanda con un’altra domanda! È odioso!”
    “Tu cosa pensi?”
    “Penso che non ne saresti in grado. O almeno non più. Ho presente il tuo passato, come ti divertivi, ma dopo Alicia sei cambiato.”
    Raphael ghignò, poiché ad un tratto gli sovvenne della sera in cui era andato con Harvey in discoteca e aveva fatto sesso nei bagni del locale con due tizi conosciuti lì per lì.
    “E se ti sbagliassi? Su di me, intendo. Mi reputi così puro e candido? Rimarresti deluso, sai?”
    “Non importa, so che non mi faresti mai un torto. Non stiamo discutendo di un fantomatico flirt tra te e un estraneo, ma tra te e me.”
    “O-ho, ti ritieni così importante?”
    “Sì.” annuì con una sincerità disarmante.
    Il più grande tornò scuro in volto e rimase in silenzio. Non possedeva le carte giuste per controbattere e, nel caso, si sarebbe rivelato futile. Negare la verità in maniera così plateale lo avrebbe reso solamente ridicolo e già stava collezionando grame figure una dopo l’altra.
    “E se…”, si mordicchiò l’interno della guancia, esitante, “e se ammettessi che mi piaci… cosa faresti?”
    “Semplice.” Alan scrollò lo spalle, come se stesse esprimendo un’ovvietà, “Diventerei il tuo stalker personale, ti tormenterei giorno e notte fino a farti cedere per sfinimento fisico e psicologico. Se mi dai il via, non esiste che mi tiri indietro o che mi arrenda. Anzi, è già un miracolo di per sé che non abbia gettato la spugna prima delle vacanze estive! Al mio posto, un altro avrebbe mollato dopo il secondo due di picche, almeno per salvare una piccola goccia di dignità.”
    “Già, perché non l’hai fatto?” chiese soprappensiero il bibliotecario. Quando poi si rese conto di aver formulato la domanda ad alta voce, cercò invano di dissimulare. “Cioè, uno normale lo avrebbe fatto. Sei masochista, presumo.”
    “Raphael…” sospirò in modo esagerato e gli assestò una pacca giocosa sulla nuca, “sei proprio stupido. Io ti amo.”
    Il biondo si strozzò con la propria saliva e si fermò per tossire. Alan lo picchiò sulla schiena per aiutarlo a respirare, ma non poté esimersi dal ridacchiare intenerito. Talvolta, quell’algido quattrocchi sapeva essere davvero testardo. No, si corresse, la cocciutaggine era parte integrante della sua natura e non c’era rimedio. Ma il ragazzino gli faceva tranquillamente concorrenza, senza dubbio.
    “Non… non sparare cazzate!”
    Il diciannovenne restò perplesso: “Cazzate?”
    “Non devi parlare di amore alla tua età, cosa ne puoi sapere?”
    Alan ridusse gli occhi a fessura e lo scrutò con aria minacciosa.
    “Scusami, quanti anni avevi tu quando hai conosciuto Alicia? Giusto a titolo d’informazione.”
    “Che c’entra adesso?”
    “Taci e rispondi.”
    “Mmm… all’incirca… venticinque? Tra i venticinque e i ventisei.”
    “Bene, e ti pare che a quell’età uno sia così maturo da sapere cos’è l’amore? Eri un ragazzo! Nemmeno tu, prima di incontrare Alicia, avevi idea di cosa fosse, quindi non venire qui a giudicare e a fare il maestrino, sminuendo i miei sentimenti. Quando ci si innamora, che sia a dieci, venti o sessant’anni, lo si percepisce all’istante, senza errori. Tu hai mai dubitato di esserti innamorato di lei a prima vista?”
    “No, ma…”
    “Ecco! Se ho dichiarato di amarti, è perché ti amo, non perché faccio finta o scambio affetto e ammirazione per passione. Il mio amore non è inscritto solo nella sfera platonica, io voglio amarti in tutti i modi umanamente possibili! Lo capisci o no? Voglio fare sesso con te, mi masturbo pensando a te e sta divenendo insopportabile reprimere tutto questo. Non sono più un poppante.”
    Raphael sarebbe morto di autocombustione spontanea. Cos’erano quelle confessioni intime in mezzo di strada? Stava per rimanerci secco.
    “Alan, frena un attimo.”
    “Ho perso la verginità con il mio migliore amico, Jason, mentre frequentavo il liceo. Sono andato a letto con Colin fino a poco tempo fa, ma non ci siamo mai spinti oltre i preliminari e ora lui pare abbia scoperto di amare la nostra amica Kendra. Come vedi non sono immacolato! Non devi temere di sporcarmi e non devi assolutamente pensare di esserti invaghito di un bambino. Abbiamo quindici anni di differenza, ma siamo entrambi adulti.”
    Raphael sbuffò e represse un singulto, tanto per non aggravare la situazione cedendo ad un potente attacco di ilarità: “Tu non sei adulto.”
    “Lo sono dentro.”
    “Oh, certo!”
    “Piantala!”
    “Piantala!” lo scimmiottò il maggiore con una tonalità tendente all’isterico.
    Ho a che fare con un adolescente scemo… altro che principe azzurro freddo e irraggiungibile! Stupido quattrocchi!
    “Raphael, mi metti in imbarazzo. Tra noi due, sei tu quello che dovrebbe mantenere un po’ di contegno. Sei regredito allo stato infantile?”
    “Mi spieghi cosa vuoi che faccia? Descrivimelo chiaro e tondo, per favore.”
    “Sì, poi te lo firmo e te lo faxo in ufficio.” borbottò adombrato. “Voglio che mi prendi seriamente in considerazione come fidanzato, cazzo! Il concetto è talmente complicato che il tuo cervellino non ci arriva?!”
    “E il tenero virgulto sclerò…”
    “Raphael! Per la miseria!” strepitò, la pazienza ormai agli sgoccioli e il viso paonazzo per la vergogna e la frustrazione.
    “Raphael, per la miseria!” gli fece di nuovo il verso, ridendo come non gli capitava da tempo, quasi in maniera sguaiata. “Sembri una donna durante il suo periodino.”
    “Uffa… ok, basta, mi sono stufato. Noto che è inutile continuare, sono stanco… mi si sono esaurite le batterie…”
    “Dai, mi sto divertendo!”
    “Io no.”
    “Cos’è quella faccia da funerale?”
    “Oh, nulla! Sto cercando di fare un discorso serio, ma la persona che dovrebbe ascoltare non lo fa e mette a dura prova la mia pazienza! Della serie, ti dico che ti amo e tu scoppi a ridere! Mi sento preso per il culo e mi sto arrabbiando. Ho la vaga impressione che le nostre parti si siano invertite ed è sconcertante... quasi quasi ti lascio qui.”
    “Allora, arrenditi.” ghignò giulivo il trentaquattrenne.
    Il rosso lo guardò stralunato. “Tu… tu sei una piaga vivente…”
    “Chi? Io?”
    “Vedi qualcun altro? Forse ti hanno servito qualche strana sostanza nel cappuccino.”
    “Non sei obbligato a starmi appresso, il mondo è pieno di pesci.”
    “Io voglio te. Parlo arabo?”
    “Ma se io non volessi te?”
    “Mi hai baciato.”
    “Touché.”
    “Ascolta, Raphael.”
    “Sono tutt’orecchi.”
    “Ho una chance, con te?”
    “No.”
    “Mi hai baciato!”
    “Ri-touché.”
    “Va bene, stop. Non mi va più di sbattermi per oggi. Addio.” Alan si girò e si allontanò di un paio di passi, ma venne bloccato da una mano del biondo, che si strinse intorno al suo polso.
    Esalò l’ennesimo sospiro e torse appena il capo verso l’uomo, un senso di inevitabile sconfitta che serpeggiava in ogni fibra del suo essere.
    “Può darsi che… una chance tu ce l’abbia.” ora Raphael era tornato ad assumere la solita espressione malinconica di sempre. “Non significa che sono disposto ad intraprendere subito una relazione, però… non mi sei indifferente.”
    Il giovane alzò le braccia al cielo ed emise un grido di giubilo: “Halleluja!”
    “Ma troncherò tutto se ti metterai a fare il cagnolino. Poco fa hai dimostrato carattere, mi hai tenuto testa e… beh, mi è piaciuto. Quindi…”
    “Quindi… cominceremo ad uscire insieme per litigare?”
    “Niente di impegnativo, eh!” si arrese, lasciando la presa.
    “No, vostra grazia, lo giuro. La sua virtù rimarrà intatta e forse anche la salute mentale.” scherzò Alan, mentre un’emozione forte ed elettrizzante gli illuminò lo sguardo.
    Raphael lo fissò con un sorriso sghembo e all’improvviso gli arruffò la chioma con le dita.
    “Hey, che fai?”
    “Sembri un cucciolo.” ridacchiò.
    “E tu un imbecille.”
    “Ah! Mi sono offeso. Ritiro l’offerta.”
    “No!” sbottò l’altro, forse con eccessiva enfasi, aggrappandosi alla sua giacca.
    Alcuni passanti si voltarono, richiamati da quell’urlo, e la faccia di Alan assunse una sfumatura fucsia.
    “Nah, tranquillo.” lo rassicurò il biondo. “Non sono il genere di persona che si rimangia la parola. Stavolta ti concederò veramente l’opportunità di conquistarmi, quindi non farti scrupoli.”
    “O-ok.”
    “E… con Colin… allora non c’è nulla.” indagò.
    “No, non più. Non abbiamo mai avuto una storia, comunque.”
    “Campo libero?”
    “Campo libero.”
    “Che si dia inizio alle danze senza ulteriori indugi!” proclamò teatrale.
    Alan soffocò una risata e scosse la testa falsamente sconsolato. “Sì, sì… ma sei sicuro?”
    “A-ha.”
    “Così, di punto in bianco?”
    Raphael lo osservò così intensamente da trafiggerlo. Era stanco di mentire a se stesso, stanco di costruirsi alibi che giustificassero il proprio crescente interesse per quel moccioso tenace e ribelle, stanco di scappare dalla realtà, poiché tali azioni avevano sinora richiesto una quantità enorme di energie ed esse ora erano terminate.
    Di recente, si era pure domandato per quale motivo si stesse imputando con tutte le sue forze a condannarsi all’infelicità, a ricercarla quasi fosse una punizione meritata per qualcosa; in tutta onestà, per anni era stato fermamente convinto di aver avuto parte attiva nella morte della moglie e della figlia, perché quel tardo pomeriggio in cui era avvenuto l’incidente sarebbe dovuto andare lui a prendere Maggy, invece aveva spedito Alicia. Ma non esisteva un modo per rimediare, i morti non tornano in vita e i vivi continuano a respirare nonostante tutto. Dio solo sapeva quante volte egli avesse ponderato il suicidio, conscio di non possedere più una valida ragione per vivere, eppure, pur soffrendo e tormentato dai sensi di colpa, era andato avanti, giorno dopo giorno, in attesa di un segno. Nemmeno lui era in grado di spiegarselo, ma era come se avvertisse che non era ancora giunto il suo momento, e per questo si malediceva. Che diritto aveva, Raphael, di camminare sulla Terra, dopo il crimine di cui si era involontariamente macchiato?
    Sarebbe finito all’inferno, non c’erano vie d’uscita. Tuttavia all’inizio non voleva trascinare Alan con sé, voleva tenerlo a sicuro, lontano, nella luce. Quell’indomito ragazzino era esattamente come Alicia, un angelo giunto per salvarlo dal baratro, ma il biondo non si considerava degno di un simile dono. Meritava di patire, dilaniato dai rimorsi e consumato dai ricordi, così aveva sempre pensato.
