All I can do is try

capitolo 1

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  1. Lady1990
     
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    “Secondo te…”
    “Sì?”
    “Cioè, voglio dire…”
    “Esprimiti in tutta libertà.”
    “Non credi che… insomma… è un po’ strano, non trovi?”
    “Io piuttosto userei il termine ‘partito’.”
    “Mmm… e, sempre secondo te, c’entra qualcosa con…?”
    “Sicuramente.”
    “Ma, secondo t-”
    “E piantala, Colin!” sbottò Kendra in tono scocciato, lanciando un’ultima occhiata acida ad un Alan giulivo e pimpante che si appropinquava verso di loro attraverso il cortile affollato dell’Accademia. “Però, giuro su Dio, se non smette di sorridere in quel modo imbecille, gli rivolto la faccia con un calcio rotante in stile Chuck Norris.” sibilò, riducendo gli occhi a fessure minacciose.
    “Ken, forse ho le allucinazioni, ma… sono rose, quelle che stanno sbocciando intorno a lui?”
    La ragazza si girò a fissarlo con un’espressione corrucciata. “Colin, avevi promesso che non ti saresti fatto più di quelle sostanze.” lo rimproverò.
    “Non ho fumato! Sul serio, io…” sospirò arrendevole, perché una volta che Kendra si metteva in testa un’idea, era pressoché impossibile fargliela cambiare. “Comunque, Alan è entrato in una dimensione a noi preclusa. Dovremmo dirgli addio.”
    “E’ evidente.”
    “Lo lasciamo cuocere nel suo brodo?”
    “Sarebbe fantastico, ma credo che ci darebbe lo stesso il tormento per condividere la sua gioia con noi comuni e insoddisfatti mortali.”
    “Già, conoscendo il tipo…”
    “Heilà, ragazzi! Buondì! Che splendida giornata, eh?” trillò Alan parandosi davanti agli altri due, mentre rifulgeva di luce come l’astro del mattino.
    Come a voler smentire apposta le sue parole, un tuono rimbombò in lontananza e il cielo si rannuvolò.
    “A-ha, splendida, certo.” borbottò l’amica e schioccò la lingua. “Andiamo? Voi che lezione avete?”
    “Disegno dal vero per quattro ore.” rispose il biondino in tono lamentoso.
    “Eh, guarda come si atteggia! Non mentire, ti piace un sacco quel corso.” lo riprese bonariamente Alan, assestandogli una pacca scherzosa sulla nuca.
    “Ahi!”
    “Bene, io invece ho Storia dell’Arte. Ci troviamo in caffetteria per pranzo?”
    “Ok.”
    “Ricevuto, boss!”
    “Alan, polverizzati.” lo fulminò Kendra, per poi dileguarsi mischiandosi tra gli altri studenti.
    Il rosso rimase ghiacciato e per qualche secondo la sua felicità si spense. “Ma che ha? Le hai fatto di nuovo qualcosa?” indagò con rimprovero.
    “Io? Nulla. Stavolta forse è colpa tua.” Colin si grattò il collo e fece spallucce.
    “Ah, le donne… prova a capirle.”
    “Forza, entriamo, altrimenti ci rubano i posti migliori.”
    Quella nuvolosa mattina di maggio non presagiva alcuna novità, tutto era nella norma ed ogni cosa si sarebbe svolta come sempre. O almeno, questo sperava Colin, già depresso di suo a causa di molteplici fattori, primo fra tutti Kendra. La compagna pareva provasse gusto a tenerlo sulle spine, a tirare la corda finché non fosse stata tesa allo stremo, e il giovane stava ponderando di mandarla a quel paese e iniziare a concentrarsi su altro. Poi, però, ecco che tornavano a galla i sentimenti, inspiegabili moti dell’animo che non possedevano alcuna logica, così ricominciava a tormentarsi e a domandarsi quando si sarebbe concluso quel calvario a cui aveva scelto spontaneamente di sottoporsi. In aggiunta c’era Alan e le sue dannate rose, simbolo di un amore finalmente fiorito dopo tre anni di attesa. Beh, le rose magari erano solo nella sua testa, ma cavolo! L’amico era circondato da una specie di alone abbagliante e rosato, tanto che non si sarebbe sorpreso di vederlo saltellare su nuvole di zucchero filato.
    “Colin.”
    “Mh?”
    “Non hai nulla da chiedermi? Cioè, non vuoi chiedermi nulla? Vuoi chiedere qualcosa? Se hai qualcosa da chiedere, chiedi pure.”
    Il biondo si voltò lentamente e lo guardò dapprima confuso, poi con sommo sconcerto e infine l’aura funerea che si portava dentro straripò da ogni poro. L’altro era così preso dall’entusiasmo che non si accorse del cambiamento repentino di atmosfera, quindi continuò a guardare impaziente Colin, mentre un sorrisone andava a distendergli le labbra.
    “Vuoi che ti chieda dell’appuntamento con Raphael?”
    “Me lo stai chiedendo?” arrossì, sghignazzò e si posò le mani sulle guance in una posa pudica. “Lo vuoi sapere? Lo vuoi davvero sapere? Non lo sai e sei così curioso che non vedi l’ora di saperlo? Te lo dirò.”
    Colin roteò gli occhi al cielo e pregò di mantenere la giusta dose di autocontrollo per non sbroccare di netto. “Dimmelo, allora.”
    “Vuoi che te lo dica? Ah, non so se lo farò… Potrei dirtelo, voglio dirtelo, ma lo vuoi sapere? Eh? Oh, cosa faccio? Cosa devo fare? Lo dico, lo dico! No… te lo dico solo se vuoi veramente saperlo.”
    “Alan! Polverizzati!” sbraitò afferrandolo per il bavero della maglietta. Lo scrutò truce, sembrava sull’orlo di una crisi di nervi, ma ancora il rosso restava rinchiuso al sicuro nel suo bozzolo di cuoricini.
    “Ci siamo baciati. Tutto sta procedendo a gonfie vele…” sospirò estatico in risposta.
    “Tutto sto casino per un bacetto? E quando scoperete, cosa accadrà?”
    “Nooo, non farmici pensareeeee! Oddio, l’emozione mi ucciderà!” esclamò col viso in fiamme.
    “Speriamo.” bofonchiò Colin fra sé e sé.
    “Come?”
    “Nulla. Ora tappati quella bocca e andiamo, cazzo!”
    “Non è stato un semplice bacetto! È stato… intenso, fantastico. E sapessi come sa usare bene la lingua! Nessuno mi aveva mai baciato così, è stato…”
    Il ragazzo proseguì a cianciare per i fatti suoi, convinto di essere ascoltato e al settimo cielo, quando in realtà l’amico si era dissociato da qualche minuto dalla conversazione, rimuginando sui suoi problemi.
    Giunsero all’aula giusto in tempo e si accaparrarono due posti accanto alla finestra, i migliori per via della luce. Deposero i blocchi da disegno sul cavalletto ed estrassero dalle borse gli astucci con lapis, carboncini e gomme pane. Dopo una manciata di secondi fece il suo ingresso il professore, un tipo che senza dubbio da giovane era appartenuto alla categoria dei figli dei fiori, data la barba incolta che quasi gli arrivava al torace, i capelli lunghi e un laccetto di cuoio legato sulla fronte. Solo l’abbigliamento era ordinario, niente di appariscente, tuttavia ai piedi indossava un paio di infradito a fantasia floreale.
    “Miei amati pargoli, vi informo che Rick, il modello che avete ritratto finora, purtroppo è a letto con l’influenza e non domandatemi come diavolo ha fatto a beccarsela proprio in questa stagione. Mistero. Comunque, affinché non rimaniate a rigirarvi i pollici, Rick mi ha dato il numero di un suo amico, che si presterebbe a fargli da sostituto sino alla fine dell’anno accademico. Salutate Dylan e accoglietelo calorosamente!”
    Un giovane all’incirca dell’età dell’intera classe entrò dalla porta con un sorriso nervoso, ma subito le ragazze si sciolsero in un sospiro incantato e risolini civettuoli. Aveva i capelli castano chiaro molto corti, quasi rasati sulla nuca e leggermente più lunghi sul davanti, gli occhi nocciola dal taglio all’ingiù e un piercing sul sopracciglio destro.
    “Salve a tutti, spero che lavoreremo bene insieme. E perdonate Rick, non è colpa sua.”
    Il professore gli diede una pacca amichevole sulla spalla e lo invitò a spogliarsi e a posizionarsi in mezzo al cerchio di cavalletti. Quando si sfilò la maglietta, vari fischi di approvazione inondarono la stanza, immediatamente troncati dal docente, il quale intimò di astenersi da commenti stupidi. Il modello ridacchiò, ammiccò alle studentesse e si tolse anche l’intimo, mostrandosi nudo come mamma lo aveva fatto.
    Colin emise un verso di approvazione. “Hey, niente male… eh, Al-” nel momento in cui incrociò lo sguardo del rosso, si bloccò preoccupato. “Alan? Tutto ok? Sei pallido… che c’è?” sussurrò per non farsi udire dai vicini.
    Alan si era nascosto dietro il cavalletto, rannicchiato e con gli occhi sgranati. Pareva avesse visto un fantasma. Però, se si fosse davvero trattato di un fantasma, forse sarebbe stato meglio.
    Quello era Dylan, il bullo che lo aveva preso di mira al liceo insieme alla sua cricca di scimmie ritardate. Ricordava bene, quasi come se fosse successo ieri, l’ultimo pestaggio, quello che lo aveva spedito in ospedale. Sebbene, a conti fatti, quell’episodio avesse innescato la sua relazione con Raphael, non riusciva a dimenticare il dolore fisico, la paura di non riuscire a chiamare aiuto, la sofferenza nell’incamerare ossigeno, il terrore di morire. Erano sensazioni che aveva tentato di rimuovere, di relegare nella parte più recondita del cervello, ma adesso si erano ripresentate altrettanto forti e violente come in passato. Era avvenuto la scorsa estate, più o meno in quello stesso periodo. E ora l’incarnazione dell’incubo si trovava lì, a poco più di un metro di distanza, ignaro della sua presenza.
    Cosa doveva fare? Fuggire? Se si fosse alzato, Dylan lo avrebbe notato, perciò era preferibile restare accovacciato dietro la barriera costituita dal blocco fino alla fine della lezione, per poi attendere la definitiva uscita di scena dell’altro e sgusciare via indisturbato.
    Si mise le mani tra i capelli e tirò alcune ciocche esasperato.
    Era un piano idiota, perché ad ogni modo Dylan sarebbe stato il modello per minimo un altro mese e il corso cadeva cinque volte a settimana: lunedì tre ore la mattina e due ore il pomeriggio, martedì quattro ore la mattina, mercoledì quattro ore il pomeriggio e giovedì tre ore la mattina, venerdì libero.
    Impossibile scamparla, poco ma sicuro. Il destino lo stava forse esortando a chiudere i conti in sospeso? Ma come?
    “Alan? Terra chiama Alan, rispondete. Passo.”
    “Colin!” squittì, agguantandolo per la camicia e costringendolo ad abbassarsi per potergli bisbigliare nell’orecchio. “E’ lui! Il tizio di cui ti avevo parlato, quello che ha reso la mia vita di liceale un inferno. Dylan!”
    “Che?! Ne sei certo?” il biondo era basito.
    “Ci metterei la mano sul fuoco, non posso sbagliare. Cosa faccio? Se mi vede? Se mi riconosce?”
    “Tranquillo, ti proteggo io. Sono alto e, anche se non vanto la sua tonnellata di muscoli pompati, me la cavo nelle risse. Cavolo, il mondo è veramente piccolo.”
    Si imbronciò. “E io ho fatto judo, genio. Non sono una principessina del piffero né uno smidollato.”
    “Non volevo offenderti, ma sappi che ti guardo le spalle. Stammi sempre appiccicato, ok?”
    “Ok.”
    “Spiegherò la situazione a Kendra, così non si arrabbierà nel vederci incollati.”
    “Grazie.” piagnucolò e il compagno gli accarezzò lievemente la chioma ribelle.
    Mai, neanche nella più remota delle ipotesi, avrebbe immaginato di incontrare Dylan all’Accademia. D’accordo, non era uno studente, ma con tutti i posti proprio lì doveva venire! Questa seccatura non ci voleva. Nutriva un brutto presentimento, del genere che ti provoca la pelle d’oca.
    “Bene, pargoli!” il professore si sedette sulla cattedra al di fuori del cerchio di allievi e sorrise incoraggiante a tutti. “Mano alle matite e cominciate! Voglio le prime bozze entro un’ora.”
    Durante la lezione, Alan consegnò quattro bozze, e nemmeno troppo soddisfacenti, a differenza degli altri colleghi, che ne produssero sulla ventina. Difatti, l’insegnate se ne avvide e lo chiamò in disparte tenendo stretti fra le dita i fogli del giovane.
    “Becker, mi spieghi cosa ti prende? Non è da te schiaffarmi in faccia solo quattro bozze.” i suoi occhi marroni furono attraversati da un guizzo e sorrise divertito. “All’inizio dell’anno mi consegnavi quasi l’intero blocco pieno di schizzi, tanto che dovevi spesso farti prestare dagli altri alcuni fogli per ritrarre l’opera finale nella sua completezza. Ma questi”, gli sventolò davanti i bozzetti, “non sono al tuo livello, sembrano fatti da un bambino di due anni. Mancano i tuoi tratti, manca la tua firma d’autore. Ormai ho imparato a riconoscere il tuo stile, il tuo marchio di fabbrica, grazie alle ombreggiature, sempre molto dettagliate anche nelle prime copie, ma qui…” inforcò gli occhiali sul naso e osservò il lavoro di Alan accigliato, “si nota benissimo che hai tirato via e che non hai studiato con la necessaria attenzione il soggetto. Come se… tu non lo avessi nemmeno guardato.”
    “Pr-professore… mi dispiace.” si scusò il rosso, la testa bassa.
    “Che c’è? Cos’è quella distrazione così grande che è capace di influenzare pure la tua passione?”
    “Niente, non si preoccupi. Le prometto che mi concentrerò, almeno quel tanto da arrivare alla decenza.”
    “Non voglio la decenza, non da te, Becker.” lo rimbeccò il professore con voce severa. “Io da te pretendo il massimo. Conosco i tuoi limiti, ma conosco assai meglio le vette che sei in grado di raggiungere, e ti assicuro che sono molto alte. Impegnati, per favore, o sarò costretto ad abbassarti il voto se mi porti questi risultati.”
    “Sì, ho capito.”
    “Torna al tuo posto e continua, libera la mente da tutto il resto. Ci siete soltanto tu, il foglio e lo spirito dell’arte. Nessun altro.”
    Più facile a dirsi che a farsi.
    Lanciò un’occhiata fugace a Dylan e gelò in un nanosecondo non appena egli lo ricambiò. Lo aveva riconosciuto, senz’altro.
    Era spacciato.
    Come un condannato che si avvia verso il patibolo, Alan fece ritorno al suo cavalletto, afferrò la matita e si costrinse ad assumere un atteggiamento professionale. Col trascorrere delle ore dimenticò di trovarsi in classe e a chi appartenesse quel corpo dai muscoli scolpiti e definiti, arrivando a considerarlo un manichino privo di vita. Solamente quando il professore dichiarò conclusa la lezione si risvegliò dal profondo stato di concentrazione in cui era piombato e, di nuovo conscio della realtà intorno a sé, si affrettò a raccattare le sue cose e a mettersi in fila con gli altri compagni per consegnare i lavori. Colin prese posizione subito dietro di lui, come un’ombra che gli trasmetteva sicurezza e protezione, ma soprattutto lo celò alla vista di Dylan, che si stava rivestendo in tutta calma.
    Scivolò fuori dall’aula veloce e agile come un’anguilla, seguito a ruota dall’amico, corse in bagno e si fiondò ai lavandini per darsi una sciacquata alla faccia.
    “Stai bene?”
    “Sì… potrebbe andare peggio.”
    “Per esempio?”
    “Potrebbe decidere di seguirmi.”
    “Sarebbe sfiga. Ah, mentre eri immerso nel tuo mondo, non faceva altro che scoccarti occhiate indecifrabili. Non so cosa abbia in mente, ma fai attenzione.” Colin imitò il rosso e si lavò le mani sporche di carboncino.
    “Lo so da me.”
    Un minuto più tardi, Dylan aprì la porta del bagno, ma appena posò lo sguardo su Alan si bloccò sulla soglia.
    “Alan?” chiese incerto.
    “Dylan. Quanto tempo.”
    Se si evoca la sfiga, eccola che giunge puntuale! Cazzo.
    Colin si irrigidì e scattò sulla difensiva, frapponendosi con movimenti apparentemente naturali tra i due. Dylan non sospettava nulla, ovverosia non immaginava che egli fosse a conoscenza dei suoi trascorsi, perciò si stupì un po’ nel trovarsi di fronte quella pertica bionda.
    “Scusa, vorrei parlare con lui. Ci lasci un attimo?”
    “Perché dovrei? Questo è un luogo pubblico.”
    “Allora ce ne andremo noi. Alan, vieni.” disse categorico, non aspettandosi un rifiuto.
    “E se io non volessi? Scusami, ma sono impegnato, non ho tempo per chiacchierare.”
    “Ti devo solo dire delle cose.”
    “Io non voglio ascoltarle.”
    “Hai sentito? Smamma.” ordinò Colin, sfidandolo ad opporsi.
    Dylan sospirò e si massaggiò l’attaccatura del setto nasale con le dita. “Senti, non voglio farti niente, davvero.”
    “Quindi non ti scoccia se il mio amico viene con noi.”
    “Preferirei non subire interferenze, ma suppongo che sia pretendere troppo.” si arrese con una scrollata di spalle.
    “Bene, mi unirò a voi.” accettò il biondo e appoggiò le terga al bordo del lavandino, le braccia conserte e l’espressione irritata.
    “Tch, è il tuo cane da guardia?” ghignò il modello all’indirizzo di Alan.
    “E se fosse?”
    “E’ il tuo ragazzo?”
    “No.”
    “Allora è vero amore!”
    “Piantala e sputa il rospo.” grugnì il giovane con i nervi tesi.
    “Beh, sai, volevo scusarmi con te, per come mi sono comportato al liceo.”
    Il rosso strabuzzò gli occhi e per poco la mandibola non gli precipitò sul pavimento.
    “Sì, dai…” proseguì Dylan con un velo di imbarazzo, “ti ho perseguitato senza motivo per anni e ti ho fatto pure male. Ecco… stavo passando un periodo di merda: i miei stavano divorziando e mio fratello maggiore, a casa, se la rifaceva su di me per qualsiasi cavolata. È sempre stato violento, ma l’anno scorso perdeva proprio il controllo ad ogni piè sospinto. Così anch’io cominciai ad avvertire il bisogno di una valvola di sfogo e tu eri la preda perfetta.”
    “Perché io?”
    “Non lo so… forse perché mi sei sempre piaciuto. Non me la prendevo solo con te, sia chiaro, pestavo anche i miei.”
    “Con ‘i miei’ intendi la tua banda?”
    “Sì.”
    “Se credi che ti giustificherò, ti sbagli di grosso. L’ultima volta mi hai spedito all’ospedale con un braccio rotto e varie lesioni ovunque.”
    “Mi dispiace, sul serio.” pareva veramente mortificato, non sembrava stesse fingendo.
    Però Alan non si intenerì affatto, memore dell’inferno che aveva passato a causa sua, e continuò imperterrito ad alimentare il proprio risentimento e la propria rabbia a scapito delle scuse del castano.
    “Dopo che ho preso il diploma, mi sono trasferito da un amico più grande che viveva da solo e ho iniziato a lavorare per guadagnarmi da vivere. Mio fratello, invece, è finito in prigione per furto con scasso e i miei genitori non si sono più fatti sentire. Ho cambiato vita, sono cambiato e ho realizzato i miei errori. Per questo mi scuso, anche se comprendo benissimo che è inutile piangere sul latte versato. Il fatto è che… almeno desideravo la possibilità di scusarmi, ecco tutto. Quando ti ho notato a lezione, beh… la sorpresa mi ha ghiacciato, ma ho pensato che era destino.”
    Alan rifletté, poi rispose con totale sincerità: “Non mi reputo una persona insensibile e mi dispiace per la tua famiglia, immagino sia stato difficile. Eppure non riesco a perdonarti completamente.”
    “Capisco, è giusto.” annuì Dylan in un mormorio sommesso. “Tornassi indietro, non lo rifarei.”
    “Fa parte del passato, ormai. A questo punto, voglio solo rimuovere tutto.”
    “D’accordo. Ti andrebbe un frappé? Offro io, ho sentito che il chiosco di fronte all’Accademia li fa buoni. Ovviamente può venire anche lui, se non ti fidi.” accennò stancamente a Colin, che se n’era stato zitto e all’erta per tutto il tempo.
    “Non lo so…”
    “Se non oggi, magari un altro giorno.” insistette.
    Ma che diavolo ha? Perché fa tanto l’amicone? Mi fa incazzare!
    “Non lo so, Dylan.”
    E ora cos’è quell’espressione da cucciolo bastonato?! Ho una voglia colpirlo a sprangate sulle gengive che… argh!
    “Ok. Tanto continuerò a lavorare qui fino a giugno, perciò… quando vuoi.”
    “Mh, ci penserò.”
    “Va bene, allora… oggi è giovedì, ci vediamo lunedì a lezione!” lo salutò con un sorriso e si volatilizzò oltre la porta del bagno.
    Il silenzio calò pesante tra i due amici, finché Colin sbottò: “Ci penserai? Cosa… che cazzo dici?!”
    “Che palle, ho detto la prima cosa che mi è saltata in testa!”
    “E’ evidente che ci sta provando, Alan!”
    “Stronzate. È Dylan, hai presente? Non è gay.”
    “Gli piaci, lo ha detto anche lui.”
    “Ah, sì? Non l’ho registrato.”
    “L’ho sentito io e ti garantisco che lo ha detto chiaro e tondo.”
    “Non significa che accetterò il suo invito, Colin.”
    “Lo spero! Non andarti a ficcare in ulteriori grane. Hai Raphael, ricordi? Non compiere scelte di cui ti potresti pentire.”
    “Ah, chiudi il becco! Mi fai girare le scatole quando fai così! Non sono un bambino.”
    “Alan…” lo implorò, cercando di abbracciarlo, ma l’altro lo scansò bruscamente.
    “Vai a sbavare dietro a Kendra, io penso a me stesso. Cazzo, come rovinare una splendida giornata…” sbuffò stizzito e uscì, lasciando il biondo spiazzato e ferito.
    Colin non provò nemmeno a tenere a freno la collera. Sferrò un pugno contro il muro e lanciò un’imprecazione a denti stretti. Talvolta Alan sapeva dimostrarsi così infantile da scaraventarlo fuori dalla grazia in un battito di ciglia.
    “Hey!”
    Kendra si affacciò nel bagno con aria stranita.
    “Ho incrociato Alan in corridoio, ma mi ha liquidata in meno di un secondo. Avete litigato?”
    “Fatti gli affari tuoi, Ken.” rispose esacerbato.
    “Oh, che gentile! E io che mi preoccupo! Sai che ti dico? Fottiti. Anzi, fottetevi tutti e due.” dichiarò inviperita e sbatté con forza la porta.
    “Cazzo!” sibilò. “Ken! Aspetta, Ken!” le corse appresso, ma quella sparì in mezzo alla folla di studenti che popolavano il corridoio.
    Imprecò di nuovo e fece mente locale sui luoghi in cui avrebbe potuto recarsi la ragazza, dopodiché si decise e a passo di marcia si diresse verso la caffetteria, dicendosi che fare un tentativo non avrebbe nuociuto. La scovò seduta ad un tavolo rotondo in disparte, un vassoio pieno di cibarie davanti e il libro d’arte sulle ginocchia.
    “Ken.” si accomodò di fronte a lei, che lo ignorò spudoratamente. “Ken, perdonami. Non è colpa tua, non ce l’ho con te. Scusa, non dovevo aggredirti.”
    “Mi spieghi che problema hai, Colin?” chiuse il libro e lo scrutò intensamente.
    “Niente, non ho niente. Alan fa l’idiota e perdo le staffe, tutto qua.”
    Kendra si abbandonò ad un sospiro esasperato e cominciò a giocare con le treccine dei capelli. “E’ che non capisco se mi prendi per il culo o fai sul serio.”
    “Cioè?” la guardò interrogativo.
    “Beh… tu ed Alan eravate amanti e vederti insieme a lui… non so… mi dà fastidio. Soprattutto perché ti sei dichiarato a me. Poi lo sai che reagisco sempre in maniera esagerata.”
    “Sei… gelosa?” era sbigottito oltre ogni dire.
    “No!” negò, forse con troppa enfasi. “Sono solo… infastidita. Tu mi hai confessato il tuo amore, giusto? Quindi… perché continui a ronzargli intorno?”
    “Non è come pensi. La storia tra me e lui è terminata da un pezzo, te lo giuro. Lui ora esce ufficialmente con Raphael, non hai motivo di preoccuparti. A me piaci un sacco tu e sto pazientemente aspettando una tua risposta. Non angustiarti per flirt inesistenti.” illustrò pacato, un dolce sorriso appena accennato.
    “Perciò… perché avete litigato?” borbottò arrossendo.
    “Eh, lunga storia. Fatti personali di Alan, non voglio immischiarmi. Quello scemo mi stressa e basta.”
    “Non è scemo.” ribatté perplessa.