    Ma la verità era un’altra.
    “Non è di punto in bianco.” articolò con lentezza. “Tu sei entrato nella mia vita come una ventata d’aria fresca dopo anni di solitudine e non sarei sincero se non confessassi che mi sei mancato durante questi mesi, e non per il fatto che mi ricordi Alicia, non si tratta di quello. Piuttosto… ho realizzato che desideravo sentirmi di nuovo importante per qualcuno.” serrò le palpebre e scosse il capo. “No, non è vero. Potrei farmi amare da chiunque io voglia, conosco le mie potenzialità, ho sempre sfruttato il mio innato fascino e la mia bellezza per ottenere ciò che bramavo, quindi non sarebbe stato difficile approfittare di essi per far inginocchiare ai miei piedi qualcuno.”
    “Modesto…” borbottò sarcastico Alan.
    “Beh, è così. Non sono un ingenuo. Ecco… io, da quando Alicia mi ha lasciato… credo di aver trascorso il tempo aspettando una persona da amare, per riempire il vuoto. Non necessariamente una persona uguale a lei, ma qualcuno con il potere di farmi sentire vivo, nel posto giusto. Farmi amare non è mai stata una gran fatica, ma amare… una volta che lo hai provato non riesci più a farne a meno, è la droga più assuefante al mondo, i suoi effetti sono devastanti. E, come ciliegina sulla torta, è talmente rara da condurti spesso alla follia. Si può dire che, in generale, sia impossibile, o comunque assai arduo, innamorarsi per davvero di uno dopo che hai amato infinitamente un altro prima di lui.” fece una pausa e accarezzò dolcemente una guancia del giovane.
    “Perchè?” il rosso trattenne il fiato.
    “Perché trovare qualcun altro capace di suscitare in te quel tipo di amore sconfinato è un miracolo che solo a pochi eletti accade. Poter sperimentare quella soverchiante felicità due volte… sarebbe un miracolo.”
    “E tu non sei degno di questo miracolo?”
    “No… non lo sono. Eppure…” si tolse gli occhiali e fissò Alan sorpreso, “… quel miracolo è, contro ogni più remota e paradisiaca previsione, già cominciato.”
    “Che… che cosa…?” il diciannovenne lo contemplò immobile, mentre il suo cuore batteva così forte che sicuramente Raphael lo avrebbe udito.
    “Perciò, se ti permetterò di diventare importante per me, avrò nuovamente l’occasione di assaporare la completezza perfetta… cazzo, ho una paura fottuta. E perdona il linguaggio. Ho già perso tutto una volta, se succedesse ancora…”
    “Carenza di affetto? Oh, povero caro…” sbuffò Alan divertito, ma la sua voce era priva di qualsiasi nota di scherno.
    Raphael aveva ragione, di fronte a lui stava accadendo un miracolo e il piccolo si sentiva sopraffatto da un’emozione di immensa… no, era letteralmente sopraffatto dall’immensità. Una cosa del genere…
    “Eh eh, qualcosa di simile. In fin dei conti, non sto dando a te una possibilità, ma a me stesso. Per rimettermi in gioco. O almeno posso tentare.”
    “Sei… diverso… fuori dal tuo personaggio. Ma mi piace.” asserì in un soffio, contemplandolo dal basso.
    “O magari non hai mai conosciuto il vero Raphael. Non sono sempre stato un tipo depresso, anzi. E te lo dimostrerò.”
    “Non sto nella pelle.” gli sorrise e lo abbracciò, inspirando a pieni polmoni il suo odore attraverso i vestiti. La fine della guerra era alle porte e poteva già intravedere la vittoria, ma è proprio in prossimità del traguardo che bisogna usare cautela. Tuttavia, anche se solo per un giorno, gli piacque immaginare il lieto fine.
    Si appuntò mentalmente il 17 aprile: la data in cui l’universo aveva finalmente preso a girare nel verso giusto.

    “Aaahn!”
    Qualcosa di umido gli titillò il capezzolo destro e scese lungo la linea degli addominali appena accennati, sprofondando poi nell’ombelico e tuffandosi nella rada peluria pubica. I denti si divertirono a tirare piano alcuni peli, per poi sfregare leggeri sulla pelle tesa e pulsante del membro.
    Nella stanza si udivano solo pesanti sospiri, rumori bagnati e gemiti mal repressi, una sinfonia erotica e stimolante a dismisura per la coppia che giaceva sulle coltri sfatte del letto matrimoniale.
    Il giovane che emetteva quegli eccitanti pigolii non ricordava come esattamente fosse finito in quella situazione. C’era stata una cena in un ristorante di lusso, dal quale si poteva godere della suggestiva vista sul mar Tirreno, c’era stato il vino, lo sciabordio delle onde come sottofondo, l’idea di trovarsi ad Amalfi, una delle più splendide città italiane; c’era stato qualche scambio intenso di sguardi, delle risate, alcuni ghigni provocanti misti a battibecchi; c’era stata la sabbia sotto i piedi scalzi, l’odore di salsedine nelle narici, il cielo stellato privo di nubi sopra la testa, le luci dei locali e delle case in lontananza. Infine c’erano state due mani intrecciate e un sorriso pregno di significati nascosti.
    Jason non rammentava altro, mentre si abbandonava timoroso e tremante ai tocchi esperti di Dominic, impossibilitato a reagire a causa della cravatta dell’altro legata saldamente - ma non eccessivamente stretta - intorno ai propri polsi dietro la schiena e di una benda che gli copriva gli occhi.
    “Se non ti piace, mi fermo.” lo aveva rassicurato il mafioso con voce dolce, baciandolo con trasporto e riducendo la sua lucidità a brandelli.
    Era già stato bendato prima di allora, uno dei tanti giochini a cui lo sottoponevano i clienti quando si prostituiva, ma adesso era differente. Non c’era sadicità né violenza nelle carezze che Dominic gli stava donando su ogni centimetro di pelle scoperta, anzi le sue mani parevano fatte apposta per regalargli soltanto piacere, ogni sfioramento atto a procurare estasi.
    Perché si era lasciato sottomettere? Perché gli stava lasciando carta bianca? Perché non si stava ribellando?
    Questi interrogativi gli frullavano nel cervello da un po’, ma pian piano sentiva di stare avvicinandosi alla risposta. E forse, in cuor suo, l’aveva sempre conosciuta. La verità era semplice e complessa al contempo e provocava in Jason sconcerto, disgusto e desiderio insieme.
    La verità…
    “Aaah! Oddio!”
    Qualcosa di piccolo, probabilmente un dito, lo aveva penetrato senza preavviso, ma grazie alla precedente lubrificazione non provò dolore, solo sorpresa per l’invasione improvvisa. L’uomo si piegò ancora e gli leccò l’asta turgida, torcendo anche la falange all’interno del ragazzo in cerca della prostata.
    La benda impediva al moretto di vedere e rendersi conto in anticipo delle intenzioni di Dominic. Era totalmente alla sua mercé, senza scampo alcuno, succube dei capricci di quel dolce pervertito di un boss, ma onestamente non gli dispiaceva.
    Venne tra gli spasmi, riversandosi nella cavità orale del rosso con un grido carico di lussuria, dopodiché si accasciò sul materasso col fiatone, chiedendosi quale sarebbe stata la prossima mossa.
    “Stai bene?” domandò Dominic, accarezzandogli con delicatezza le guance imporporate con entrambi i palmi. Poi assalì la sua bocca facendogli gustare sulla lingua il suo stesso sapore e Jason sorrise nel bacio.
    “Sì, benissimo. Ma… sei sicuro che non vuoi che ricambi?”
    “Sicuro.” ghignò il maggiore, ma il giovane non poté notarlo. “Stanotte sarò il tuo schiavo devoto. Sarai tu a ordinarmi dove toccarti, ad indicarmi i tuoi punti erogeni. Io eseguirò senza lamentarmi o fare altro se non ciò che mi hai espressamente ordinato. Ebbene, cosa vuoi che faccia ora?” gli bisbigliò roco all’orecchio.
    “Slegami i polsi, mi fanno male in questa posizione, me li sento schiacciati. Però puoi legarmeli di nuovo davanti.” borbottò imbarazzato con un filo di voce.
    “Sì, padrone.”
    “Smettila!”
    “Ok, non ti arrabbiare. Ecco fatto. Poi?”
    “Sei ancora vestito?”
    “Sì.”
    “Spogliati e sdraiati su di me.”
    Il mafioso si tolse i vestiti, li gettò ai piedi del letto e si umettò le labbra con la lingua. Alla vista del corpo nudo e fremente di Jason - nonché bendato e legato, in una posa squisitamente vulnerabile - i suoi occhi nocciola ebbero un guizzo e la sua espressione divenne famelica. Si stese su di lui e le loro pelli accaldate vennero a contatto, innescando potenti scosse elettriche che conversero nelle rispettive erezioni. Dominic strinse i denti e tentò di resistere, sebbene la voglia di possederlo lì e subito fosse soffocante.
    “E… ora?” ansimò a un centimetro dalla sua bocca.
    “St-strusciati.” lo supplicò Jason, allargando le cosce e racchiudendo il bacino dell’altro fra di esse. In seguito sollevò le braccia legate verso l’alto e l’uomo gliele afferrò posizionandogliele intorno al proprio collo, in una sorta di abbraccio, mentre dondolava i fianchi con ritmo lento e ridondante.
    “Così?”
    “Più veloce e… più profondo.”
    Come intimato, aumentò la velocità delle spinte e sospirò appagato sul collo del moro, inspirando il profumo di bagnoschiuma.
    “Dom, baciami… ah…”
    L’interpellato lo accontentò volentieri e dopo qualche minuto raggiunsero l’orgasmo quasi simultaneamente.
    “Levami la benda.”
    Dominic lo liberò dalla costrizione e le iridi azzurre di Jason si specchiarono nelle sue, due meravigliose pozze del colore del cielo, liquide e sconvolte dal piacere. Fece per sgravarlo dal suo peso e rotolare su un fianco, ma il piccolo scosse la testa.
    “No, resta.”
    “Va bene.” lo baciò di nuovo, non ne aveva mai abbastanza.
    Gli slegò i polsi e buttò la cravatta di lato, permettendo alle mani del ragazzino di percorrere i muscoli tesi della sua schiena fino alle terga.
    Ormai Jason non poteva più negare di desiderare sessualmente il boss, a livello fisico sembravano avere un’intesa pazzesca, una chimica che non aveva mai sperimentato nemmeno con Alan. Ammetteva di cercare spesso nell’ultimo periodo, più o meno dalla morte di Charles, il contatto fisico con Dominic: voleva il suo corpo allacciato al proprio, a sovrastarlo come in un bozzolo protettivo, celandolo agli occhi del mondo. Adorava quella sensazione e non perdeva occasione per far sì che avvenisse almeno una volta al giorno. Anelava a tutto quello perché sapeva che l’uomo non gli avrebbe mai fatto del male, che lo avrebbe trattato come un gioiello raro e prezioso, che lo avrebbe amato nella maniera in cui aveva sempre desiderato essere amato.