    “Oh, sì che lo è. Prego che non combini guai, altrimenti… ah, che stanchezza!” si accasciò sulla sedia e serrò le palpebre, improvvisamente a corto di energie.
    “Se avrà bisogno di aiuto, chiederà.”
    “Mh. A proposito, non eri a dieta?”
    “E’ colpa tua! Mi fai imbestialire e venire il nervoso, e per sfogare la rabbia devo mangiare.”
    “Sei ancora arrabbiata?”
    “No.” si imbronciò.
    “Allora passami le patatine e il pollo fritto, e va’ a prenderti un’insalata.”

    La sera della discussione con Dylan, Alan telefonò a Raphael. Ora più che mai percepiva montare in sé il desiderio di udire la sua voce, lasciarsi cullare dal suo timbro virile come la migliore delle ninnananne. Parlarono del più e del meno fino a notte inoltrata, senza scendere troppo nei dettagli, ma il giovane, per non guastare l’atmosfera serena e rilassata, non volle raccontargli dell’incontro che aveva lo aveva sconvolto, preferiva disporre di ancora un po’ di tempo per assimilare. Era scombussolato, Dylan era piombato di nuovo nella sua vita come un fulmine a ciel sereno e davvero non aveva idea di come gestire la situazione. Tuttavia, aveva l’impressione che se non avesse accettato il suo invito, quello avrebbe seguitato a tartassarlo e a infondergli ansia. Ma se fosse uscito con lui, seppur per prendere un innocuo frappé, sarebbe stato per voltare pagina definitivamente. Non voleva rimanere ancorato al passato a lungo e una volta risolta la questione in sospeso, sarebbe stato libero di vivere serenamente la storia con Raphael.
    Però era corretto fare tutto di nascosto? Non doveva informare Raphael?
    E che c’era da nascondere, in fin dei conti? Non è che avesse intenzione di tradirlo, giammai! Con tutta la fatica che aveva fatto, non aveva senso buttare tutto a rotoli per una simile inezia. Ad ogni modo, doveva andarci cauto e non commettere passi falsi.
    Lunedì mattina si recò a lezione e tutto si svolse tranquillamente, perlomeno fino a che Dylan non se ne uscì un’altra volta con la proposta del frappé. A quel punto, Alan ritenne opportuno non tergiversare ulteriormente, meglio levarsi il dente il prima possibile. Di conseguenza accettò e l’altro lo premiò con un sorriso felice e grato, cosa che destabilizzò per un momento il rosso.
    Che aveva da sorridere? Non aveva capito che gli era ostile?
    “Fermo, offro io. È il minimo.” lo bloccò, mentre Alan stava estraendo il portafoglio dalla borsa.
    Non disse nulla, lo lasciò fare, e sempre senza proferire parola si sedette sul muretto del cortile dell’Accademia ad attendere il suo ritorno con gli acquisti. Dylan tornò con due enormi bicchieri di plastica ricolmi di frappé al cioccolato e prese posto accanto a lui con disinvoltura, quasi come se non avesse fatto altro negli anni precedenti. Indubbiamente, quel comportamento suscitò una sensazione di spaesamento in Alan, il quale non seppe come reagire. Non che la vicinanza del coetaneo lo irritasse, piuttosto gli era del tutto indifferente. Si scoprì a non essere affatto agitato, ma neanche a suo agio, in bilico tra l’impulso di andarsene e quello di restare a godersi il frappé e il venticello estivo all’aperto.
    “Allora, come va?” esordì il castano.
    “Eh?”
    “Come procedono le cose? Non pensavo che saresti finito qui.”
    “Mi è sempre piaciuto disegnare. Terminati gli studi, voglio diventare un artista.”
    “Bello. Io, invece, credo proprio che non riuscirò a trovare un lavoro migliore di commesso di fast food.”
    “Non lo sai, se non ci provi.”
    “Oh, fidati, lo so. Non ho le capacità per fare un tubo. Ma non mi lamento, la paga è buona.”
    “Mh…”
    Seguirono attimi di silenzio imbarazzante.
    “E’ strano, eh?”
    “Come?”
    “Sì, insomma… noi due, a chiacchierare come amici di vecchia data…”
    “Non siamo amici.” ci tenne a puntualizzare Alan.
    “Lo so, era tanto per dire…”
    Che c’è? Si è offeso? Dylan “Io ti faccio a fette, brutto frocio” si è offeso?! L’Apocalisse è imminente.
    Il ragazzo contemplò esterrefatto la sua espressione vagamente imbronciata e si sconcertò. Era disgustosamente palese che Dylan non fosse più il solito teppistello del liceo, ma non poteva esimersi dal sorprendersi della radicalità con cui il suo carattere era mutato. Non c’era niente del precedente Dylan nel giovane che gli sedeva a fianco, solo l’aspetto.
    “Scusa, per il liceo.”
    “Lo hai già detto.”
    “Volevo ripeterlo.”
    “Ah.”
    “Mi odi?”
    “Sì, ma non così tanto come pensavo.” optò per l’onestà, nonostante la voglia di fargliela pagare per tutti i soprusi. “Ciò non toglie che ti detesto.” sentenziò lapidario.
    “Mi dispiace.”
    “Sei pedante.”
    “Scusa.”
    “Piantala di scusarti o me ne vado.” asserì seccato.
    “Ok.”
    Tracannarono i rispettivi frappé e li gettarono nel cesto dell’immondizia poco distante.
    “Che cosa vuoi, Dylan? Avresti potuto ignorarmi, far finta di non avermi riconosciuto o visto. Perché vuoi riallacciare i rapporti con me? Benché, se non erro, essi non siano mai stati pacifici.”
    “Perché mi piaci.”
    Bomba sganciata. Alan impallidì, boccheggiò colto alla sprovvista e si voltò a squadrarlo come se fosse un alieno.
    Dylan corse subito ai ripari, schermendosi: “Con questo non intendo che spero di conquistarti, so di non avere possibilità. Però mi premeva farti comprendere che sono in buona fede, non voglio farti del male. Se non mi vorrai più parlare, se non vorrai più avere a che fare con me, una volta finiti i corsi è sicuro che sparirò dalla tua vista.”
    “D-dopo tutto quello che mi hai fatto… vieni a dirmi che ti piaccio?!”
    “E’ assurdo, ok, ma all’epoca ero un bimbetto imbecille e stupido! Avevo paura dell’opinione degli altri, delle conseguenze, e di aver realizzato di essere attratto da un maschio per la prima volta. Non sapevo… come…”
    “Ma… hai una mente contorta!”
    Il castano incassò il colpo e distolse lo sguardo. “Se… se al liceo mi fossi dichiarato, avresti accettato di diventare il mio ragazzo?”
    “No.”
    “Ugh! Non serve essere così diretti…”
    “Almeno non ti illudo.”
    “Giusto.”
    Lo sconforto sul suo viso era evidente, tuttavia Alan fu irremovibile e non perché usciva con Raphael. Anche se fosse stato single, non avrebbe mai scelto Dylan.
    “Allora… posso avere un bacio?”
    Il rosso si strozzò con la propria saliva e si piegò in due tossendo. “Che… cos…? Che?!” sbraitò paonazzo.
    “Un regalo d’addio…” speigò l’altro arrossendo.
    “E credi di meritartelo?”
    “N-no… ma non ti lascerò in pace finché non lo avrò!” esclamò determinato.
    Eccolo, il Dylan arrogante e presuntuoso. Peggio di un bambino che vuole le caramelle.
    “Non ho scelta?”
    “No.”
    “Ok. Uno solo, piccolo e poi evapora per sempre.”
    Dannazione, cosa sto facendo? Sono impazzito?! Cazzo! Cazzo! Cazzo! Ok, ma se nessuno lo scopre va bene. Cioè, sarà il nostro segreto. No, posso rifiutare e, se insiste e mi tampina fino a casa, posso denunciarlo per stalking. Alan, non fare l’idiota, non fare l’idiota! C’è Raphael di mezzo, il sogno di una vita, non puoi perderlo per una cazzata del genere! Però, se lo accontento, me lo tolgo di torno e festa finita… che faccio? Che faccio?
    “Non qui davanti a tutti, andiamo lì.” disse il castano, indicandogli un angolo in ombra circondato da alberi e cespugli, a ridosso del cancello che delimitava la struttura. “Sarà veloce.”
    “Potremmo evitare di sembrare sospetti, per favore?” replicò Alan, osservando il via vai di studenti come un animale in gabbia che sta per essere spedito al macello.
    “Perché?”
    “Oh, certo, facciamo vedere a tutti che ci stiamo appartando!”
    “Alan, calmati, è solo un bacio, soltanto uno.”
    “Ahh! Diavolo! Sbrighiamoci, forza.”
    Si nascosero in mezzo alle frasche e Alan venne imprigionato con la schiena sui paletti di ferro battuto. Praticamente, chiunque passeggiasse sul marciapiede poteva assistere alla scena, eppure nessuno parve fare caso all’improbabile coppietta. Dylan strinse le mani sulle braccia del rosso e affondò il naso nel suo collo per inspirare l’odore della sua pelle.
    “Dylan! Non ho detto che potevi amoreggiare!”
    Il giovane modello, quindi, gli prese delicatamente il mento fra le dita e lo sollevò quel poco che bastava per far scontrare le loro labbra. L’attimo successivo, Alan era già pronto a scostarsi, tuttavia Dylan rafforzò la stretta e penetrò le difese del più basso con la lingua, andando a esplorare la cavità umida, calda e al sapore di cioccolato che per molto tempo lo aveva tormentato nel sonno. Un sospiro appagato gli fece rilassare i muscoli tesi e mugolò di piacere nel bacio, gli occhi chiusi per godersi appieno il momento. Ad un tratto, una fitta di dolore lancinante gli esplose sulla lingua e la ritirò di scatto, mentre il gusto ferroso del sangue gli stuzzicava il palato.
    Alan lo fissava inviperito, nelle iridi verdi stava imperversando la furia di un uragano, ma quello non lo attaccò con una mossa di judo. Al contrario, si limitò a pulirsi la bocca con il dorso della mano e ad imprecare.
    “Bastardo. Hai promesso, finisce qui. Non rivolgermi più la parola, non salutarmi, non toccarmi, non guardarmi. Sparisci e…”
    Dylan guardava confuso, con le sopracciglia corrugate, un punto alle spalle del giovane e questi, altrettanto perplesso, seguì la traiettoria.
    Un improvviso gelo gli serpeggiò nelle ossa e il cuore smise di battere. Trattenne il fiato, devastato dentro e incapace di fare alcunché a parte rimanere immobile come una statua.
    Raphael ricambiò il suo sguardo con un’occhiata fredda, enigmatica, sebbene la postura del corpo fosse rigida e la mascella contratta. Infine, come se non lo conoscesse, proseguì lungo il marciapiede con passo leggero.
    “Cazzo…” rantolò Alan, pallido come un cadavere.
    “Mh? Chi era?” indagò Dylan, senza comprendere la portata del disastro che aveva provocato.
    “Il mio fidanzato.” rispose con voce tombale.
    “Ah. Ops.”
    Alan si girò a fronteggiarlo e l’altro si trovò involontariamente a deglutire. “Sappi che se non riuscirò a chiarire la questione con lui, verrò a cercarti per ucciderti.”
    “Ah ah!” emise una risatina nervosa. “Dai, non fare il drammatico. Se gli spiegherai il malinteso, capirà.”
    “Te lo auguro, Dylan. Te lo auguro di cuore.” affermò cavernoso, per poi uscire con un balzo felino dalla macchia e iniziare a correre a razzo dietro a Raphael.
     
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  2. Lady1990
     
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    Attraversò il cortile come una scheggia, dribblando gli studenti che passeggiavano in totale tranquillità e prodigandosi in frettolose scuse se urtava qualcuno. Il cancello d’ingresso era a pochi metri, doveva sbrigarsi. La fermata della metropolitana si trovava dietro l’angolo, ma agitato com’era e col pensiero di raggiungere Raphael il più velocemente possibile non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello di prendere la bici, così da evitare la folla che si riversava nei mezzi pubblici e sui marciapiedi all’ora di pranzo. Ormai mancava poco, c’era quasi, e se continuava a correre avrebbe fatto in tempo.
    “Alt!”
    Colin si parò di fronte a lui all’improvviso, tanto che Alan ci andò a sbattere contro con straordinario impeto, rischiando di far cadere a terra entrambi. Se non fosse stato per la stazza del biondo, sarebbe finito sicuramente con la faccia sull’asfalto.
    “Dove stai andando, per curiosità? E dov’eri finito?” indagò.
    “Zitto e lasciami passare! È una questione di vita o di morte!” urlò l’amico, tentando di scansarlo.
    “Non ora, il professore vuole parlarti della mostra di fine anno. Siccome tu sei uno dei pochi studenti che avrà il privilegio di esporre le sue opere, devi consultarti con lui circa la disposizione dei lavori nella sala e lo scenario.”
    “Non capisci una mazza!!! Io… devo… devo andare! È una catastrofe, una spaventosa catastrofe!”
    Colin si rannuvolò, lo afferrò per un orecchio, ignorando deliberatamente le sue proteste, e lo trascinò di nuovo all’interno dell’Accademia.
    “Dovresti prendere più seriamente quest’occasione. Non sai quanta invidia provo per la tua fortuna e tu te ne freghi? Mi fai incazzare…”
    “Ahia! Lasciami! Ho capito, ho capito! Adesso lasciami!”
    Il compagno mollò la presa sbuffando. Poi, per caso, con lo sguardo si soffermò su Dylan, che stava uscendo in quel momento dai cespugli al limitare del cortile.
    Che cavolo ci faceva laggiù?
    Questi scrutò con attenzione i volti degli studenti, finché non puntò Alan.
    Subito nel biondo si accese una lampadina e una vena sulla tempia cominciò a pulsare pericolosamente.
    “Alan.”
    “Che c’è?”
    “Che hai combinato?”
    “Eh?”
    Alan seguì confuso la direzione degli occhi di Colin e si trovò a ricambiare quelli di Dylan. Dapprima sbiancò, in seguito arrossì, ma non di imbarazzo.
    “Quel… quel verme! Lo ammazzo, lo giuro! Fosse l’ultima cosa che faccio.”
    “Ripeto: che diavolo hai combinato?”
    Il coetaneo lo squadrò minaccioso dall’alto, un’aura oscura e minacciosa lo avvolgeva come un mantello.
    “N-niente…” il ragazzo si fece piccolo piccolo e cercò di sviare la conversazione. “Ehm… allora, dov’è il prof?”
    “Alan! Rispondimi o ti becchi uno schiaffo così forte che farò girare la tua testolina bacata di trecentosessanta gradi!”
    “Non è stata colpa mia!” si difese scalpitando, ma, chissà per quale misterioso motivo, Colin non gli credette neanche un po’.
    “Davvero?” sorrise sarcastico. “Ok, mi racconti dopo. Ora va’ al colloquio e sii concentrato. Al resto penseremo dopo.”
    “Sì, mamma.” mormorò cupo, i piedi che strisciavano sul pavimento dei corridoi come se fossero fatti di piombo.
    “Muovi il culo, frocio.” con una pacca sulla spalla lo incitò a camminare e lo salutò davanti all’ufficio del docente coordinatore della mostra. “Ci vediamo più tardi, fammi uno squillo sul cellulare quando hai finito.”
    La riunione durò sfortunatamente fino al pomeriggio, poiché poco alla volta si aggiunsero gli altri studenti che avrebbero esposto le proprie opere al festival. Di conseguenza, con solo un professore a dirigere tutti i preparativi, occorse un’eternità prima di liberarsi dall’incomodo. C’era sempre qualcosa che non andava, sempre qualcuno scontento della collocazione dei quadri o delle sculture, sempre il classico rompiscatole che si sente obbligato a dire la sua e a sconvolgere i piani precedentemente stabiliti. Non mancarono i litigi, ci fu chi alzò la voce, ogni artista dilettante voleva che i suoi lavori venissero posti nell’andito principale e non in fondo al percorso, perché chi visita una mostra tende ad osservare con maggior entusiasmo le opere all’inizio e a metà e dopo, dato che è stanco, a oltrepassare in fretta le ultime col desiderio di andare a rimpinzarsi di cibo al rinfresco allestito nella sala attigua. Fu una lotta senza esclusione di colpi, ma alla fine fu l’insegnante a riportare l’ordine, comunicando con cipiglio intimidatorio ai presenti che avrebbe deciso lui la disposizione e non avrebbe accettato obiezioni.
    “Ma non è giusto!” intervenne una ragazza del terzo anno.
    “Silenzio! Se non siete riusciti ad arrivare ad una soluzione da soli, significa che siete ancora troppo immaturi. Il mondo in cui vi tufferete fuori di qua è competitivo, privo di scrupoli, ma finché studierete in questa accademia non siete nessuno. Non vi farebbe male un po’ di umiltà, di tanto in tanto. Quindi, prenderò in mano tutto io e si farà come dico io. Le lamentele sono proibite.” dichiarò secco. “Tuttavia, nessuno vi vieta di farvi pubblicità. Adesso parliamo dei lavori che presenterete alla mostra, uno per volta.”
    Alle sei del pomeriggio, esausto e prosciugato di ogni energia, Alan barcollò verso il cortile, mentre digitava a rallentatore il numero di Colin sul cellulare. Egli rispose dopo un solo squillo e lo aggredì senza lasciargli il tempo di proferire verbo.
    “Dove sei stato?! Hai idea di quante ore sono passate?!”
    “Il prof ci ha tenuti prigionieri fino a poco fa… non so più se sia stato un bene essere nominato per il festival… mi sento spompato e il pensiero che dovrò pedalare fino a casa mi sfianca di già.”
    “Io ti ho aspettato per un paio d’ore, credevo si trattasse di una cosa rapida, ma ora sono a casa. Ascolta, cos’è successo a pranzo?”
    Alan gelò sul posto, impallidì e cominciò a sudare freddo.
    “Alan? Pronto?”
    Accidenti!
    Riattaccò e si fiondò sulla bici, tolse il lucchetto con mani tremanti e sgommò alla velocità della luce verso il quartiere di Raphael.
    Se n’era dimenticato. Come aveva fatto a rimuovere un simile disastro dalla mente? Memoria selettiva?
    Sforò una decina di semafori, rischiò un paio di incidenti frontali e un taxi gli tagliò la strada, ed ebbe pure il coraggio di mandarlo a quel paese, ma il giovane non ci badò, davanti a sé l’obbiettivo sempre più vicino. Il sudore che colava sul collo gli provocava un fastidioso prurito e gli impregnava la maglietta, però non poteva permettersi di fare pause, ogni minuto era prezioso.
    Finalmente si lasciò i grattaceli e il traffico cittadino alle spalle, immergendosi nella tranquilla zona residenziale in cui abitava il biondo, composta da villette a schiera pressoché identiche tutte allineate una accanto all’altra. Stavolta non aveva usato il navigatore, perciò dovette procedere grazie ai ricordi.
    Svolta a sinistra, poi la seconda a destra… o era la terza? La terza, come ignorare la siepe a forma di drago del giardino di quella villa? Poi?
    Cavolo, queste strade sono tutte uguali! Chiedo indicazioni? Perché non c’è un cacchio di nessuno, quando serve?
    Proseguì un po’ alla cieca, un po’ a intuito e dopo un quarto d’ora la vide: casa Hopkins. Ringraziò il cielo e ci si precipitò. Doveva ancora oltrepassare due traverse e avrebbe tagliato il traguardo. Tuttavia, una macchina sbucata dal nulla parcheggiò proprio davanti al vialetto della villa di Raphael ed Alan, mosso da un presagio indefinito, ritenne saggio fermarsi all’ombra, nascosto dal muro di una casa, a spiare. Se qualcuno lo avesse visto, probabilmente lo avrebbe scambiato per il figlio di una delle famiglie del quartiere, non c’era da preoccuparsi.
    Un ragazzo sui venticinque anni scese dall’auto e sbatté con stizza lo sportello. Sembrava turbato da qualcosa. Aveva i capelli castani legati in una coda di cavallo e, quando si voltò, Alan notò che erano davvero lunghi, quasi fino ai fianchi. Indossava un paio di occhiali da sole, una canottiera rossa, così aderente che non c’era spazio per l’immaginazione, e dei jeans abbastanza larghi, sbrindellati e bucherellati in alcuni punti strategici. In sostanza, un figo da paura.
    Il rosso si domandò con ansia crescente chi diamine fosse quel tipo che pareva uscito da una copertina di Playboy e che ci facesse proprio lì. Quello fece scattare le serrature della macchina e si diresse verso la porta di Raphael, però non gli fu necessario suonare il campanello perché quest’ultimo la spalancò quando era solo a metà del vialetto. Alan si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore e maledisse la sua posizione, troppo lontana per studiare l’espressione del bibliotecario o udire le sue parole.
    Tuttavia, giusto un secondo più tardi, si pietrificò: lo sconosciuto aveva appena sfiorato con le labbra quelle di Raphael, in un bacio appena abbozzato, scatenando le giovane artista un turbine di emozioni negative e difficilmente catalogabili.
    No, aspetta, forse ho visto male. E se anche il bacio ci fosse stato, non era certo uno degno di tale nome. Dava più che altro l’impressione di un bacetto fraterno, amichevole, non lasciava intendere risvolti intimi. Però… forse mi sbaglio e tra loro c’è qualcosa, e non hanno voluto pomiciare sulla soglia per timore dei vicini. No, l’altra volta Raphael non si fece problemi a infilarmi tre metri di lingua in bocca proprio lì, sul primo gradino. Quindi… aiuto.
    Il sole stava tramontando lentamente e Alan non aveva ancora intenzione di abbandonare la postazione, a costo di sembrare uno stalker. Il tizio era entrato da cinque minuti, ma le tende del salotto erano tirate, ergo era purtroppo impossibilitato a spiare come si conveniva, condannato a tormentarsi dai dubbi, rannicchiato nel suo angolino, a cavallo della bici e sporto in avanti.
    Chi era quello? In che rapporti era con Raphael? Stavano insieme?
    No, Raphael era single, altrimenti lo avrebbe informato di un dettaglio così importante.
    Erano amanti? Che senso aveva fare il doppio gioco?
    Inoltre, il trentaquattrenne non gli suscitava l’idea di uno che ama camminare col piede in due staffe, era convinto che fosse invece una persona onesta e limpida.
    Ma, se le cose stavano così, perché mai un adone modello Hercules nei suoi anni d’oro era appena entrato in casa sua?
    Il rosso sgranò gli occhi sconvolto.
    Una prostituta?
    Scosse la testa deciso. Impossibile, Raphael non avrebbe mai ricorso a mezzi simili per ricercare soddisfazione. D’altronde, gli bastava andare in un bar e abbordare qualcuno a caso, chiunque sarebbe stato ben felice di essere il suo compagno per una notte, non occorreva addirittura pagare qualcuno.
    Ma forse non era prostituta. Un amico? E gli amici si baciano in quel modo?
    Beh, lui aveva baciato Jason un’infinità di volte, senza che ci fossero doppi fini, quindi ci poteva stare.
    Allora, come doveva agire? Bussare e chiedere spiegazioni, con una bella dose di faccia tosta come contorno, oppure girare la bici e tornare sui propri passi?
    Rimuginando su tali dilemmi, Alan invertì la direzione e iniziò a pedalare mogio verso il centro, la morte nel cuore e le lacrime che gli solcavano le guance.
    Se lo meritava, si diceva, era la giusta punizione per aver commesso uno stupido sbaglio, per essersi dimostrato un bambino stupido e senza spina dorsale. Avrebbe potuto declinare l’invito di Dylan, mandarlo a farsi fottere, improvvisare una scenata da vittima di un maniaco e farsi venire a salvare da qualcuno. Ma, al contrario, aveva scelto di comportarsi da imbecille e, a causa dell’errore commesso, aveva perduto tutto ciò che aveva guadagnato dopo tre anni di estenuante fatica e perseveranza. Non aveva il diritto di incolpare il fato, che aveva fatto sì che Raphael lo scoprisse mentre baciava Dylan, ma solo se stesso per aver accettato di partecipare a quel giochetto pericoloso. Aveva consapevolmente messo in pericolo la sua relazione col biondo e il destino aveva voluto rimproverarlo per questo.
    Attraversò la strada, la fine del quartiere residenziale a circa cinquanta metri. Il magone non accennava a sciogliersi, le lacrime ad arrestare il loro flusso e il cuore a cessare di dolere in maniera talmente insopportabile da sottrargli il respiro.
    Stupido, stupido, stupido! Ormai è troppo tardi… sono uno stupido! Dovrebbero darmi un premio, sono il re dei cretini!
    Premette i freni e sospirò sconsolato. Com’era, il detto? Chi è causa del suo male, pianga se stesso. E adesso, come ogni tragicommedia che si rispetti, lui si sarebbe ritirato dalle scene. La sua parte era terminata e lo show sarebbe continuato senza di lui. Insomma, non era altro che una comparsa nello splendido spettacolo che era la vita di Raphael; non poteva assolutamente anelare a qualcosa di più, lui, un ragazzino imberbe che puzzava ancora di latte e pretendeva di dare a bere di essere diventato adulto, era da sciocchi. Così, l’inutile comparsa, uno degli innumerevoli personaggi secondari, gettava la spugna, si arrendeva, abbandonava il palcoscenico con aria mesta e afflitta, senza aver combinato nulla, relegato per sempre in un ruolo d’ombra.