    La verità che per mesi aveva rifiutato si parava adesso di fronte a sé, lampante e impossibile da ignorare. Il giovane bramava l’amore come chiunque altro al mondo, ma più di ogni altra cosa voleva amare qualcuno che se lo meritasse. Aveva amato Alan, ma quel tipo di amore era ancora immaturo come lui, una fiammella troppo flebile per perdere tempo ad alimentarla. Con Dominic, al contrario, sembrava scoppiare un incendio. Percepiva il bisogno di lui quando non era presente e si imbronciava se l’altro non gli donava le agognate attenzioni di routine. Dapprima era stato reticente a dare adito a tale, straniante sentimento, scambiandolo per mera attrazione. Il mafioso doveva essere un ripiego, il sostituto di Alan, ma ora Alan impallidiva davanti a Dominic. Costui lo amava, lo considerava il centro della sua esistenza e glielo dimostrava quotidianamente, senza riserve o vergogna.
    “Non mi vergogno di amarti, Jason. Anzi, ne vado orgoglioso.” gli spiegò una volta, allorchè il moretto gli chiese il motivo per tutte quelle effusioni imbarazzanti, perfino in pubblico.
    Il boss era un uomo pragmatico, intelligente, scaltro, pericoloso, abile con le armi, capriccioso, maniaco e abusava spesso del proprio potere. Eppure Jason lo trovava irresistibile, una calamita vivente, una luce calda e confortante che brillava solo per lui. V’era qualcosa di indescrivibile in lui che lo stava facendo cedere, un elemento fondamentale che seguitava a sfuggirgli nonostante cercasse con tutte le forze di afferrarlo. Gli bastava pensare a tutti i momenti intimi che avevano condiviso nel piccolo monolocale, immersi nell’oscurità che precede l’alba, al modo in cui venerava il suo corpo cosparso di cicatrici risalenti a quando viveva per strada, a come lo baciava o gli sorrideva per avvertire il proprio cuore accelerare i battiti.
    Perché al club, mentre lavorava e preparava cocktail per i clienti, i suoi occhi vagavano ogni cinque minuti per la sala e la sua anima non trovava pace finché non si posavano sulla chioma color rame di Dominic? Perché stava diventando così indispensabile averlo vicino?
    Comunque, a conti fatti, Jason aveva cominciato a vivere veramente solo quando aveva conosciuto il mafioso, che era riuscito chissà come a riaccendere il fuoco, a farlo divampare più luminoso che mai e ad ammaliarlo con il suo fascino. Ancora faticava a comprendere la natura di quelle emozioni, ma era più che certo che non si trattasse solamente di attrazione fisica o di un’infatuazione passeggera. E se fosse stato amore?
    Era davvero pronto a fidarsi?
    “Secondo round?” propose l’oggetto delle sue elucubrazioni.
    “Scordatelo, sono a pezzi.”
    “Mi approfitterò di te mentre starai dormendo, lo sai.”
    “Sei malato! Ok, accomodati! Ma non ci mettere tanto.”
    “Ti amo, Jason…” morse il collo del ragazzino, scatenando in lui l’ennesima scarica di adrenalina, poi sentì premere qualcosa di duro sul ventre.
    Dio, quanto adorava quel corpo! Ogni volta, senza eccezioni, rispondeva ai suoi stimoli nel modo corretto, come se fosse stato creato per quello. Era impaziente di fare l’amore con Jason, ma si era ripromesso di aspettare che anche il piccolo fosse pronto, anche se si fosse rivelata una tortura insopportabile. Tuttavia, se Jason non si sbrigava a prendere una decisione in merito al loro rapporto, Dominic non garantiva di riuscire a controllarsi ancora a lungo.
     
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    Harvey allentò il nodo della cravatta ed emise un sospiro di liberazione. Era maggio, ma già il caldo dell’estate cominciava a farsi sentire e il completo elegante e professionale in cui si era infilato quel tardo pomeriggio non semplificava le cose. Che poi poteva incolpare unicamente la malsana idea avuta quella stessa mattina, scambiata all’inizio per un colpo di genio, una trovata brillante. Invece, se ne stava amaramente pentendo.
    Nonostante il disagio e il sudore che gli imperlava ogni centimetro di epidermide nascosta e non, si fece coraggio e finì di scolare l’acqua ghiacciata dalla bottiglietta, per poi gettare quest’ultima in un cestino. Controllò che i capelli fossero in ordine, legati in una coda bassa, pettinati e puliti fin quasi a renderli lucenti, si assicurò che gli abiti dal taglio impeccabile non presentassero macchie e simili e borbottando qualcosa come “Chi me l’ha fatto fare…” compì il primo passo nella hall del grattacelo adibito a sede della Microsoft Corporation. L’orologio appeso ad una delle pareti segnava le otto e qualche minuto e difatti, proprio come precedentemente pianificato, i dipendenti che si erano attardati negli uffici erano pochi e se ne stavano andando. Si diresse con aria disinvolta verso uno degli ascensori e premette il pulsante di chiamata, regolando nel frattempo il respiro e tentando di mantenere la calma. Se qualcuno della sicurezza lo fermava per chiedergli il tesserino di riconoscimento, era fottuto.
    Ad un tratto, una donna di bell’aspetto, con i capelli castano chiaro raccolti in una crocchia, i lineamenti dolci, il corpo in splendida forma fasciato da un tailleur di alta qualità e in bilico su dei tacchi vertiginosi gli si accostò, ma era troppo concentrata a cercare di mantenere in equilibrio la pila di fogli tra le braccia per prestare attenzione ad Harvey. Le porte dell’ascensore di aprirono e i due entrarono.
    “A che piano va?” domandò cortesemente il giovane, sfoggiando il più seducente dei sorrisi.
    La donna arrossì e balbettò: “Il penultimo, grazie.”
    Harvey prenotò il piano e si schiarì la voce. “Senta, sa dirmi dove si trova l’ufficio del signor King?” buttò lì con tono casuale.
    L’altra si voltò a squadrarlo di scatto e il ballerino deglutì, temendo di essersi inavvertitamente smascherato.
    “Ha un appuntamento?”
    “Perché?”
    “Sono la sua segretaria. Se non ha un appuntamento, non posso farla ricevere. Mi dispiace, ma è la prassi.” gli sorrise mesta. “Posso fissargliene uno in agenda.”
    “Oh no, non è necessario! Mi conosce, ci siamo già messi d’accordo per telefono.” mentì e rise nervosamente, pregando tutti i santi del paradiso affinché quella femmina non ficcasse il naso.
    “Ah sì? Non sono stata informata. Lei è per caso un cliente dell’azienda? Di cosa si occupa?”
    “Uhm… beh, no… sono un amico di vecchia data del signor King. Mi è capitato di recarmi a New York per lavoro, sono nel campo delle azioni, così l’ho contattato per fare due chiacchiere. Davvero, non c’è bisogno di avvertirlo, sa che sto arrivando.”
    Dopo aver sputato quella balla colossale, per qualche assurda ragione percepì un macigno depositarglisi sullo stomaco: non tanto perché lo irritasse ingannare qualcuno, d’altronde lo aveva messo in conto, quanto perché non voleva creare problemi a Dorian, o rovinargli la reputazione, con la sua sorpresa. Certo però, imbastire quello scadente teatrino era pericoloso, soprattutto con la segretaria di Dorian. Se non fosse stata convinta e avesse chiamato qualcuno per confermare la sua identità? Avrebbe messo nei guai il suo amante?
    Ad ogni secondo che passava, si pentiva sempre di più e ponderava di abbandonare il progetto dileguandosi con la coda tra le gambe.
    “Capisco… tuttavia, di solito, il capo mi dice tutto, mi sembra strano che-”
    “Forse se n’è dimenticato, impegnato com’è.” la interruppe Harvey, mentre la tensione gli accelerava i battiti cardiaci.
    “Mmm… già, probabile. È uno stacanovista, alle volte mi chiedo come faccia a lavorare così duramente… i primi tempi credevo che non fosse nemmeno umano, ma un essere fatto di titanio. È infaticabile e sempre efficiente.” si stoppò bruscamente e arrossì distogliendo lo sguardo. “Mi scusi, non dovrei condividere le mie opinioni personali con uno sconosciuto, per di più un suo amico… la prego, non gli dica niente!” lo implorò.
    “Non si preoccupi, sarò muto come un pesce! Ma, quindi, dove sta il suo ufficio?”
    “Al penultimo piano, signor…?”
    Il ventiseienne si spremette le meningi per trovare in due nanosecondi un nome falso da propinare alla donna. “Nixon.”
    “Oh, come il presidente!”
    “Non mi risulta sia ancora in carica, però.” scherzò ammiccando.
    Liz scoppiò a ridere e annuì. “D’accordo, signor Nixon. Se avrete bisogno di qualcosa, sarò alla mia postazione, non esitate a disturbare.”
    “Ma no, signorina. Vada pure a casa, io e Dorian ce la caveremo da soli, siamo adulti e vaccinati.”
    “Non ne dubito.”
    Finalmente giunsero a destinazione e Harvey notò con una buona dose di soddisfazione che il piano era deserto, fatta eccezione per la scrivania della segretaria, con ancora la luce e il computer acceso.
    “Vuole che la annunci?” lo richiamò lei con fare civettuolo.
    “Non occorre, grazie.”
    Con un ultimo sorriso di circostanza le diede le spalle e camminò versò l’unica fonte di luce rimanente, proveniente da un ufficio alquanto grande in fondo al corridoio centrale. Attraversò la distanza che lo separava con rinnovata determinazione, pregustando il momento in cui avrebbe posato gli occhi sulla figura familiare del suo uomo; scivolò accanto alle numerose postazioni dei dipendenti, nelle quali durante il giorno essi si rintanavano come tante formiche operaie, e pochi attimi più tardi si stagliò davanti alle ante trasparenti. Si inumidì le labbra secche con la punta della lingua e studiò l’interno dell’ambiente illuminato.
    “Arrivederci, signor Nixon! Buona serata!” esclamò la segretaria dall’altra parte del piano e lui si girò per regalarle un cenno di saluto con la testa.
    Diavolo, si era rivelata un’ottima idea prendere in prestito un completo di Dorian, aveva un gusto invidiabile in fatto di moda maschile. Harvey scommise di aver addirittura fatto colpo sulla donna, perciò neanche Dorian sarebbe rimasto indifferente. A meno che, al suo ingresso inaspettato, non fosse stato fulminato da un infarto.
    Bussò, un ghigno che si andava a dipingere sulle labbra carnose. Un lieve formicolio si diffuse nel suo bassoventre, presagendo l’esito dell’improvvisata sul posto di lavoro del trentottenne e impaziente di concretizzarlo. Ebbene sì, scoparsi Dorian sulla sua scrivania, davanti alla finestra e con tutta la Grande Mela come spettatrice, era un sogno erotico ricorrente, che lo tormentava da svariate notti ormai e se voleva ritrovare la pace, e il sonno, doveva obbligatoriamente metterlo in pratica.
    “Avanti.”
    Harvey tirò a sé la porta ed entrò.
    “Liz, puoi andare, sono le otto passate.” disse il moro senza sollevare lo sguardo dai documenti che stava leggendo. “Ti ho messo sulla scrivania delle lettere da spedire, fallo domani mattina. E chiama Perry per quell’affare. Anzi, ci penso io più tardi, nel frattempo portami un tè. Poi vai a casa.”
    Lo spogliarellista rimase piantato sulla soglia, incerto sul da farsi e sconcertato dall’atteggiamento da leader indiscusso manifestato dianzi da Dorian. Non lo aveva mai osservato mentre era al lavoro e pareva un’altra persona. Era rigido, composto e dal portamento glaciale, così diverso dall’uomo che si scioglieva come burro ogni volta che veniva penetrato da lui nelle posizioni più fantasiose. In qualche modo, Harvey non riuscì a sovrapporre l’immagine di un Dorian in preda all’estasi con quel Dorian algido e distaccato.