    Osservò con sguardo vacuo un trio di bambini schiamazzanti uscire da una delle case e schizzare via ridendo in sella alle loro biciclette; poco più in là, una donnetta rotonda passeggiava con un chihuahua al guinzaglio; alzò gli occhi e vide un uomo arrampicato sul tetto spiovente di ardesia a potare un cespuglio particolarmente alto. Piccole e insignificanti comparse, proprio come lui, con nessuno scopo se non riempire i buchi.
    Si morse più forte le labbra per farle smettere di tremare e si asciugò il viso con il bordo della maglietta, tanto era già zuppa di sudore.
    Era finita.
    Puntò l’altro lato della strada con cipiglio determinato, riscovando in sé la forza per riprendere a pedalare. Mosse prima la gamba destra, di seguito la sinistra, infine fece dietro front ed esclamò: “Col cazzo!”
    Gli ci vollero due minuti scarsi per raggiungere di nuovo la casa di Raphael, il percorso ormai imparato a memoria. Scansò la Cadillac rossa del tipo da urlo, scaraventò la bici e la borsa sul prato e si catapultò sulla porta, spalancandola di botto e irrompendo come una furia nel salotto del biondo. Trovò costui seduto comodamente sul divano a sorseggiare una tazza di caffè e il suo presunto amico a fianco, rilassato e con un mozzicone di sigaretta fra le labbra. I due si girarono di scatto per scoprire chi avesse quasi scardinato la porta e si immobilizzarono entrambi appena lo ebbero messo a fuoco, Raphael genuinamente stupito e Harvey sconvolto per l’entrata in scena di un moccioso. Questi squadrò il maggiore confuso e senza parole, mentre l’altro si alzò, posò la tazza sul tavolino dinnanzi al divano e andò a fronteggiare Alan, stentando a credere ai propri occhi.
    Il diciannovenne aveva il fiatone, grondava sudore tanto per cambiare, e scrutava gli altri due disperato, soprattutto l’uomo che amava.
    Harvey optò per una ritirata strategica. Spense la sigaretta nel posacenere, snocciolò impegni inesistenti a mezza voce e poi salutò l’amico con una carezza sul braccio ed un’occhiata eloquente, della serie: “Dopo voglio i dettagli sconci.”
    Raphael annuì e lo seguì fino all’uscio, scusandosi per l’imprevisto. Dopodiché, concentrò tutta la sua attenzione sul ragazzo e rimase in religioso silenzio, probabilmente in attesa in un qualsivoglia discorso.
    Ora che Alan aveva modo di sondare la sua espressione più da vicino, Raphael pareva provato e triste, e non dovette compiere molti sforzi per ipotizzarne la ragione. Si umettò la bocca e tentò di calmarsi. Doveva spiegare il malinteso subito, prima che la situazione degenerasse.
    “Raphael, riguardo a quello che è successo oggi… non è come pensi.”
    L’interpellato lo fissava granitico, oltremodo sadico nel non fornirgli alcun appiglio a cui aggrapparsi.
    “Sul serio, quello che mi stava baciando era Dylan, il bullo che mi spedì in ospedale l’anno scorso… quando tu mi hai miracolosamente soccorso.” mormorò, il capo basso e l’atteggiamento remissivo della preda sotto l’esame meticoloso del leone.
    Il succitato leone allentò impercettibilmente la tensione muscolare e il suo sguardo si addolcì.
    Incoraggiato da questa reazione, Alan aggiunse: “E’ il modello del corso di disegno, è stato assegnato alla nostra classe la scorsa settimana perché l’altro si è ammalato. Non immaginavo di incontrarlo in accademia, è stata una sorpresa anche per me. Si è scusato per come mi trattava al liceo, mi ha raccontato dei problemi che aveva e mi ha confessato che gli piacevo. Io non avevo intenzione di ristabilire un contatto, lo giuro, anzi per tutto questo tempo lo volevo morto, però lui ha cominciato a dire che se gli concedevo un bacio mi avrebbe lasciato in pace per sempre. Così… beh, non so esattamente cosa mi sia passato per la mente in quel momento, però ho accettato e lui mi ha preso in contropiede approfittando della mia disponibilità. Quando ci hai visti… Dylan stava forzando il suo bacio su di me, poi l’ho cacciato via. Davvero, tra me e quella scimmia ritardata non c’è nulla, credimi! Io lo odio, non potrebbe mai piacermi! E lo so, sono stato un idiota a farmi abbindolare, ma ti assicuro che per me non esiste nessun altro a parte te…”
    La frase si spense con un singhiozzo mortificato e il giovane ricominciò a piangere come una fontana, facendo la figura del bamboccio patetico e frignone.
    “Perdonami, ti prego… non lasciarmi… farò qualunque cosa…”
    A quel punto, i lineamenti del viso di Raphael si deformarono in una maschera che non dava adito a fraintendimenti, tanto che il rosso ne fu intimorito. Una lampante certezza serpeggiò in ogni fibra del suo corpo: gli stava per saltare addosso.
    Fece giusto in tempo ad indietreggiare di mezzo passo, quando il biondo si lanciò su di lui con uno scatto felino e lo ghermì fra le proprie braccia, affondando la faccia nel suo collo e mordendo forte la pelle fino a strappargli un gemito di sofferenza.
    Alan non ritenne di trovarsi nella posizione corretta per avanzare lamentele, era ovvio che lo stesse punendo, e parare i suoi assalti equivaleva ad opporsi al suo meritato castigo. Perciò, restò inerte nell’abbraccio stritolatore del bibliotecario e non si ribellò alla cascata di morsi che piombarono sulla sua epidermide delicata, rassegnandosi a patire l’inevitabile dolore che ne scaturiva.
    Poco dopo, Raphael si staccò e lo fulminò con un’occhiata che lo ridusse ad un ammasso di gelatina tremante.
    “Avrei dovuto farlo prima.” soffiò tra sé e sé.
    Alan lo scrutò interrogativo, le iridi velate da una patina opaca che trasformava la realtà circostante in un mondo nebuloso dai contorni indistinti. Persino il cervello era annebbiato e tutte le sue reazioni di conseguenza inibite, gli arti pesanti e intorpiditi dalla stanchezza e dallo stress. Poi Raphael si tuffò sulla sua bocca e la violò con la lingua senza troppe cerimonie, in un bacio passionale e famelico, spogliandolo di ogni brandello di lucidità e spirito combattivo.
    Dal canto suo, il trentaquattrenne non aveva potuto esimersi dal soccombere all’espressione da cucciolo bisogno di coccole che il rosso aveva sfoggiato dianzi. Essa lo aveva trafitto più di mille frecce e aveva distrutto la fredda corazza che lo avvolgeva spazzandola via in un baleno. Davvero, non sapeva addurre una spiegazione logica al livello di conturbante adorabilità di cui era capace Alan: ogni volta lo spiazzava, lo rimescolava e gli provocava l’insopprimibile desiderio possederlo con la forza, di mangiarlo fino ad inglobare ogni pezzo di lui dentro di sé.
    Si considerava, sotto alcuni aspetti, spiritualmente cannibale. Quella brama spasmodica di Alan lo spaventava, temeva di non riuscire a controllarsi. Per questo aveva resistito e si era trattenuto dal toccarlo troppo, poiché se avesse indugiato quanto voleva, la bestia avrebbe rotto le catene, se lo sentiva.
    Infatti, era proprio ciò che stava accadendo. Gli era impossibile ormai rallentare, aspettare, retrocedere, e mentre divorava le labbra del piccolo percepiva crescere la fame sempre più insaziabile. Gli sembrava di essere affetto da una forma incurabile di avidità, come un grande, impaziente contenitore che viene riempito a gocce infinitesimali, in una lunga e crudele tortura. Ne desiderava ancora e ancora, sempre di più, fino a esplodere.
    “Ra-Raphael?”
    Il pigolio di Alan gli giunse alle orecchie come il richiamo di una sirena e funse da calmante, attenuando straordinariamente l’istinto animale che lo aveva sopraffatto. Posò una mano sulla sua guancia umida di lacrime e affogò in quelle iridi di giada, provando a contenere la voglia di baciarlo almeno per il tempo necessario a permettergli di parlare.
    “Sì?” domandò roco.
    “Mi perdoni…?” chiese di rimando, esitante e accaldato a causa delle precedenti effusioni.
    Il biondo sorrise intenerito e ridacchiò. “Sto segnando il mio passaggio su di te, tonto! Sto marcando il territorio, così che nessuno osi avvicinarsi a te. Sei una mia esclusiva proprietà ora e ti marchierò in profondità, in modo tale che nemmeno tu potrai dimenticare a chi appartieni.”
    Il ragazzino arrossì fino alla punta dei capelli e il battito cardiaco schizzò alle stelle nell’arco di un istante.
    Significava forse che…?
    Che?!
    Il più grande attaccò nuovamente il suo collo e gli sbottonò i pantaloni con un movimento così rapido che Alan non fu capace di impedirlo. Stava scorrendo tutto così veloce che era impensabile proporre una pausa di qualche tipo, ma in fondo neanche la voleva. Aveva sognato quel momento parecchie volte, ma non si era mai spinto così in là da immaginare un Raphael in preda all’eccitazione più sfrenata che se lo caricava in spalla come un sacco di patate, diretto di sopra, in camera da letto. Cioè, in verità aveva fantasticato sull’essere portato in braccio modello principessa, con un pizzico di dolcezza in più e qualche bacio rassicurante. Il panorama di cui godeva nei suoi sogni era il bellissimo volto di Raphael, i suoi occhi azzurri accesi d’amore e il suo sorriso sghembo, non certo la moquette che ricopriva il pavimento. Si sentì sballottato da una parte all’altra, finché non atterrò di schiena, con un tonfo attutito, sul materasso del biondo.
    Il sole era già tramontato, rendendo il cielo di una sfumatura violetta e gettando la stanza nella penombra.
    Raphael torreggiava sul rosso come un predatore pronto ad inghiottire la preda in un sol boccone, ma Alan non era spaventato, forse un pochino imbarazzato. Ad un tratto, si ricordò di puzzare di sudore e di avere un aspetto assolutamente schifoso, e tale consapevolezza acuì la vergogna che gli imporporava le guance.
    “Raphael… non è meglio una doccia, prima di…”
    Il bibliotecario sospirò esasperato e fece scomparire i vestiti del giovane con pochi, semplici gesti, esponendo il suo corpo nudo al proprio sguardo cupido.
    “No, aspetta! Maledizione, Raphael! Ho detto aspettaaaaaa!” esclamò ansimando, l’eccitazione che però si faceva strada in mezzo alle gambe.
    Raphael, in tutta risposta, lo afferrò per i fianchi e lo ribaltò a pancia sotto.
    “Cos… hey!” protestò Alan, divincolandosi, ma l’altro si bagnò un dito di saliva e lo penetrò nell’anello di carne fra i glutei, suscitando nel diciannovenne uno squittio scontento. “Ahi! Raphael, la vuoi piantare?! Mi fai male!”
    Il biondo arrestò la stimolazione e aggrottò le sopracciglia perplesso. “Sei stretto.”
    “Vorrei vedere, sono vergine!”
    “Eh?!” gracchiò, estraendo il dito.
    Il bibliotecario sondò l’espressione di Alan per accertarsi che non stesse mentendo, poi strabuzzò gli occhi sbigottito. “Ma… avevi detto di non esserlo…”
    “Mi riferivo all’uccello, razza di idiota! Con Jason ho fatto l’attivo.”
    “Oh.”
    Finalmente, il rosso fu in grado di rimettersi supino e tirarsi su facendo leva sui gomiti. Poi squadrò arrabbiato Raphael, il quale non aveva mosso un muscolo dalla rivelazione. Pareva anzi completamente assorto, fagocitato da una dimensione estranea alla realtà, distaccata, lontana.
    “Beh?” lo chiamò con un cenno della testa. “Che ti prende?”
    “Mmm… forse non è il caso di andare oltre.” rifletté ad alta voce.
    Alan sbuffò spazientito: “Sei impazzito? Sono qui, nudo e disponibile, e tu dici che non vuoi andare oltre?”
    “…ti ho fatto male.”
    “Perché sei stato troppo precipitoso!”
    “Però, quello che sto cercando di dire è… sei sicuro di voler regalare a me la tua prima volta?”
    Il ragazzo lo osservò dal basso, allibito, incredulo e stralunato. “Oh, scusami tanto. Ora vado fuori, mi faccio sverginare dal primo che incontro e poi torno.”
    Raphael parve punto sul vivo e piegò la bocca in una strana smorfia: “Davvero lo faresti?”
    L’attimo successivo gli arrivò uno schiaffo in pieno viso, che, nonostante il dolore, almeno ebbe l’effetto di farlo rinvenire.
    “Smettila di fare lo stronzo anche in questi momenti. Tu cosa provi per me?”
    “Eh? Ah? Perché questa domanda a bruciapelo?”
    “Ti dovevo dare il preavviso?” sputò ironico.
    “No, perdonami.” si imbronciò e si sedette sul letto a gambe incrociate, sgravando Alan del suo peso. “Ti basti sapere che non mi sarei avvicinato a te così tanto se non provassi qualcosa.”
    “Mh?”
    “Non fraintendermi, potrei fare sesso con qualunque maschio, purché bello, anche senza sentimenti, ma tu sei speciale. Non… lo sto facendo per divertimento.” distolse lo sguardo, impacciato, e al più giovane scappò da ridere.
    “Non caverò un ragno dal buco stasera, eh? Ok, mi è sufficiente questo per il momento, ma in futuro sappi che non mi accontenterò.”
    “Ma sei veramente sicuro di-”
    “Per la miseria, Raphael! Non credevo fossi il tipo da insulse paturnie! Fottimi, qui e adesso!” esclamò piccato. “Con calma, però.” aggiunse nervoso. Poi sorrise incoraggiante e lo invitò a stendersi di nuovo su di lui.
    Raphael obbedì e placò i bollenti spiriti, sentendosi colpevole per aver cercato di imporsi su Alan senza considerare i suoi sentimenti. Lo baciò con gentilezza, lo riempì di carezze su tutto il corpo e avvertì i muscoli rilassarsi. Il ragazzo ansimò di piacere quando scese con la mano sulla sua erezione e cominciò a strofinarla senza fretta, compiaciuto nell’udire flebili gemiti rotolare fuori dalla sua bocca.
    Il biondo si concesse interminabili minuti per incamerare nella memoria ogni minimo dettaglio di Alan, dalla voce agli occhi languidi, e la familiare sensazione di completezza che non sperimentava dalla morte di Alicia lo travolse come un’onda, facendo germogliare nella sua anima una scintilla di pura felicità. Serrò le palpebre emozionato e si chinò ad assaporare la pelle del giovane, leggermente salata a causa del sudore, mentre il suo odore mascolino gli invase le narici e lo istigò a procedere nell’esplorazione. I suoi tocchi, di solito esperti, si trasformarono in incerti sfioramenti, poiché temeva di sbagliare qualche passaggio, e controllava ogni tre per due la faccia del diciannovenne per scovarvi un qualunque segnale di fastidio. I polpastrelli correvano in su e in giù, provocando nell’oggetto di tali attenzioni ripetuti brividi e mugolii, e pure la lingua compiva il suo lavoro, bagnando e lambendo incessantemente le zone che più attiravano il suo interesse.
    Alan era in estasi. La realtà si stava rivelando enormemente più soddisfacente della fantasia, la superava di gran lunga, e lasciarsi coccolare dalle mani grandi di Raphael faceva battere il suo cuore come un tamburo. Però non voleva essere soltanto lui a ricevere, desiderava donare piacere all’amante in eguale misura, perciò si sforzò di tornare lucido ed afferrò imbarazzato il bordo della maglietta del biondo. Riuscì a toglierla di mezzo e ad esporre il torace del maggiore, meravigliandosi di scoprirlo liscio e glabro, come se avesse vent’anni.
    Ghignò. “Ti sei tenuto in forma, eh?”
    “Veramente faccio parte di quella categoria di persone che non ingrasserebbero nemmeno se ingoiassero un bufalo intero.” rispose l’altro, facendo con le dita il simbolo della vittoria.
    “Cosa?!” boccheggiò il rosso, poi assottigliò le palpebre. “Tu! Tutto ciò è ingiusto, sappilo. Ti porterò rancore a vita.”
    “Sono nato così.”
    “Tch! A quarant’anni sarò io a ridere, quando metterai su la pancetta.”
    “Non accadrà, lo impedirò.”
    “Sei narcisista?”
    “Non sono fissato, ma voglio fare in modo di risultare sempre l’uomo più desiderabile ai tuoi occhi, così non andrai a farti scopare da nessuno con la scusa che sono diventato antiestetico. Solo io posso avere accesso alla tua carne, sia chiaro.” dichiarò piccato e minaccioso.
    “Ehhh, si invecchia… uh!”
    Raphael lo assalì ancora, gli divaricò le gambe e prese a strusciarsi col bacino imitando i movimenti dell’amplesso. Tuttavia, presto si risolse a levarsi anche i pantaloni e i boxer, che ormai erano solo d’impiccio, e si sdraiò su Alan facendo aderire piano piano ogni centimetro delle loro pelli accaldate.
    “Diamo il via alle danze, che ne dici?” propose, alitando direttamente nell’orecchio del piccolo.
    “Sì…” gemette inarcandosi, bramoso di più contatto.
    “Stai rilassato e non agitarti, va bene?” gli intimò pacato.
    “Mi spieghi come faccio a non agitarmi?!”
    Il biondo rise e lo baciò sulla bocca con trasporto, prima di abbandonare il letto per recarsi in bagno a rovistare negli armadietti.
    “Che fai?” domandò confuso Alan.
    “Senza preservativi non si va da nessuna parte.”
    “Ah, è vero. Ma non dispiaceva farlo al naturale…” borbottò.
    “Sei scemo? Ti faresti un male cane, fidati.”
    Il giovane sollevò un sopracciglio, contemplando la schiena di Raphael con stupore. “Ti sei fatto sfondare?”
    “Sì, più o meno alla tua età. Anch’io ero curioso di provare senza protezione e… solo a ricordare sento le viscere contrarsi dal dolore. Giuro, ho visto l’inferno, sono rimasto così scioccato che da quel preciso istante ho promesso a me stesso di non comportarmi più da stupido. Quindi stai zitto e lascia fare a me, verginello.”
    Alan storse le labbra con palese disappunto, ma comunque si mise comodo con la nuca sul cuscino e le gambe aperte, in una posa a dir poco sconcia.
    Il più grande tornò in camera, ma si paralizzò nell’ammirare quell’Alan disinibito e discinto pronto ad accoglierlo.
    “Stai sbavando.” gli fece notare il ragazzino, allorché Raphael chiuse la bocca con uno schiocco, accorgendosi solo in quel momento di averla spalancata.
    Deglutì, salì sul materasso come una pantera e gattonò verso il rosso, scrutandolo con passione e nervosismo.
    “Non ho il lubrificante, non avevo previsto un simile risvolto degli eventi, perciò dovrò usare la saliva, anche se sarà solo un mero palliativo. Sentirai male all’inizio, ma successivamente, se farò il mio dovere e tu collaborerai, esso sparirà dopo qualche minuto.”
    “Ok.” annuì fingendosi serio. “Vuoi darmi qualche altra istruzione, tipo… che ne so, farmi un disegnino e chiacchierare di teoria, oppure andiamo al sodo senza tanti preamboli?”
    “Mammamia, quanto sei acido.” sbuffò.
    “Sei tu che rovini l’atmosfera! So come funziona, non sono un novellino in materia.”
    “Ottimo, non mi assumerò alcuna responsabilità.”
    Alan si sporse e gli circondò il collo con le braccia, traendolo a sé in un abbraccio. “Tu pensa soltanto ad amarmi.” gli bisbigliò a fior di labbra, poi lo coinvolse nell’ennesimo bacio e avvolse le cosce intorno al busto di Raphael. Questi posizionò un altro cuscino sotto i suoi fianchi, in maniera da non costringerlo a contorcersi dopo per venirgli incontro, infine portò le sue caviglie sulle spalle e cominciò a massaggiare l’esterno dell’apertura del diciannovenne, con l’intento di allentare la tensione e abituarlo alla pressione, che andava via via aumentando fino a penetrarlo con un dito.
    Alan represse subito una serie di singulti sofferenti, ma il suo viso divenne paonazzo e congestionato per l’apnea a cui si stava costringendo.
    “Devi respirare. Se trattieni il fiato, contrai i muscoli e mi rendi difficile prepararti. Respira lentamente,” lo guidò, “concentrati sulle sensazioni e lasciami entrare.”
    Per facilitargli le cose, andò a stimolare il suo sesso con la bocca e nel frattempo roteò il dito per trovare quel punto che lo avrebbe fatto sciogliere. Alan sgranò gli occhi e annaspò in cerca d’ossigeno, poi intrecciò entrambe le mani nei capelli serici del bibliotecario, prendendo ad ondeggiare sinuosamente il bacino. Non appena Raphael scovò la prostata del giovane, non trascorsero che un paio di secondi prima che la stanza venisse invasa da sonori gemiti di piacere, i quali si ripercossero sul membro del biondo. Esso si indurì ancora di più e iniziò a dolere, di conseguenza Raphael incrementò il numero delle dita e accelerò la velocità del polso, così da accorciare i tempi, senza tuttavia perdere la giusta dose di accortezza. Quando lo ritenne pronto, estrasse le dita e indossò il profilattico, mentre Alan scendeva a segarsi per raggiungere l’orgasmo negato. Il trentaquattrenne ghignò e gli imprigionò le mani ai lati della testa.
    “Non così. Sii paziente, verginello.”
    Il ‘verginello’ ansimò indispettito. Si protese in avanti, pregando implicitamente di essere baciato, e Raphael lo accontentò volentieri. Poi poggiò la punta dell’erezione ormai al limite sull’ingresso dell’altro e assestò la prima, improvvisa spinta. Alan rantolò e alcune lacrime si incastrarono fra le ciglia, però non demorse. Strinse i denti e resistette, stavolta tentando di regolare il respiro.
    “Vado?” domandò il biondo, esitante.
    “Vai.”
    Affondò di un centimetro e si fermò.
    “Cazzo!” mugugnò Alan. “Ok… ok, ci sono. Vai.”
    Penetrò un altro pochino.
    “Ah! Stop, aspetta! Torna indietro e rientra.”
    Rapahel levò gli occhi al cielo, ma eseguì.
    “Vai ora.”
    “Mi sembra di parcheggiare una macchina.” commentò con uno sbuffo di fatica.
    “Stop!”
    “D’accordo, d’accordo. Non ti preoccupare, sono qui.” lo abbracciò protettivo e gli accarezzò i capelli rossi, cullandolo con amore. “Te l’ho detto, è solo all’inizio.”
    “Lo so… continua.” singhiozzò.
    Raphael decise di piantarla con il tira e molla e con un unico colpo lo possedette fino alla radice. Come aveva preventivato, Alan gridò come se lo stessero sgozzando, ma a quel punto lo baciò con voracità per distrarlo e trasmettergli il proprio calore.
    “Col lubrificante sarebbe stato meglio…” bofonchiò poi, staccandosi e issandosi sulle braccia per verificare l’angolazione.
    Dopodiché, forzando la resistenza di Alan, accennò a uscire dall’anfratto stretto e bollente che lo comprimeva come una guaina soffocante e scivolò di nuovo dentro delicatamente, adattandosi al ritmo lento e cadenzato a cui lo obbligavano i gemiti dell’amante.
    “Aggrappati a me.”
    “Fa… fa male… cazzo!”
    “Respira e guardami.”
    L’altro obbedì e i rispettivi sguardi si incatenarono. Solo in quel determinato frangente Alan si rese pienamente conto di essere connesso a Raphael, al suo Raphael. A un tratto non gliene importò più nulla dell’agonia o del bruciore, percepì solamente l’affetto del biondo, la sua totale partecipazione, la sua vicinanza anche spirituale.
    Ce l’aveva fatta. Era valsa la pena attendere tre anni, e cosa gli fregava se non era esattamente magico come si era più volte immaginato? Era reale e il dolore ne era la prova tangibile.
    Rimase ad ammirare il bellissimo bibliotecario con aria incantata, memorizzando ogni singola smorfia estatica e ogni singolo sospiro strozzato. Stava godendo, era evidente, ed era felice che fosse grazie a lui. L’eccitazione lo colse impreparato, una scarica elettrica risalì fino al cervello e mugolò di sorpresa.
    “Che c’è?” il biondo si ghiacciò.
    “Io… ahhh!”
    “Cristo, mi spaventi.”
    Raphael sorrise apertamente e portò una mano a sfregargli il sesso adesso turgido e svettante tra i loro ventri. Occorse poco, ad Alan, per archiviare del tutto la sofferenza fisica e gioire a pieni polmoni di quel connubio tanto agognato, le stoccate via via più fluide e intense, lasciandosi trasportare dalla corrente sempre più impetuosa che lo stava conducendo verso vette mai esplorate.
    Giunse all’apice qualche secondo prima di Raphael, il quale ringhiò tra i denti un’ultima volta per poi accasciarsi esausto sul rosso. In seguito, si sfilò da lui per buttare sul pavimento il preservativo usato e leggermente macchiato di sangue, infine tornò a immergersi nell’abbraccio del moccioso e lo sbaciucchiò su tutta la faccia, suscitando risatine divertite.
    “Il bagnetto ce lo facciamo ora.” disse affannato, raccogliendo i frutti dell’orgasmo del giovane sulle proprie dita e portandosele voluttuosamente alle labbra.