    Si leccò nuovamente le labbra e il suoi occhi ambrati ebbero un guizzo sinistro. Dal nulla, percepì montare dentro di sé l’insano desiderio di farlo piangere e supplicare in preda al delirio. A quel pensiero, l’erezione non tardò a mostrarsi e i pantaloni divennero insopportabilmente stretti.
    “Insieme al tè, vuoi che ti porti anche un vassoio di pasticcini?”
    L’amministratore delegato sussultò vistosamente e soffocò per miracolo il grido che gli era salito su per la gola. Puntò di scattò l’attenzione sul ballerino e si strozzò con la propria saliva, col risultato che si piegò in due e cominciò a tossire a corto di ossigeno. Harvey non si spaventò. Spense la luce e si avvicinò con calcolata lentezza, poi assestò delle piccole pacche sulla schiena del trentottenne e attese che riacquistasse un po’ di contegno, e soprattutto fiato. Di questo gliene sarebbe servito molto quella notte.
    “Povero signor King, costretto a rimanere col sedere incollato sulla sua poltrona da trecento dollari anche oltre l’orario.” scosse il capo con falsa afflizione. “Così, ho ritenuto opportuno fare un salto per aiutarla a sgranchire il suddetto sedere.” chiocciò, l’espressione angelica, e di conseguenza inquietante, stampata in faccia.
    “Per l’amor del cielo! Harvey, come hai fatto a entrare?! La sicurezza non ti ha bloccato?”
    “No.” cinguettò e fece una linguaccia. “Merito dei tuoi vestiti, suppongo, uniti ovviamente al mio fascino conturbante e aristocratico. Ho sempre affermato di essere nato nel casta sociale sbagliata, ero destinato a dominare il mondo.”
    “In effetti ti dona quest’aura distinta… no! Intendevo che è proibito ai non addetti entrare neahmf!”
    Harvey lo zittì violandogli la bocca con la lingua, senza aspettare alcun permesso o frapporre ulteriori indugi, dato che il sesso compresso dalla stoffa dei pantaloni stava iniziando a spedirgli segnali sempre più insistenti. Gli artigliò i capelli e gli tirò la testa indietro, così che il moro esponesse il collo alla sua brama.
    “Ah! Ahh… Harvey! Fermo, c-ci sono le telecamere!”
    “Qua dentro?” mugugnò l’interpellato, avventandosi con una belva affamata sul lembo di pelle giusto sotto l’orecchio sinistro, accingendosi a succhiare per lasciargli un vistoso marchio rossastro.
    “No, i succhiotti no! Non posso coprirli se mi li fai lì… Harvey, maledizione, ascoltami!”
    “Voglio fotterti, qui e ora.” ringhiò con un tono che non ammetteva repliche.
    Gli circondò i fianchi con le braccia, lo issò e lo sbatté di peso con la schiena sulla scrivania.
    “Ahn! Oddio, calmati, rallenta!” gridò Dorian, vittima dei continui assalti del più giovane e ormai nudo dalla cintola in su - cravatta, camicia e giacca erano volati sul pavimento in un battito di ciglia, prima che l’uomo potesse manifestare il proprio disappunto.
    “Ci sono telecamere, in questa stanza?”
    “No… però…”
    “Allora, taci e apri le cosce.” con un unico, potente strattone lo spogliò dei pantaloni e biancheria e in pochi istanti lo privò anche dei calzini e delle scarpe. “Ora va meglio.”
    Con un gesto calmo, che nulla aveva a che vedere con la foga di prima, lo baciò in un angolo delle labbra, gli tolse gli occhiali e li depose in un cassetto della scrivania, per evitare di romperli. Dopodiché, si puntellò sulle mani e fissò Dorian dall’alto, premendo il membro ancora imprigionato direttamente sul posteriore dell’altro, facendogli così sentire con chiarezza quanto fosse eccitato.
    “Harvey… non credo sia una buona idea…” si lamentò debolmente il moro, già arreso per metà, accarezzando le braccia del ballerino piantate ai lati del proprio viso con i polpastrelli. Era impossibile per lui restare saldo e impassibile quando si trattava di Harvey; in poche parole, era inevitabile cadere succube delle sue richieste e accontentarlo in tutto, quasi che la forza di volontà di cui si vantava in azienda fosse tutto fumo e niente arrosto.
    “Perché? Non c’è nessuno, la tua segretaria è andata via, e non devi preoccuparti di reprimere i gemiti. Anzi, esigo un concerto privato da premio Nobel.”
    “Non essere cattivo…” mormorò Dorian con gli occhi da cucciolo, lucidi e spalancati, rendendo il compagno partecipe di un pudore incognito mai riscontrato durante i loro amplessi.
    Che egli fosse inaspettatamente influenzato dal luogo prescelto? Che si sentisse in soggezione nell’abbandonarsi a determinati atti esattamente dove di giorno svolgeva i suoi compiti dando prova di un’encomiabile professionalità?
    L’erezione del ventiseienne ebbe uno spasmo improvviso e il proprietario si ritrovò ad ansimare, mentre alcune vampate di calore gli attraversarono il corpo annebbiandogli il cervello.
    “E’ colpa tua che mi istighi, non hai il diritto di lamentarti.” borbottò, poi si lanciò sulla bocca dell’amante e la divorò come se non ci fosse un domani.
    Lo baciò con ardore e massaggiò con i palmi le sue natiche, spingendosele contro per aumentare la frizione tra i loro bacini. A Dorian occorse un minuto scarso per eccitarsi, trascorso il quale la risvegliata eccitazione svettò sul suo ventre dura come la pietra. Harvey non tergiversò e la impugnò subito con destrezza, intraprendendo il movimento del polso in rispetto ai tempi del maggiore, come sapeva provocargli più piacere, cioè rapido sull’asta e lento sulla punta umida e congestionata, stimolandola con il pollice.
    I gemiti non si fecero attendere e presto la stanza fu invasa dalla voce di Dorian, alla mercé della crescente libidine del castano. Questi si liberò della giacca firmata, si slacciò la cravatta, si sbottonò la camicia e aprì la cerniera dei pantaloni, il tutto in una sequenza veloce e precisa. Estrasse il sesso turgido dai boxer e lo posizionò sull’apertura di Dorian, che annaspò per la sorpresa. Ma Harvey non aveva intenzione di penetrarlo senza preparazione, non era così sadico, sebbene spesso fantasticasse di prenderlo a secco e affondare con violenza in quel corpo bollente, tuttavia si divertì a tenere l’altro sulle spine e ignaro dei progetti che aveva in mente.
    “Lo vuoi? Mh?” si morse il labbro inferiore e sospirò pesantemente sul collo dell’amministratore delegato.
    “Sì…” rispose quello, ormai totalmente perso nel vortice del piacere.
    “Quanto lo vuoi?”
    “Harvey…” lo supplicò e quasi bastò la sua voce pregna di lussuria a fare dell’esiguo autocontrollo di Harvey un lontano ricordo.
    L’aguzzino si lasciò andare ad una breve risata, per poi scendere a leccare i capezzoli del compagno.
    “Dovrai pregare molto di più, tesoruccio.” ghignò sul suo torace e succhiò la pelle chiara con passione, riempiendola di segni rossi e morsi.
    A un tratto, Dorian colse Harvey alla sprovvista sollevandosi col busto e allontanandolo da sé quel tanto che era sufficiente a cadere in ginocchio sulla moquette. Lo spogliarellista lo guardò perplesso, ma il moro fugò ogni dubbio circa i suoi propositi appena depose una giocosa leccatina sulla punta del pene. Allora, il ragazzo gettò il capo all’indietro ed emise un lungo gemito di approvazione, mentre le dita andavano ad intrecciarsi nei capelli neri e spettinati del maggiore e dettavano il ritmo della fellatio. Il trentottenne era migliorato un sacco nella tecnica, Harvey doveva riconoscerlo: aveva imparato come muovere la lingua, quanto e quando succhiare, come respirare - le prime volte tratteneva il fiato e rischiava di soffocare, però gli dava atto dell’impegno - combinando tutto in un insieme da urlo. Guardò in basso e si beò della vista del proprio membro che scompariva nella bocca di Dorian e riappariva lucido di saliva e altri umori, avvertendo le familiari e frequenti scariche elettriche che presagivano l’imminente orgasmo concentrarsi nei lombi. Fermò di botto la testa dell’uomo e si sfilò con un sospiro sofferente. In seguito, agguantò un preservativo dalla tasca interna della giacca e lo indossò con celerità, ormai prossimo al limite.
    “Piegati sulla scrivania, a novanta.” ordinò senza troppe cerimonie, le iridi accese simili ad oro fuso.
    Dorian obbedì docile e deglutì di anticipazione. Il ballerino si leccò per bene due dita e violò l’ano dell’altro in un attimo, sentendo i muscoli contrarsi e serrarsi attorno alle falangi.
    “Vuoi essere sfondato a regola d’arte oppure preferisci che ti lasci così?” lo provocò, facendo sforbiciare le dita.
    Il più grande singhiozzò e si aggrappò al bordo del tavolo. “L-la prima…”
    “Allargati da solo, dimostrami che mi desideri, altrimenti niente dolcetto.”
    Come intimato, Dorian si afferrò i glutei e li schiuse al massimo per concedere ad Harvey più spazio di manovra, soffocando al contempo la vergogna che gli suscitava la situazione. Per carità, era eccitato dal modo di fare dominante del giovane, ma non poteva esimersi dal provare anche un senso di costante umiliazione mista a impotenza. Nelle poche esperienze che aveva avuto, aveva sempre sperimentato il ruolo passivo nel rapporto, ma mai era stato trattato in quel modo, con dolcezza e sadismo in una volta. Sottomettersi spontaneamente non era un fastidio, amava ogni singolo aspetto di Harvey e non aveva timore di donarsi a lui completamente, tuttavia quando si atteggiava a lupo cattivo non sapeva mai come reagire, se preoccuparsi o meno.
    “Bravo, esatto. Dio, quanto sei sexy, dovresti vederti…” il ventiseienne ruotò il polso e divaricò per quanto possibile le pareti interne di Dorian, preparandolo per qualcosa di molto più grosso. “Il pervertito amministratore delegato che si fa fottere come una sgualdrina nel suo ufficio… una trama da film porno, non ti pare?”
    “No… smettila…”
    “Non fare il verginello, so che ti piace.”
    Infatti, Dorian non poteva negarlo. Quando scatenava i suoi istinti più reconditi, Harvey si trasformava in una bestia selvaggia e inarrestabile, non esisteva nulla in grado di placare la sua fame. Mise nuovamente la punta dell’erezione sull’orifizio dilatato e rimase immobile, un altro ghigno dipinto sulle labbra.
    “Impalati con le tue forze, la tua resistenza è agli sgoccioli. Ingoiami, coraggio.”
    Il trentottenne gemette e alcune lacrime gli solcarono le guance arrossate. Spinse indietro col bacino e accolse l’ingombrante virilità di Harvey dentro di sé, come aveva già fatto innumerevoli volte, e lo sentì rovente e duro invadergli la carne. Non appena lo inglobò fino alla base, il castano aderì con il petto alla sua schiena e lo sommerse di teneri baci sul collo, aspettando che si abituasse all’intrusione. Poi, piano, inizio a dondolare i fianchi, attento a non provocare dolore a Dorian. Costui spalmò il viso accaldato sulla scrivania e assecondò il ritmo del compagno, contento delle coccole e delle carezze che ora Harvey gli regalava. Gli piaceva da matti, era inutile opporsi alla carica erotica che sprigionava da ogni poro.