    Alan avvampò, rifiutando di muoversi dal giaciglio che era stato teatro della loro unione, così Raphael dovette sollevarlo di peso e deporlo nella vasca lui stesso. Aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua calda, finché non raggiunse il livello ideale.
    “Dopo lo facciamo di nuovo?” l’ex verginello lo fissò timido e in risposta il membro del biondo reagì scattando sull’attenti.
    “Tu mi farai dannare.” decretò rassegnato e si infilò nella vasca dietro l’altro con un ghigno poco rassicurante.
    “Precipiteremo insieme nell’abisso della perdizione…” aggiunse Alan, mentre le lingue ricominciavano a danzare e i corpi a vibrare di desiderio.
     
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  3. Lady1990
     
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    Il pomeriggio del 2 maggio Dominic e Jason atterrarono al Kennedy in perfetto orario.
    Il ragazzino aveva un’aria stravolta, stanco e intontito dalle numerose ore di viaggio in aereo, che aveva trascorso per lo più a ronfare della grossa dopo aver assunto del sonnifero.
    Ritirarono le valigie e un paio di sottoposti del boss, vestiti rigorosamente in borghese, le presero in consegna, per poi fare strada verso la limousine parcheggiata all’entrata.
    Jason, appena toccò con il posteriore i morbidi sedili foderati in pelle, si accasciò con un sospiro di sollievo e si massaggiò gli occhi contornati da lievi occhiaie.
    La vacanza in Italia si era rivelata divertente e rilassante, all’insegna sia della cultura che dello spasso. Avevano visitato Roma, Napoli, Firenze e Venezia, poi avevano noleggiato una jeep e si erano fatti tutta la costa tirrenica fino allo Stretto di Messina, dove una barca a vela li attendeva per trasportali in Sardegna. Dopodiché, dopo quasi più di due mesi a bighellonare in lungo e in largo per la penisola, erano tornati a Roma per il volo di rientro.
    Per il moretto era stata un’esperienza unica e irripetibile, tanto per le meraviglie del Paese quanto per la compagnia di Dominic, sempre molto informato su qualunque meta e attento alle sue esigenze. Non si era annoiato un attimo, anzi non ne aveva proprio avuto la possibilità a causa dei ritmi a cui il mafioso lo aveva obbligato, ma non gli era pesato. Ogni giorno era stato pieno di cose da scoprire, di luoghi da esplorare e, con sommo sconcerto, si era anche accorto di essere ingrassato di tre chili. In conclusione, era assolutamente soddisfatto. L’unica nota che stemperava la sua felicità era il comportamento di Dominic, ai limiti della galanteria. Infatti, il rosso aveva avuto più volte l’occasione di fare sesso con lui, quasi tutte le notti si erano rotolati fra le lenzuola fino all’alba, ma mai che il boss si sbilanciasse a possederlo. In principio, Jason gli era stato grato per la considerazione che dimostrava per i suoi sentimenti, ma in seguito la cosa gli aveva suscitato un irragionevole fastidio; insomma, si aspettava di essere assalito e rivoltato come un calzino, dato che era palese quanto Dominic desiderasse farlo. Tuttavia, egli si era sempre trattenuto, imponendosi uno stoicismo degno di un frate osservante, dettaglio che sin dall’inizio aveva lasciato assai perplesso il diciottenne, non certo abituato a tutto quel riguardo nei propri confronti. Per non parlare dello scetticismo da cui era stato colto quando il più grande gli aveva ribadito che non lo avrebbe preso a meno che non fosse stato lui a chiederglielo. Arduo credere che avrebbe resistito, e invece, a dispetto di ogni previsione, non aveva mai approfittato della guardia abbassata del giovane.
    Comunque, Jason era riuscito a sciogliere la tensione e a bandire le preoccupazioni dalla mente. L’aria italiana, pregna di salsedine e profumi esotici, era stata un toccasana, talmente ben accolta che aveva ricominciato a sorridere spensierato come quando era bambino. Inoltre, Dominic aveva alimentato il suo perenne buonumore viziandolo peggio di una madre o un principe, concedendogli i suoi spazi quando ne avvertiva il bisogno e giocando con lui nei momenti in cui lo vedeva deprimersi per oscuri motivi. Jason non lo aveva mai sentito così vicino.
    Quell’emozione di serenità gli era rimasta sconosciuta perfino con Alan, il quale aveva spesso partecipato del suo dolore e della sua gioia, vivendo insieme situazioni belle e brutte, e indugiato in una notte di passione con lui. Eppure, con Dominic era stato diverso da subito: anche lui aveva assistito ad una scena infelice con Charles, anche lui lo aveva salvato, anche lui gli era stato accanto, incoraggiandolo e spronandolo ad andare avanti, anche con lui aveva riso, scherzato, pianto, litigato e condiviso l’intimità del letto.
    E in tutto ciò v’era un elemento che li differenziava nettamente.
    Alan, il suo primo amore, l’ancora a cui si era aggrappato per anni, il suo angelo custode irraggiungibile, il suo sogno irrealizzabile.
    Dominic, il suo capo, un mafioso, un criminale, un assassino e al contempo un uomo dolce, comprensivo, simpatico e innamorato.
    Tra questi due non esisteva alcun punto in comune o somiglianza, però allora perché entrambi erano capaci di scatenare in lui quella tempesta di sensazioni contraddittorie?
    Aveva sovente anelato a unirsi carnalmente ad Alan perché lo amava, non perché lo attirasse parecchio fisicamente. Con il boss, invece, provava una costante attrazione sessuale e i suoi tocchi esperti lo mandavano in visibilio ogniqualvolta si trovassero distesi sul medesimo materasso o superficie sufficientemente comoda che ispirasse determinate pratiche. Ormai si rendeva conto di essere diventato dipendente dalle sue carezze spinte, dal contatto con la sua pelle e dal calore sprigionato dal suo corpo, e giorno dopo giorno si scopriva a fantasticare sia su un eventuale amplesso sia sull’enorme piacere che sicuramente ne sarebbe scaturito, visti i promettenti preliminari.
    Jason ammetteva che con Dominic c’era della chimica, ma si domandava se essa adesso si fosse mescolata all’amore.
    Amava Dominic?
    Non lo sapeva con precisione e si tormentava per risolvere l’enigma, non si dava pace, soprattutto nell’ultimo periodo. La sintonia, la complicità e il legame che li univa in generale potevano essere raccolti sotto il nome di ‘amore’?
    “Hey, tutto bene?” lo richiamò il mafioso, sussurrandogli a pochi centimetri dal collo.
    Jason sobbalzò e arrossì. “Sì, ho solo molto sonno.”
    “Ancora? Hai idea di quanto hai dormito in aereo?”
    Il ragazzino si spaparanzò di più sul sedile, chiuse gli occhi e fece finta di russare, suscitando una risata divertita nel rosso.
    “Dai, siamo quasi arrivati. Cosa ti va per cena?”
    “Uhm… non ho fame.”
    “Nemmeno un’insalatina semplice semplice?”
    “No.”
    “Suppongo sia per colpa del jet lag.” sbuffò Dominic e lanciò un’occhiata fuori dal finestrino.
    Rimasero imbottigliati nel traffico newyorchese per un’ora abbondante, poi cambiarono direzione e si affacciarono nel ghetto. Benché il passaggio di una limousine in quella zona fosse di per sé un evento raro, una volta buttato lo sguardo sulla targa nessuno osava avvicinarsi o porsi domande circa il proprietario. Il simbolo stampato su di essa, infatti, rappresentava un drago alato che sorreggeva due cuscini da ambo i lati, i quali a loro volta sorreggevano una pistola. Quel particolare disegno indicava l’appartenenza ad uno dei più importanti clan mafiosi d’America, quindi anche il più stupido dei ladri si teneva alla larga. La filosofia che regnava nel ghetto era “Non impicciarsi, se vuoi restare vivo.” e così accadeva.
    Perciò oltrepassarono i primi edifici in assoluta tranquillità e a velocità sostenuta, mentre le poche persone in giro sui marciapiedi ignoravano deliberatamente la voluminosa macchina, proseguendo imperterriti per il loro cammino.
    Stavano per attraversare un incrocio, quando all’improvviso Dominic captò un dettaglio estraneo al paesaggio. Si irrigidì e sgranò le palpebre. Poi tutto avvenne in una manciata di secondi, sebbene per il boss l’azione parve svolgersi a rallentatore. Vide una macchina nera arrivare a tutto gas dalla parallela, registrò la presenza di uomini armati e con la faccia coperta dagli occhiali da sole all’interno - uno di essi gli lanciò un fugace sorrisino e caricò la pistola - e confermò che la direzione da loro imboccata convergeva con quella della limousine. Ergo, data l’accelerazione di entrambe le auto, si sarebbero sicuramente schiantati.
    Il tempo sembrò arrestarsi.
    Afferrare la pistola nella fondina sotto la camicia estiva non aveva senso, non li avrebbe protetti dall’imminente scontro. Così, pallido ma perfettamente lucido e presente a se stesso, ruotò verso un sonnacchioso Jason, lo strinse fulmineo fra le braccia avvolgendolo in un bozzolo protettivo e si scambiò di posto con lui proprio un istante prima del contatto.
    Il rumore fu assimilabile a quello di un’esplosione. I vetri dei finestrini si frantumarono in tante minuscole schegge, che si conficcarono in profondità nella schiena di Dominic, dopodiché la portiera della limousine si accartocciò e gli infissi si ruppero, mentre la macchina si ribaltava e veniva scagliata con inaudita potenza a metri di distanza. Al contrario, l’auto degli assalitori aveva soltanto il cofano ammaccato, segno che si trattava di una lega rinforzata e l’attacco era stato calcolato con minuzia. La limousine strusciò con la fiancata sull’asfalto, spargendo pezzi, vernice e scintille ovunque. Il serbatoio della benzina si danneggiò e il liquido puzzolente iniziò a sgorgare sulla strada.
    Il boss, ripresosi dall’impatto, controllò che Jason stesse bene e, appena si fu accertato che non avesse ferite a parte qualche innocuo graffietto sui gomiti, annusò l’odore di combustibile nell’aria. Era intenso, cioè si trovavano in prossimità della fonte, e l’esperienza gli aveva insegnato che era notevolmente consigliabile tenersi ben lontani da qualsiasi effluvio di gas o benzina. Immediatamente cercò di sollevarsi, issando con sé anche il ragazzino semisvenuto, si arrampicò sullo sportello divelto e scalò i sedili adesso messi verticalmente, per poi affacciarsi dall’altro lato stando ben attento a non rompere l’equilibrio sul quale si reggeva la macchina inclinata. Con cautela ispezionò i dintorni, il fiato corto e la camicia macchiata di sangue fresco, ma si accorse troppo tardi di un uomo mascherato col passamontagna che impugnava nella mano destra una pistola, nascosto fra due edifici a meno di quattro metri da loro. Quello premette il grilletto e l’attimo precedente alla deflagrazione Dominic scagliò Jason fuori dalla limousine con un urlo bestiale, in maniera tale da allontanarlo il più possibile dal pericolo.
    Il colpo sparato dal sicario mirava proprio al serbatoio rotto e presto, per Rinaldi, il mondo si trasformò in un inferno di fiamme.

    Jason riacquistò conoscenza in una stanza d’ospedale, proprio mentre un’infermiera gli stava somministrando una dose di morfina. Impiegò minuti e fatica per mettere a fuoco il suo viso e l’ago della flebo piantato nel braccio sinistro, ma nel momento in cui il cervello riprese a funzionare l’agitazione lo sopraffece.
    La donna interruppe ogni operazione, richiamata dal mugolio di dolore del paziente, e subito accorse al suo capezzale per verificare le sue condizioni di salute.
    “Ciao.” esordì calma e professionale. “Come ti senti?”
    Jason deglutì e si avvide di avere la gola terribilmente secca. “Do-dove sono?” gracchiò, ma la sua voce venne attutita dalla mascherina per l’ossigeno che gli copriva la bocca.
    “Va tutto bene, sei in ospedale.”
    Grazie al piffero, quello lo aveva capito!
    “Perché?” era disorientato.
    “Hai avuto un brutto incidente. Ricordi nulla?”
    Serrò le palpebre e si concentrò, ma non rammentava cos’era successo. Scosse debolmente la testa, una muta domanda negli occhi.
    “Sei stato ricoverato la settimana scorsa, ma non hai riportato gravi danni, solo una lieve commozione cerebrale e qualche lesione superficiale. Riesci a muoverti? Dimmi il tuo nome e data di nascita, per favore, così constatiamo definitivamente se la memoria è stata intaccata o meno.”
    Una settimana? E quante cavolo di domande fa, questa?
    Vagò con lo sguardo smarrito per la camera.
    “Jason Jordan Leigh. 22 dicembre.”
    “Ottimo.”