    Dopo circa mezzora, lo spogliarellista si alzò e uscì da Dorian, ma troncò ogni rimostranza sul nascere baciandolo con trasporto e girandolo fra le braccia, in maniera tale da poterlo guardare negli occhi. Gli fece poggiare la schiena nuda sul vetro fresco della finestra, gli sollevò le gambe e lo sostenne, mentre tornava a penetrarlo con enfasi. Fottendolo proprio come nei suoi sogni, rimirò con adorazione la sua espressione a metà fra il godurioso e il frustrato, la pelle del viso rigata da scie di lacrime e gli occhi azzurri lucidi e appassionati.
    No, era molto meglio nella realtà, nei sogni non aveva mai contemplato qualcosa di così paradisiaco.
    “Dorian… ah…” gemette nel suo orecchio, accelerando le stoccate del bacino. Lo baciò un’ultima volta, infine si svuotò nel preservativo con un paio di affondi profondi.
    “Harvey… io…”
    “Lo so, aspetta.”
    Il ballerino cercò di recuperare abbastanza ossigeno e lucidità in tempi ragionevoli, poi si inginocchiò di fronte ad un frastornato Dorian e prese a pompare il suo sesso, pronto ad assaporare sul palato il suo seme, che a fiotti impetuosi gli scese giù per la gola. L’istante successivo, l’uomo si accasciò privo di energie sul pavimento, ma Harvey lo acchiappò giusto un attimo prima che si schiantasse dolorosamente sulla moquette.
    “Hey! Stai bene?” domandò leggermente ansioso, scrutandolo con apprensione.
    “E’ come… se mi avessero aperto in due…”
    Il ragazzo rise e buttò il profilattico nel cestino sotto la scrivania. “Non penserai mica che sia finita qui, vero?”
    “Eh?”
    “Abbiamo altri due round.”
    “Scherzi… giusto?”
    “No.”
    “Ma… il mio culo…” piagnucolò Dorian con aria sconsolata. “Abbi pietà…”
    “Ti ho addestrato in questi mesi, non dovresti più avvertire la stanchezza dopo una sola volta.”
    “Questa vale doppio! Ti rendi conto che-”
    “Zitto. In futuro ho già in programma di farlo all’aperto, poi in acqua, sul cofano della Porsche e persino nel tuo letto d’infanzia.”
    “No! Assolutamente no. Bocciato.”
    “Invece lo faremo, sennò ti monterò in quest’ufficio ogni sera e non mi preoccuperò della presenza della segretaria o di chicchessia.” sentenziò, strofinandogli il pene morbido con tocchi esperti.
    “Stupido erotomane…” bofonchiò il moro sulle labbra dell’altro, però non si ribellò quando Harvey lo stese supino e lo possedette ancora e ancora, finché non lo ebbe ridotto ad una marmellatina appagata ma dolorante.

    “Quindi?!”
    “Quindi niente. Ecco, ha detto che d’ora in avanti farà sul serio.”
    Colin lo squadrò con sussiego. “E come pensavi di agire?”
    “Boh, abbiamo fissato un appuntamento questo weekend.”
    “Dove?”
    “Ci incontriamo davanti alla biblioteca e poi facciamo una semplice passeggiata. Più che altro sarà un’occasione per parlare e conoscerci meglio.”
    Il biondo esalò un sospiro esasperato e scosse la testa.
    “Piantala e spiegami qual è il problema.” ribatté Alan imbronciandosi.
    Colin accavallò le gambe e si appoggiò allo schienale della panchina, osservando distrattamente il via vai di studenti che entravano e uscivano dall’Accademia.
    “Il problema è che siete lenti.”
    “Oh, da che pulpito! Te e Kendra a che punto siete arrivati?” chiese sarcastico.
    “La questione, qui, non riguarda me e Ken, ma te e quel ritardato!”
    “Hey, vacci piano.”
    “Sto dicendo… insomma, non ti sei rotto di aspettare? Almeno chiaritevi questa volta, pretendi una risposta diretta da lui…”
    “E’ ciò che farò, non temere. Ha ammesso che gli piaccio, perciò credo di avere una possibilità.”
    “Il punto è se lui decide di smettere di negare l’evidenza.”
    “Ok, è un osso duro, ma non è invincibile.”
    “Dovrai prendere tu l’iniziativa, perché altrimenti rischi di diventare vecchio!”
    “Ora è diverso, Colin. Raphael è diverso, te lo garantisco. Non finirà come in passato.”
    “Te lo auguro di cuore, hai penato abbastanza.”
    “E Kendra?”
    Il ragazzo sbuffò, frustrato e divertito al tempo stesso. “Ha detto: prenderò in considerazione la proposta.”
    “Tipico di lei.”
    “Già. Però, dai! Mi sono dichiarato, ho messo a repentaglio il mio orgoglio per sentirmi rispondere una cosa del genere? Lì per lì l’avrei strozzata, sul serio.”
    “Lasciale spazio, non la tormentare o otterrai l’effetto contrario.”
    “Lo so, ma è già passata una settimana! E vederla durante i corsi, incrociarla per i corridoi e pure sederle accanto in mensa rende tutto più difficile! Cavolo, c’è così tanta tensione fra noi che mi sento a disagio ogni volta che la guardo.” poggiò i gomiti sulle ginocchia e si nascose la faccia fra le mani. “Non ce la faccio più.”
    “Resisti, coraggio.” Alan gli assestò una pacca consolatoria sulla spalla. “Siamo entrambi messi male, eh?”
    “Da schifo…”
    “Hey, ragazzi!”
    La voce di Kendra li risvegliò dalla provvisoria catalessi depressiva in cui erano piombati e Colin impallidì di botto.
    “Non avete lezione?” chiese, apparentemente indifferente alla reazione del biondo.
    “Ehm, ciao!” la salutò il rosso con un sorriso. “Tra un’ora abbiamo Storia dell’arte, ci stavamo rilassando un po’.”
    “Posso unirmi a voi?”
    “Certo! Colin?”
    “Ah! Oh! Eh, sì… sì, ok.”
    La ragazza prese posto accanto ad Alan, cosicchè il giovane si ritrovò in mezzo a due fuochi. Rivolse un’occhiata allucinata al nulla e tentò febbrilmente di elaborare un piano per levarsi di impiccio al più presto.
    “Vado a comprare qualcosa da bere, voi che volete?”
    “Io sono a posto.” disse Kendra con un borbottio indistinto, occupata a scrivere qualcosa sul palmare.
    “Anch’io.” fece Colin, implorando silenziosamente Alan di restare con lui.
    Tra i due ex amanti seguì uno scambio serrato di sguardi eloquenti, infine il diciannovenne girò i tacchi e lasciò i due piccioncini a loro destino. D’altronde, Colin non poteva nascondersi in eterno dietro le sue sottane e Kendra era un maschiaccio dal carattere indomito. Ergo, se il biondo non tirava fuori gli attributi, l’amica lo avrebbe sbranato.
    Si rifugiò in un angolo appartato del cortile, sufficientemente lontano per non interferire, ma relativamente vicino per intervenire nel caso Kendra fosse diventata violenta. Ultimamente era molto più suscettibile, bastava una sciocchezza per farle scattare il nervo. Estrasse il cellulare dalla tasca e controllò se aveva messaggi o e-mail nella casella di posta, ma niente. Si mordicchiò assorto l’unghia del pollice, poi aprì un messaggio di testo e cominciò a scrivere.
    Nel silenzio della biblioteca comunale si udì uno squittio strozzato, ma la fonte di tale, molesto rumore scomparve all’istante e nemmeno il signor Jills riuscì a captarla con i suoi sensori radar ultrasviluppati.
    Raphael scrutò intorno a sé con nervosismo e sospetto e lesse di soppiatto il messaggio sul telefono. L’improvvisa vibrazione sulla coscia per poco non gli aveva provocato un infarto. Era Alan.
    Sorrise e, assicurandosi di non essere osservato da occhi indiscreti, si affrettò a rispondere.
    Lo scambio di sms durò un’oretta e a Raphael parve di essere tornato adolescente. Anzi, neanche quando era al liceo aveva messaggiato così tanto con qualcuno, tra l’altro per comunicare informazioni futili a proposito di cosa aveva mangiato a colazione. Però era spassoso, soprattutto se il destinatario dall’altra parte era Alan. Dopo anni di solitudine, si sentiva pervaso nuovamente da quella particolare eccitazione che ti coglie quando flirti con la persona di cui sei invaghito, quella pressante aspettativa condita con un pizzico di pura felicità.
    In sostanza, si sentiva un idiota, ma era contento comunque.
    Era consapevole che il ‘giorno del giudizio’ si avvicinava e che quel giorno il corso del suo destino sarebbe stato segnato, ma in fondo non lo temeva come aveva immaginato. Non lo temeva perché sapeva quale sarebbe stato l’esito dell’incontro, lo aveva deciso dal momento in cui aveva fissato l’appuntamento. Non c’erano alternative possibili e si malediceva per aver atteso così tanto nel fornire una risposta precisa a se stesso e ad Alan. Il quadro era chiaro, le carte erano state scoperte, i giochi erano fatti.
    La fine poteva essere una soltanto.
    Il cellulare vibrò ancora e il trentaquattrenne occhieggiò il contenuto del messaggio col cuore in gola.
    Alan aveva scritto: “Ok, ci sarò. Spero di non perdermi.”
    Sorrise compiaciuto e spense l’apparecchio, tornando a battere con le dita sulla tastiera del computer.


     
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    grazieeeeeeee!!! <3 <3 :) :) :)

    Alan osservava con sguardo vacuo il soffitto della camera, la schiena a contatto col materasso e la braccia avvolte intorno al cuscino. La sua mente pareva piena di ovatta, da quanto gli risultava difficile da qualche ora a quella parte elaborare un qualunque pensiero logico, anche poco impegnativo, che non riguardasse una certa persona. Ogni cellula del suo corpo ed ogni sinapsi erano concentrate, focalizzate su un unico chiodo fisso: Raphael.
    Due giorni prima il biondo gli aveva proposto tramite messaggio di raggiungerlo a casa sua per una cena.
    Casa di Raphael.
    Tana del lupo.
    Anticamera di un possibile paradiso.
    Sarebbero stati loro due, soli, una cenetta a lume di candela, l’atmosfera romantica, qualche bicchiere di vino, un po’ di musica soft in sottofondo… o così si immaginava il ragazzo, perso nelle fantasticherie da verginella repressa, circondata da unicorni e arcobaleni. La serata poteva ingranare nel verso giusto e per far sì che la situazione non degenerasse come al solito non erano ammessi errori.
    Sospirò e si passò il pollice sulle labbra, tentando di rivangare il momento in cui si erano baciati. Raphael era stato impulsivo, deciso ma anche delicato, suscitando in lui un miscuglio burrascoso di emozioni che non aveva preventivato. Si era sempre figurato come sarebbe stato il loro primo bacio, aveva spaziato con la fantasia in tutti i luoghi possibili e preso in considerazione tutte le dinamiche più assurde, ma la realtà aveva spazzato via bruscamente e senza preavviso le idee infantili che il cervello gli aveva propinato sino ad allora, catapultandolo al centro esatto di un tornado. Era stato normale e al contempo sconvolgente.
    Quanto desiderava ripetere l’esperienza, e magari approfondirla!
    Arrossì e si rannicchiò in posizione fetale stritolando il cuscino.
    Tuttavia, non era sicuro che quella sera sarebbe effettivamente accaduto qualcosa. Cioè, Alan si era accorto, con sommo sconcerto per giunta, che il bibliotecario era un individuo imprevedibile e forse affetto da disturbo di personalità multipla. Ricordava bene come, il giorno del fatidico bacio, fosse rimasto spiazzato quando il biondo avesse svelato un lato del suo carattere ancora sconosciuto in modo tanto repentino.
    Una volta tornato a casa, si era messo a rimuginare e all’improvviso, mentre scarabocchiava su un foglio del blocco da disegno l’ennesimo ritratto di Raphael, aveva realizzato che egli non era un principe. Lì per lì rimase perplesso, con la matita bloccata a mezz’aria, ma la rivelazione a cui era giunto non era così scontata; il giovane era sempre stato convinto, nei più reconditi recessi della propria coscienza, che Raphael fosse l’incarnazione vivente del suo ideale di principe azzurro, perfetto da ogni angolazione. Lo scoprire che era, al contrario, molto più umano di ciò che credeva, lo destabilizzò e lo esaltò al tempo stesso. Infatti, se Raphael era umano, aveva dei difetti; e se aveva dei difetti, non era invincibile; e se non era invincibile, significava che poteva essere raggiunto, che era una preda meravigliosamente alla sua portata.
    Alan si era sentito per tutti quegli anni schiacciato da un inesistente e infondato senso di inferiorità nei confronti del biondo e il rendersene conto gli aveva spalancato le porte su universo nuovo e misterioso. A quei tempi, Raphael era un dio sceso in terra, una creatura affascinante, provocante e circondata da un invalicabile alone di tristezza. Sembrava il personaggio tenebroso e dannato di un romanzo decadente, l’essenza più pura della bellezza che però rifiuta se stessa.
    Invece, non era affatto l’eroe di un racconto, ma un uomo in carne ed ossa, con i suoi problemi ed i suoi sogni. E, alla fine, al diciannovenne non dispiaceva per niente, anzi si sentiva pervaso da un inebriante sentimento di amore infinito e incondizionato; se prima riteneva di non essere degno neppure di respirare la medesima aria, adesso aveva compreso di essere un suo pari, di avere il sacrosanto diritto di camminargli a fianco come chiunque altro.
    Raphael non era una divinità. Raphael era uguale a lui, in ogni aspetto.
    Tornando al presente, non nutriva enormi aspettative per l’imminente serata: ormai aveva imparato ad andarci coi piedi di piombo quando si trattava del bibliotecario - anche perché nei precedenti appuntamenti era partito tutto euforico per poi venire preso a bastonate virtuale e rimanere amaramente deluso - però non riusciva a contenere i più disparati viaggi rocamboleschi che la mente partoriva ad oltranza, senza requie. Era eccitato all’inverosimile, eppure cercava di porre un freno e restare freddo.
    Tale condizione di lotta interiore venne interrotta da un bussare discreto alla porta.
    “Sì?”
    “Alan?”
    “Ciao, mamma. Che c’è?”
    Daisy si grattò una guancia, poi si schiarì la voce: “Figlio, è ora che ti faccia il famoso discorso.” dichiarò seria. Peccato che questa magnifica solennità e sfoggio di autorità genitoriale risultò praticamente inutile, poiché ad Alan cadde per caso l’occhio sulle pantofole bianche a forma di coniglietto della madre. Avevano pure la coda a livello del tallone. “Orsù, assumi una posizione più consona e prestami orecchio!” trillò, ignara del divertimento del ragazzo.
    “Mamma, ho perso al verginità tipo… quattro anni fa.” rivelò ridacchiando e si nascose il viso nel palmo di una mano, inconsapevole della miccia che aveva acceso.
    La detonazione arrivò puntuale.
    “Che cosa?!” tuonò Daisy e il figlio sussultò vistosamente.
    Il giovane arretrò inconsciamente e studiò l’incedere lento e inesorabile di sua madre con crescente preoccupazione.
    “Beh… sì, ecco…” balbettò con la coda di paglia.
    “Con chi?!”
    “Jason.”
    La donna si sgonfiò all’improvviso come un palloncino bucato. “Oh.”
    “Non te l’ho detto perché… mmm… non mi ricordo il motivo, ma doveva essere assolutamente valido.”
    “Ma… ma…” boccheggiò stravolta e con le lacrime agli occhi, “…io non ho mai fatto problemi per la tua omosessualità e tu mi taci una cosa del genere?! Ingrato!”
    “Sono cose personali!”
    “Non ti barricare dietro insulse scuse!” sbraitò, marciando verso Alan avvolta da un’aura minacciosa, per poi incombere su di lui come un lupo sull’indifeso agnello. “Avete usato le protezioni?”
    “No…”
    “Cosa?!” gracchiò e il suo colorito si fece cadaverico.
    “Avevo quindici anni! Sapevo poco o nulla del sesso… e con J.J.… non l’avevo pianificato, è successo e basta!” si schermì protendendo le braccia e il cuscino davanti a sé, per farsi da scudo e parare un eventuale, meritato colpo. “E’ stata solo una volta… poi, comunque, J.J. si fa periodicamente il test e finora è sempre risultato negativo. Cioè, non lo sento da circa un anno, però finché lo frequentavo era sano.”
    Daisy si abbandonò ad un pesante sospiro e si lasciò cadere sul letto di Alan. “Non farmi venire questi spaventi mai più. È proprio per risparmiarmi gli infarti che ti ho comprato…ecco, tieni.” tirò fuori da sotto il grembiule da lavoro una confezione di profilattici e li schiaffò in mano al figlio. “Usali e sarò tranquilla.”
    Alan rimase di ghiaccio e in silenzio scrutò con espressione indecifrabile il ‘regalo’. Dopodiché, rosso come un semaforo, borbottò: “Ok. Ma ce li ho già…”
    “Eh? Bugiardo.”
    “No, è vero.”
    “Dove sono?”
    Il figlio tossì imbarazzato e aprì il secondo cassetto del comodino, rivelando la presenza di oltre dieci confezioni di preservativi.
    “Ah…” la donna restò senza parole.
    “I tuoi li aggiungo subito alla scorta! Grazie, mamma!” sorrise nervosamente, supplicando tutti i santi affinché lo preservassero dalla furia materna.
    “Perché ne hai così tanti? C’è qualcosa che devo sapere?” indagò crucciata.
    “No no, li tengo qui perché… non si sa mai.”
    “Alan.”
    “Davvero! Dopo J.J. non ho mai fatto sesso con nessuno! Giuro!”
    Non è una bugia, con Colin non mi sono spinto fin là.
    “E… con Raphael?”
    Il giovane cominciò a fumare come una teiera in ebollizione. “N-non abbiamo ancora fatto niente, però ci spero.” confessò in tutta onestà.
    L’altra annuì. “Non ti ho dato la mia benedizione per questa storia, lo sai. Tuttavia, finché ti tratta bene, non avrò nulla di ridire. Anche se ammetto che non mi convince, è troppo grande per te.”
    “Ti assicuro che tra i nostri cervelli non c’è poi tanta distanza come fra le nostre età.” asserì con uno sbuffo.
    “Fa’ come vuoi, non posso fermarti. Però ricordati che non sono contenta e che non lo inviterò a cena.”
    “A meno che non ti convinca che è l’uomo della mia vita.” ghignò Alan.
    “In quel caso, suppongo che dovrei arrendermi.” convenne Daisy e gli tirò un buffetto sulla guancia. “Preparati, usciamo tra un’ora.”
    “Perché?” domandò confuso.
    “Ti accompagno, ovvio.”
    Il ragazzo incrociò immediatamente le braccia ad X di fronte a sé. “No, bocciato.”
    “Ormai ho deciso, rassegnati.” si alzò e si diresse all’armadio del figlio per vedere quali vestiti fargli indossare per l’appuntamento.
    “Mamma!” esclamò disgustato. “Ho diciannove anni e l’uomo di cui sono innamorato da tre mi ha invitato a cena a casa sua! Già ci ho messo tre anni - e ripeto: tre! - per farmi considerare un minimo, e il problema dell’età ha angustiato anche lui in passato. Se mi faccio accompagnare da mia madre, penserà che sono un bambino, cacchio! Manderai tutto a rotoli! Sto cercando di apparire adulto con lui, non puoi rovinare i miei sforzi proprio adesso che la fortuna sta girando per il verso giusto, ti prego.”
    “Ma tu non sei adulto.” commentò Daisy, fissandolo stranita.
    “A nessuno frega un accidente, per la miseria!!!”
    “Alan, calmati.”
    “No, non mi calmo! Andrò da lui in bici, mi vestirò elegante e non con quella camicia a quadrettoni da campagnolo che hai in mano, nemmeno morto! Capisco la tua preoccupazione in quanto madre, ma fidati di me.”
    “Mi fido di te, tesoro. È che non mi fido di lui.”
    “Mamma, ascoltami.” balzò giù dal letto e la raggiunse, prendendole una mano fra le sue. La guardò implorante, con le lacrime agli occhi: “Mi ci sono occorsi tre anni. Hai idea di quanti siano alla mia età? Ho perso tre anni dietro a Raphael e ora, finalmente, lui mi sta guardando. Sono sotto esame, comprendi? Se lo passo, vivremo insieme felici e contenti, altrimenti tutto si dissolverà in un istante come una bolla di sapone. Per me è importante, dico sul serio.”
    La donna scosse la testa. “Alan, rifletti, io…”
    “Io lo amo.” affermò con determinazione, ricambiando con fierezza lo sguardo severo di Daisy, “Lo amo e se tu sarai la causa del disastro, sappi che, a dispetto di frasi trite e ritrite come: l’ho fatto per il tuo bene!, non ti vorrò più bene come ora. Non ti odierò, non ne sono capace, sei mia madre, ma non so se riuscirei a sorriderti ancora.”
    La donna strabuzzò le palpebre e fu come se qualcuno le avesse appena strappato via di forza il fiato dai polmoni. Si sentì annichilita, svuotata, sull’orlo del pianto.
    “Ti prego.” aggiunse Alan, stavolta in tono gentile, aspettando un permesso.
    Daisy vagò con gli occhi per la stanza, soffermandosi su tutti i disegni che tappezzavano quasi per intero le pareti. Per lo più ritraevano Raphael e, benché lei non lo avesse mai incontrato, solo da quelle immagini si poteva facilmente arguire che era bello, ma specialmente notò come la sua espressione risultasse malinconica e infelice. Beh, queste opere erano la rappresentazione dell’esclusiva visione di Alan, il modo in cui lui lo vedeva, di conseguenza quel Raphael raffigurato sulla carta poteva non corrispondere necessariamente al Raphael reale. Eppure, se contemplava con uno stato d’animo sereno e ricettivo quei disegni, riusciva a percepire con nitidezza quanto il figlio tenesse al biondo e questo non la lasciava indifferente.
    Aggrottò le sopracciglia e ricambiò con eguale intensità le occhiate di Alan.
    “Va bene, non interferirò. Ma tu promettimi di non farti condizionare, resta sempre te stesso.”
    “Giurin giurello!” cinguettò felice il rosso e abbracciò la madre sollevato.
    “Sbrigati a vestirti, su. Di sotto ho preparato una torta, non sia mai che ti faccia andare a mani vuote!”
    “Ok, allora esci.”
    “Ti vergogni a farti vedere nudo da tua madre?” lo prese in giro.
    “Sì, quindi esci, per favore.”
    Daisy fece un cenno scocciato e obbedì sghignazzando.
    Quaranta minuti dopo Alan era pronto, lindo e profumato. Corse a rotta di collo giù per le scale, agguantò la torta di mele coperta dalla pellicola e si dileguò come un razzo in sella alla bici. Pedalò per circa un’ora, controllando il percorso sul cellulare ad ogni incrocio pedonale, e infine la sagoma della villetta di Raphael si stagliò come il traguardo di una maratona dinanzi a lui.
    Era una casa a due piani, con il tetto spiovente e il classico prato all’americana sul davanti, con tanto di vialetto e palizzata bianca. Al limitare di essa, sulla destra, c’era un albicocco e ai lati di questo un muretto di cespugli.
    Il ragazzo storse la bocca in una smorfia. Mancava solo la classica fontana rotonda con l’allegro zampillo d’acqua emesso dalla bocca di un delfino e il quadro sarebbe stato completo.
    I soliti ricconi.
    Sbuffò e parcheggiò la bicicletta dentro il giardino, attaccandola col lucchetto ad un palo della staccionata, poi si fece vento con la mano e attese che il sudore si asciugasse almeno un pochino. Era stata una pessima idea scegliere la bici, avrebbe fatto meglio a prendere la metropolitana o un autobus. Però i mezzi pubblici terminavano le corse intorno a mezzanotte e se non fosse venuto in bici, le opzioni alternative sarebbero state disagevoli: se avesse fatto tardi, avrebbe dovuto prendere un taxi e spendere una valanga di soldi, oppure Raphael si sarebbe offerto di dargli un passaggio in macchina, ma sarebbe stato imbarazzante. Non che gli dispiacesse uno strappo da Raphael, ma voleva dare prova di essere indipendente. Voleva dimostrargli di sapersela cavare da solo, di essere autonomo anche per muoversi. Che figura ci avrebbe fatto, altrimenti? Un bamboccio che deve farsi riaccompagnare a casa dall’uomo che deve conquistare, perché non possiede una fottuta patente. Avrebbe dovuto ignorare sua madre, all’epoca, e prenderla comunque, così al limite avrebbe potuto noleggiare un’auto per occasioni come quella.
    Lanciò un’occhiata all’orario e si avvide di essere addirittura in anticipo di dieci minuti. Decise di sfruttarli in maniera proficua: si piegò sulle ginocchia per recuperare il fiato e stabilizzare la temperatura corporea, lasciandosi accarezzare dalla leggera brezza primaverile. Tuttavia, nonostante stesse immobile, continuava a grondare come una spugna bagnata. Era inammissibile presentarsi conciato in quel modo.
    Si sdraiò sull’erba, inspirò a grandi boccate e divaricò gambe e braccia, assumendo una posizione a stella, lo sguardo rintronato rivolto verso il cielo limpido e privo di nubi.
    Una donna vestita con abiti eleganti e agghindata a festa avanzò impettita sul marciapiede dall’altra parte della palizzata e guardò sconcertata il giovane, ma non per questo rallentò il suo incedere sui tacchi a spillo.
    Alan le fece un debole cenno del capo. “Salve.”
    Ella sbuffò e distolse l’attenzione, allontanandosi impettita e sconvolta.
    All’improvviso, uno spruzzo d’acqua fredda si riversò proprio sulla faccia del rosso, e in seguito gli inzuppò del tutto i vestiti: l’impianto di irrigazione del giardino era stato azionato. Reclinò lentamente la testa di lato, modello l’Esorcista, e, come previsto, la figura di Raphael entrò nella sua visuale. Mise a fuoco e notò il ghignetto diabolico sulle labbra, come anche il telecomando dell’impianto stretto nella mano destra.
    “Bastardo.” ringhiò.
    “Ma come? Credevo di farti un favore! Non ti senti meglio?”
    Alan ci rifletté: “Mh, in effetti va meglio. E per vendicarmi, entrerò in casa tua in questo stato e ti allagherò il pavimento con immenso piacere.”
    “Ho già steso gli asciugamani, non preoccuparti.”
    “Ah! Allora è stato un crimine premeditato!”
    “Sì, era tutto calcolato.”
    “Stronzo.”
    Raphael scoppiò a ridere e disattivò le fontanelle.
    “Dai, entra. Ti presto dei vestiti asciutti.”
    “Tch, con tutta la fatica che avevo fatto per essere figo…” bofonchiò tra sé e sé.
    “Come?”
    “Niente, arrivo.” si rimise in piedi e afferrò la torta dal cestino della bici.
    Si avviò verso la villetta e si tolse le scarpe sullo zerbino, poi oltrepassò l’ingresso camminando sugli asciugamani, allineati a formare un sentiero con destinazione il bagno al piano superiore. Raphael non cessò un secondo di ridere sotto i baffi, non lo risparmiò nemmeno quando Alan lo raggiunse in cucina con i capelli scarmigliati e umidi, scalzo e con addosso un paio di pantaloncini verdi e una maglietta bianca parecchio grande per il suo fisico non eccessivamente sviluppato.
    “Cosa ridi?!” lo attaccò il giovane, un adorabile broncio a incurvargli la bocca all’ingiù. “E’ colpa tua.”
    “Che bacchettone che sei! Non ci si può divertire un po’ a tue spese?” lo pungolò il biondo con finta aria esasperata.
    “No, perché per me non è divertente, non vedo il lato divertente e tu non sei affatto divertente.” replicò piccato, andandosi a sedere su una sedia accanto alla tavola da pranzo imbandita per due.
    “Ok, rilassati. E benvenuto nella dimora Hopkins, mi sono dimenticato di fare gli onori.”
    “Pessimo padrone di casa.”
    “Purtroppo sono d’accordo, ma non mi capita di avere spesso ospiti, quindi ho cancellato ogni ricordo sul galateo. Se vuoi curiosare in giro, fa’ pure. Tra dieci minuti è pronto.”
    “Mi stai dando carta bianca?” indagò stupito Alan scrutandolo di sottecchi.
    “Perché non dovrei? Non ho nulla da nascondere, sentiti libero di ficcanasare.” Raphael liquidò l’argomento con un’alzata di spalle e tornò a spentolare. “Ah, a proposito, ho posato la torta in frigo, ho fatto bene?”
    “Che ne so!”
    Il biondo fissò l’altro confuso. “Non l’hai fatta tu?”
    “No. Mia madre ti manda i saluti.” grugnì annoiato, mentre Raphael soffocava un nuovo attacco di risate.
    “Ringraziala, quando torni a casa.”
    “Mh.”
    Alan studiò l’ambiente circostante con rinnovato interesse, confermando la sensazione confortevole che aveva provato di primo acchito. I muri erano color crema, ma quella sfumatura si sposava in maniera sublime con i mobili in legno di ciliegio, che parevano costruiti su misura, e i quadri paesaggistici appesi a gancini di ferro. Era talmente armonioso, vagamente rustico, da risultare perfetto. L’arredamento stesso del salotto trasmetteva serenità e il cinguettio degli uccellini che proveniva dal giardino chiudeva il cerchio.
    Vivere in un posto del genere si sarebbe rivelato un vero un paradiso per i sensi e il ragazzo avvertì una fitta di invidia. L’appartamento in cui viveva con sua madre possedeva un’atmosfera insostituibile di casa, era affezionato pure all’effluvio costante di fiori che permeava le pareti, ma in confronto a questo spettacolo così domestico… da una determinata prospettiva era commovente. Mancava solo qualche ramo di edera a far capolino dalle finestre e l’opera era completa. All’improvviso, percepì il familiare desiderio creativo montare a velocità supersonica, tanto che la smania di arraffare un foglio e una matita al più presto gli provocò un fastidioso prurito alle mani. Quella stanza lo ispirava, stuzzicava il suo estro artistico come quasi mai gli era successo - lo aveva sperimentato per la prima volta durante la gita in Francia, a Giverny, la dimora di Monet. Era ebbro di ispirazione e sentiva il bisogno fisico, a tratti doloroso, di sfogarsi, tuttavia lo represse e si accontentò di guardare, immagazzinando ogni dettaglio per poterlo poi trasporre sulla carta in un secondo momento.
    Raphael, che nel frattempo lo aveva spiato in silenzio, sorrise con dolcezza all’espressione incantata di Alan, terribilmente simile a quella di Alicia allorché il suo ‘io-pittore’ la prendeva in ostaggio. Contemplandolo con attenzione, il salotto gli parve immerso in un’altra dimensione, pacifica, nostalgica, sospesa come in un autentico quadro con protagonista un giovane con i capelli sanguigni e ribelli, voltato di schiena verso la portafinestra che dava sul cortile e circondato da un ambiente caldo e surreale dominato dai colori della natura. Occorreva subito una cornice.
    “E’ pronto.” sussurrò gentilmente per non rompere l’idillio e Alan si girò con una luce intensa che gli brillava negli occhi verdi.
    “Questo posto è stupendo.”
    “Sapevo che lo avresti apprezzato.”
    Il bibliotecario servì nei piatti uno sformato di patate e formaggio e in mezzo al tavolo depose un vassoio con prosciutto, pomodori, verdure bollite, sottaceti e altri stuzzichini.
    “E il vino?” domandò l’ospite.
    “Niente vino, tu non puoi ancora bere.”
    “Ma come!” si lagnò imbronciandosi.
    “Tanto non ce l’ho, non è che lo tengo nascosto.”
    “Uffa…”
    “Mangia e zitto. Se riesci a non lamentarti per tutto il pasto, come premio ti darò una bottiglia di birra analcolica. Che ne pensi?” gli propose con una faccia da schiaffi.
    “Quando la smetterai di rimarcare la differenza di età?”
    “Quando compirai ventuno anni. Allora sarai un uomo adulto per la società e legalmente perseguibile, e non avrò riserve.”
    Alan sbatté con malgarbo la forchetta nel piatto. “Quindi, mi stai dicendo che dovrò aspettare altri due anni per farmi scopare da te?!” sbraitò ferito.
    Raphael sputò all’istante ciò che stava masticando e si colpì il petto con il pugno per scampare a morte certa. Scrutò severo il giovane per interminabili secondi, dopodiché si piegò in due e rise di gusto di fronte allo sguardo allibito dell’altro.
    “Stai bene?” indagò apprensivo il rosso.
    “Per quanto riguarda lo scopare, finché tu sei consenziente e nessuno ci scopre… ma non stasera.”
    “E allora che si fa?”
    “Ok, andiamo dritti al sodo.” il trentaquattrenne si schiarì la voce e si asciugò la bocca col tovagliolo.
    Alan deglutì e cominciò a sudare per l’agitazione.
    “E’ ormai stato appurato che mi piaci, che sono attratto da te in quanto maschio perché sono gay e che ti trovo anche deliziosamente intrigante.” snocciolò con disinvoltura, mentre il più piccolo diveniva sempre più paonazzo da ogni parola. “A monte di tali, inconfutabili fatti, ti vorrei chiedere di frequentarci ufficialmente. Intendo non solo cene, ma vere e proprie serate o giornate passate insieme, anche fuori città. Inoltre, ritengo d’obbligo informare il qui presente signorino che non mi tratterrò: se vorrò baciarti o toccarti, lo farò. E dato che appunto mi attiri sessualmente e che finora non ti sei dimostrato riluttante a intraprendere quella via, spero non sorgeranno problemi su questo punto.”
    “No! Non ci saranno, sarò a tua disposizione quando vorrai, giuro!” esclamò scattando in piedi, esaltato dal discorso dell’uomo.
    Il suo sogno si stava sul serio avverando e aveva l’impressione di saltellare su un tappeto di soffici nuvole rosa mentre un coro di angeli intonava l’Inno alla gioia.
    Era conscio di stare facendo la figura dell’adolescente arrapato, però non poteva negare che era quello che aveva sempre desiderato: essere guardato da Raphael, essere toccato da Raphael, essere baciato da Raphael. Stava finalmente per raggiungere i tre obiettivi che si era prefissato e rischiava di sciogliersi per la felicità da un momento all’altro.
    “Ottimo, la prego di apporre la sua firma qui.” scherzò il biondo, fingendo di porgergli un contratto. “In caso di future rimostranze, l’ufficio si dichiara sollevato da ogni responsabilità. Ergo, sono affari tuoi.”
    Alan stette al gioco e finse di firmare, infine gli sorrise e arrossì.
    “Bene, adesso assaggiamo questa torta.” andò ad aprire il frigo e ne estrasse il dolce.
    “Vuoi morire avvelenato? Perché vuoi abbandonarmi proprio ora?!” il ragazzo lo fermò con gesti esagerati e voce melodrammatica.
    Raphael ridacchiò: “Perché?”
    “Le abilità culinarie di mia madre purtroppo non sono eccellenti come le tue. Davvero, non voglio perderti…”
    “Suvvia, un boccone non mi ammazzerà.”
    “Le ultime parole famose…”
    “Mi terrai la mano finché non esalerò l’estremo respiro?”
    “Sì, poi ti seguirò a ruota nell’aldilà.” si asciugò le lacrime inesistenti e singhiozzò.
    “Comunque ho del gelato nel freezer, semmai ci rifacciamo con quello.”
    “Ok.”
    Il padrone di casa addentò il primo pezzo di torta. Un secondo più tardi si paralizzò e strabuzzò gli occhi. Masticò con calma, inghiottì a fatica e il suo incarnato divenne pallido, appena tendente al verdognolo.
    “Guarda…” indicò in seguito puntando un dito oltre la spalla di Alan, “c’è mia nonna. Credevo che fosse morta… mi sta invitando ad andare con lei…”
    “No, Raphael, resta qui!”
    “Nonna… aspettami!”
    Raphael si voltò di scatto e corse verso la pattumiera, sputando le briciole di dolce ancora incollate sulla lingua. “Miseria… che schifo… non riferirlo a tua madre, però.”
    “Tranquillo, ti capisco. E ti avevo avvertito.”
    “Urge una tonnellata di gelato!”
    Così, nei minuti successivi, Alan tentò di tenere in vita il suo amato, scuotendolo come un forsennato e improvvisando un esorcismo - “Oh Demonio camuffato da innocua torta, io ti comando: esci da questo corpo ed entra in me! Vade retro, non lo avrai mai! Se devi morire, moriremo insieme!” - mentre ‘il posseduto’ ingurgitava cucchiaiate di gelato per scacciare i conati di vomito causati da quella cosa immangiabile che aveva cucinato l’amorevole genitrice del rosso, alla quale, seduta sul divano a considerevoli isolati di distanza, fischiarono le orecchie senza apparente motivo.
    “Alan, però in questo modo ti renderai colpevole del mio decesso, torta o non torta…”
    “Scusa,” si affrettò a mollare la presa per assicurarsi delle condizioni del bibliotecario, che sfoggiava adesso un’aria leggermente sbattuta e intontita, “mi sono lasciato trasportare…”
    “Fa nulla, è ok.”
    “Acqua?”
    “Un litro, grazie.”
    Quando Raphael si fu ripreso, si trasferirono sul retro, dove c’era un altro giardino ben curato, costeggiato da una fila di arberelli non troppo alti. Sbucarono sulla veranda, fatta interamente di legno bianco, con un porticato essenziale, una ringhiera alta un metro e tre scalini che scomparivano nell’erba. Sulla sinistra, appeso al soffitto con un gancio robusto e una corda spessa, c’era un dondolo di ferro laccato abbastanza grande per due persone e accanto ad esso, addossate al muro, due sedie in vimini con in mezzo un treppiedi rotondo.
    “Wow… ribadisco, questo posto è stupendo.” asserì convinto Alan, perso nell’ammirare tutto quel tripudio di verde.
    “Beh… sì, è carino.” convenne l’altro. “Modestamente, è opera mia.”
    “Cioè?”
    “La scorsa estate ho fatto piazza pulita della roba vecchia e ho rivoluzionato casa. Avevo bisogno di un cambiamento e riarredare è servito al suo scopo.”
    “Capisco… sai, in realtà credevo di finire in un luogo più… cupo.”
    Raphael lo squadrò in tralice.
    “Mi spiego: data l’idea che mi ero fatto di te, del tuo carattere e delle tue inclinazioni, sai, con la morte di tua moglie e tutto il resto, mi aspettavo qualcosa di più… triste e abbandonato, ecco. Invece, questa casa mi trasmette energie positive, non so dirlo meglio.”
    “Le cose di Alicia le ho riposte in garage. Le conservo lì in attesa di trovare una sistemazione più consona.” illustrò neutro, fissando il vuoto davanti a sé.
    “Scusa, non volevo…”
    “Non preoccuparti, sto bene.” lo rassicurò il biondo con un sorriso mesto. “I mobili che hai visto in salotto li ho comprati a metà prezzo da un amico, erano nel seminterrato del suo negozio a prendere polvere e mi è sembrato un peccato. I quadri li ho acquistati al mercatino delle pulci, me li hanno venduti ad una somma minima, eppure penso che abbiano il loro valore… bah… Ho cambiato il letto della camera. Quello che avevo prima aveva le molle che cigolavano, adesso ne ho uno con la rete e la spalliera imbottita. Il tavolo della cucina l’ho montato io, ho trovato i pezzi scontati all’ingrosso. Il resto, più o meno, è rimasto invariato. Ho levato molte cose, cianfrusaglie di Alicia soprattutto.”
    “E stai bene? Insomma, tutto questo non ti fa sentire solo? O vuoto…”
    “All’inizio è stata dura, ma era piuttosto una questione di abitudine. In un paio di mesi ci ho fatto l’occhio.”
    Si sedettero sul dondolo, l’uno accanto all’altro, e continuarono a parlare a ritmo serrato di tutto e niente, finché il sole non tramontò all’orizzonte e l’aria si fece satura del verso dei grilli notturni.
    “Torniamo dentro, è tardi.” disse Raphael, porgendo con naturalezza la mano ad Alan per aiutarlo ad alzarsi.
    Questi l’afferrò compiaciuto e la strinse nella propria.
    “Ti riaccompagno? Posso caricare la tua bici in macchina.” si offrì garbato il trentaquattrenne.
    “Cos’è ‘sta galanteria? Mi spaventi.” scherzò il giovane tirandogli una lieve gomitata nel fianco. “Comunque non importa, torno con le mie gambe, l’avevo già messo in conto. Vado a vestirmi.”
    “Ok.”
    Alan si chiuse in bagno, si infilò di nuovo negli abiti con i quali era arrivato, si pettinò i capelli disordinati con le dita bagnate e regalò un ampio sorriso al suo riflesso. Gli pareva di levitare da quanto si sentiva leggero.
    Al piano di sotto, Raphael stava tentando di gestire il subbuglio di emozioni che lo avevano travolto, scatenando un vortice di confusione mista ad eccitazione. Chiacchierare con Alan si era rivelato piacevole e naturale, come se non avesse fatto nient’altro nella vita. Si erano trovati praticamente in disaccordo sulla maggior parte degli argomenti, tuttavia i loro occhi non avevano mai smesso di cercarsi e i sorrisi complici si erano sprecati. Mentre le proprie orecchie venivano invase da fiumi di parole, l’uomo aveva realizzato di star cadendo ripetutamente vittima dei colori del giovane: prima lo sguardo veniva attirato dal rosso dei capelli, poi dal verde giada delle iridi che faceva pendant con i pantaloncini - per tale ragione glieli aveva prestati - infine dal chiarore della sua pelle, di un bianco latte tendente al rosato sulle ginocchia, sulle nocche e sulle orecchie. Lo aveva fissato stregato, in trance, incapace di darsi un contegno, specialmente nei momenti in cui lo stordiva con un’occhiata esplicitamente adorante.
    Sospirò e si passò una mano tra i ciuffi biondi. Non voleva che quella serata terminasse così presto, si stava divertendo. Osservò con una smorfia di disappunto le scale che conducevano di sopra e si consolò pensando ad altre serate del genere in un prossimo, molto prossimo, futuro.
    Alan scese gli scalini saltellando e si lanciò a volo d’angelo su Raphael, che, per non ruzzolare con il sedere all’aria, piroettò su se stesso mentre l’altro gli si abbarbicava addosso.
    “Seriamente, tu sei un pericolo per l’umanità.” sentenziò basito.
    Il ragazzo ridacchiò e sciolse la presa.
    “Allora, io vado. Grazie, sono stato magnificamente.”
    “Sono stato bene anch’io, dovremmo rifarlo.”
    “Che bello!” cinguettò giulivo.
    “Vuoi una caramellina?”
    “Che gusto hai? A me piac… mi stai prendendo per il culo.” constatò spompato, poi lo fulminò risentito.
    “Scusa, parevi un tenero infante e ho perso il controllo.” sghignazzò.
    Si appropinquarono verso la porta, quando Alan arrestò il loro avanzare parandosi davanti all’uscio in posa combattiva.
    “Che c’è?”
    Il ragazzo lo guardò come se fosse matto. “Come che c’è? La scena del bacio, razza di stolto! In ogni film, libro o fottuta storia d’amore c’è la scena del bacio a questo punto!”
    “Innanzitutto, a me ‘stolto’ non l’ha mai detto nessuno…”
    “C’è sempre una prima volta. E ora adoperati! E fa’ che sia un bacio da premio Oscar.”
    Raphael finse di rifletterci. Assunse un’espressione concentrata e si grattò il mento.
    “Prego, fa’ con comodo…” grugnì Alan, incrociando le braccia sul torace.
    Il maggiore gli fece cenno di tacere e attendere, poi estrasse dal cassetto del mobilino d’ingresso il telecomando dell’impianto di irrigazione.
    “Che intenzioni hai?” domandò sospettoso il rosso, arretrando impercettibilmente.
    Raphael gli intimò di fare silenzio, aprì la porta, azionò l’impianto e accese le luci incastonate nel terreno, in mezzo ai fili d’erba. Dopodiché mise da parte il telecomando, afferrò saldamente i fianchi di Alan e, piegandosi su di lui, gli tirò su una gamba facendolo sbilanciare all’indietro.
    “Casqué!” esclamò e un attimo più tardi si tuffò sulle sue labbra dischiuse per la sorpresa, mentre intorno a loro cinque fontanelle spruzzavano acqua e creavano arcobaleni immersi nella luce soffusa dei faretti posti lungo il vialetto.
    “Mmm! Hmmmimbecille!” borbottò il piccolo, “Adesso sono di nuovo bagnato!”
    “E’ una bella cosa, fidati.” sorrise sornione in risposta e si riavventò sulla sua bocca imponendole la propria supremazia.
    E Alan si squagliò, si arrese con un mugugno poco convinto al gentile impeto di Raphael e si trasformò in burro fra le sue braccia, dandogli atto che sapeva baciare da dio.

     
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