    “Dom…?”
    “Come?” l’infermiera si accostò di più.
    “Dom…”
    “Chi è?”
    Le lacrime scesero inaspettate, solcandogli le tempie e immergendosi nei capelli neri. “Dov’è Dom?” reiterò in un soffio roco e disperato.
    “Non conosco nessun Dom, mi dispiace.”
    “Dominic… Rinaldi.” scandì lentamente, in modo che la donna capisse.
    Infatti, appena proferì il cognome, l’espressione pacata e affabile mutò radicalmente. Annuì e lasciò Jason giusto il tempo per chiudere a chiave la porta della stanza. Poi tornò da lui e, assicurandosi che potesse respirare da solo, gli tolse la mascherina.
    “Questo ospedale appartiene alla famiglia Rinaldi, quindi suppongo che anche tu faccia parte della mafia.”
    Non proprio, però il moretto ritenne saggio mentire. “Sì. Dov’è il boss?”
    L’infermiera tentennò corrucciata, indecisa sul rivelare le informazioni riservate di cui era stata da poco messa al corrente. Osservò gli occhioni azzurri e limpidi del diciottenne e il suo cuore si strinse in una morsa. Lo scrutò compassionevole e piegò le labbra in un sorriso amaro.
    “Adesso è in terapia intensiva. È stato operato d’urgenza lo stesso giorno che sei arrivato tu, ma ora è stabile.”
    “Cosa…”
    “Ha… tante ustioni su tutto il corpo e i dottori hanno convenuto che era opportuno indurre il coma farmacologico, almeno finché le ferite non saranno guarite abbastanza da essere gestibili. Ma non è in pericolo di vita, tranquillo. Il tuo capo… beh, sta bene.”
    Jason sospirò di sollievo. “Cosa è successo?”
    “Non conosco i particolari, dovresti chiedere ai tuoi colleghi.”
    Per ‘colleghi’ intendeva forse gli scagnozzi di Dominic? Non ci aveva mai scambiato una parola, figurarsi se si sarebbero prodigati in spiegazioni. Anzi, di certo lo avrebbero lasciato cuocere nel suo brodo di preoccupazione.
    “Mh. Lei non sa niente di niente?”
    “No, caro, mi dispiace.”
    “Ho sete.”
    “Non puoi ancora assumere liquidi per via orale. Le flebo ti manterranno idratato, aspetta che facciano effetto.” gli sorrise e aggiornò la cartella medica. “Vado a continuare il giro di visite. Se il dolore torna a farsi sentire, premi quel pulsante accanto al cuscino e qualcuno del personale sarà da te in un battibaleno.” lo salutò con un breve inchino e la camera piombò in un assordante silenzio, fatta eccezione per il ‘bip’ irritante dell’apparecchio che indicava l’andamento regolare dell’elettroencefalogramma.
    Represse il primo singhiozzo cercando di imporsi la calma, ma quelli seguenti invasero con prepotenza l’ambiente angusto per quasi un’ora. Infine si addormentò esausto, sebbene impaurito e ansioso di rimettersi in sesto.
    Nei giorni successivi, la gentile infermiera che lo aveva preso in cura fu l’unica a entrare nella sua camera. Controllava i valori del sangue, scribacchiava qualcosa sulla cartella clinica, esaminava e disinfettava le sue ferite, gli serviva i pasti e gli tergeva la pelle sudata con un panno umido. A fine mese, finalmente Jason fu in grado di camminare sulle proprie gambe e gli ematomi che gli costellavano il corpo stavano cominciando a scomparire, di conseguenza decretò che era giunto il momento di recarsi lui stesso da Dominic, in barba alla sorveglianza e alle norme ospedaliere.
    Erano le undici di sera, l’infermiera era già passata due ore prima per l’ultimo sopralluogo, e nei corridoi non passava nessuno. Era la sua chance per fuggire dalla piccola prigione in cui era stato rinchiuso. Sgattaiolò fuori dalla porta, guardingo e con i sensi all’erta, zampettò silenzioso verso il reparto in cui, a sentire la donna, era ricoverato Rinaldi e fece attenzione ad eludere le telecamere. Respirava a malapena, consapevole che produrre il minimo rumore lo avrebbe messo in guai seri, e col cuore in gola guadagnò l’ascensore, destinazione secondo piano. Premette il pulsante con gesti febbrili e ingoiò un groppo di saliva, lo stomaco che gli si contraeva a causa dell’agitazione crescente.
    Le porte dell’ascensore si spalancarono e Jason trattenne a stento uno squittio spaventato. Corse a nascondersi in una stanza a caso e attese che i due sottoposti del clan, sopraggiunti all’improvviso da dietro un angolo, proseguissero la ronda notturna senza registrare la sua presenza. Acuì l’udito e, appena fu sicuro che fossero lontani, sgusciò fuori e continuò a correre nella direzione opposta, con lo scalpiccio dei piedi scalzi come unica nota di disturbo nel silenzio spettrale. Le lampade al neon illuminavano il percorso e il ragazzino studiò per bene tutte le insegne delle camere alla ricerca di quella che lo interessava. Scandagliò il piano in lungo e in largo, la voglia di scoppiare a piangere sempre più insopprimibile, ma ad un tratto notò una stanza con le pareti trasparenti e la luce accesa. Non l’aveva mai vista durante il pattugliamento. Vi si diresse a razzo, un presentimento che pian piano si faceva strada nelle viscere, e come volevasi dimostrare piombò esattamente di fronte alla camera del mafioso.
    Egli stava mangiando la sua cena con evidente difficoltà. Stringeva la forchetta di plastica tra le dita tremanti e portava il contenuto alle labbra molto lentamente, quasi temesse di rovesciarselo addosso in quei venti centimetri di distanza. Jason lo riconobbe unicamente grazie a qualche ciocca di capelli rossi che sporgeva fuori dalle bende e al colore dell’occhio sinistro, di un’inconfondibile sfumatura nocciola; l’altro era coperto, come pressoché tutto il resto del viso tranne naso e bocca, da spesse garze bianche. Anche le braccia, il collo e, immaginava, il busto, quest’ultimo celato dalla classica tunica azzurrina da ospedale, erano completamente fasciati da bende, tanto che sembrava una mummia.
    Il moretto si avvicinò al vetro e appoggiò una mano su di esso. Serrò le labbra e i lineamenti del viso si deformarono in una smorfia disperata. Il naso iniziò a prudere, le lacrime caddero un po’ sulle guance e un po’ sul pavimento e i denti si conficcarono nella lingua per fermare i sofferenti pigolii che rotolavano, suo malgrado, fuori dalla bocca ogni volta che respirava.
    Dominic alzò per caso la testa e, vedendolo, si pietrificò. Dopodiché, scansò bruscamente il braccio del tavolino collegato al letto, così che i piatti rovinarono sul pavimento, e protese una mano verso di lui, in un esplicito invito a raggiungerlo.
    Il diciottenne non se lo fece ripetere. Si fiondò con impeto sulla porta, irruppe piangendo nella camera e volò dritto sul letto del boss, fra le sue braccia pronte ad accoglierlo. Non badò al grugnito di dolore che Dominic emise quando si spalmò su di lui, troppo occupato a frignare con il volto affondato nel suo collo per accorgersi di altro. Le spalle erano scosse da forti singulti, il respiro era affannato e la faccia congestionata dal pianto, ma al trentaduenne non importava.
    Era stato in ansia per giorni, impossibilitato a vederlo e a toccarlo, e adesso il suo adorato Jason era lì con lui, la sua personale medicina contro i cattivi pensieri. Lo coccolò per svariato tempo, tentando di calmarlo con innumerevoli carezze e baci, poi lo scostò per guardarlo meglio e affogare nelle iridi lucide del ragazzino che amava.
    “Come stai?”
    “Malissimo…” borbottò singhiozzando e tirando su col naso. “E tu?”
    “Così così.” sorrise e l’occhio visibile si riempì di una luce calda e dolce.
    “Hey, tu!” una voce maschile interruppe la scena idilliaca e indispose non poco Rinaldi.
    Jason sussultò, ma il rosso lo baciò sulla fronte. “Che c’è?” sibilò in seguito allo scagnozzo.
    “Boss… ecco, io…”
    “Lui può restare. Tu va’ fuori.” ordinò perentorio e quello, seppur chiaramente scontento, eseguì.
    “Scusami, non volevo disturbare. Hai bisogno di riposo.” mormorò mesto il moretto, mettendosi a cavalcioni su Dominic e sdraiandosi sul suo torace ampio.
    “Non dirlo nemmeno. Non vedevo l’ora di riabbracciarti.”
    “Cosa è successo?”
    “Una clan rivale ci ha attaccati nel tragitto di ritorno dall’aeroporto e siamo rimasti feriti. Il mio autista, però, è morto.”
    Jason corrugò le sopracciglia e posizionò la testa sotto il mento del maggiore. “Io ricordo che mi hai fatto scudo da qualcosa, ma è tutto confuso.”
    “Già… prima siamo stati investiti, poi un tizio ha sparato alla limousine, che si è incendiata.”
    “Allora perché io non ho ustioni?”
    “Perché ti ho scaraventato sull’asfalto prima che accadesse l’irreparabile.” intrecciò le loro mani e condusse quella di Jason alla bocca, deponendovi sopra un casto bacio.
    Il risultato di quella sconcertante rivelazione fu che il piccolo scoppiò di nuovo a piangere, insultandolo coloritamente per la sua stupidità e avventatezza. Dominic ridacchiò e rinsaldò la presa sul suo esile corpo, segretamente commosso per quell’eclatante dimostrazione di affetto.
    “Lo rifarei altre mille volte, Jason. A costo di rimanerci secco.”
    “Idiota!” protestò fiacco il giovane.
    “La sola cosa che conta è che tu stia bene.”
    “No, cazzo! Ne usciremo insieme, ti aiuterò io!” dichiarò con un broncio, a parere del mafioso, schifosamente illegale e costui fece piovere cascate di baci ardenti su quelle labbra carnose e seducenti.
    “Mi farai da crocerossina?” lo stuzzicò divertito.
    “Farò ciò che è necessario. Non ti lascio.”
    “Ah, Jason. Sei conscio delle implicazioni delle tue parole? Mi fai illudere, sai?”
    “Sì, lo so. Però sappi che non lo faccio per gratitudine.”
    “Ah, no? Per cosa, dunque? Spirito da buon samaritano?”
    Jason negò e nascose il viso con i capelli. “Lo faccio perché ti amo, scemo.”
    Dominic restò di sasso, basito davanti a quella confessione piombata giù dal cielo come una folgore divina. Il suo cuore perse un battito, per poi cominciare a pompare sangue con estrema rapidità: l’emozione rischiava seriamente di provocargli uno svenimento.
    “Davvero?” soffiò esitante, con giusto un filo di voce.
    Il moro si sollevò e lo squadrò accigliato. “Secondo te, potrei mai scherzare su una cosa del genere?”
    A quel punto il boss non riuscì più a reprimere i sentimenti che gli vorticavano impazziti nell’anima e li rigettò all’esterno con una lacrima di pura felicità e un grande sospiro, come se fosse riemerso da una prolungata apnea. Jason strabuzzò gli occhi per la sorpresa e asciugò la guancia dell’altro con il pollice, incredulo e spiazzato. Tuttavia, un secondo più tardi si sciolse in un sorriso e lo baciò con delicatezza, mentre le mani andavano a circondargli il volto bendato con attenzione.
    “Torniamo a casa insieme, bambinone.”
    “Non fraintendere, moccioso: questa sarà l’unica volta in cui mi vedrai in questo stato pietoso. È per colpa dello stress accumulato, che credi?”
    “Sì, lo stress, va bene.” annuì accomodante e per ripicca Dominic gli diede alcuni pizzicotti sui fianchi. “Ok, ok! Sei un uomo virile, sei così maschio che pure un sex symbol come Brad Pitt dovrebbe inchinarsi e fare tanto di cappel-ahi! Basta!”
    Nella stanza presto si diffusero le risate di Jason e per Rinaldi non esisteva musica più soave in tutto l’universo.

    Dominic venne dimesso quattro mesi dopo. Il dottore gli disse che avrebbe potuto proseguire la terapia a casa, rispettando tutte le istruzioni del caso, e che qualcuno avrebbe dovuto assisterlo costantemente. Suo padre gli telefonò per avvertirlo che un’infermiera qualificata sarebbe venuta alla villa di famiglia per lui, ma Dominic rifiutò categoricamente, spiegandogli che invece sarebbe tornato all’appartamento che condivideva con il suo amante.
    “E’ troppo pericoloso, Dominic!” si impose il capoclan. “E’ in corso una guerra, non puoi permetterti di fare i capricci. Tu tornerai nella casa dove sei nato e cresciuto, non transigo. È per la tua incolumità.”
    “Basterà che alcuni dei miei vengano a vivere nella palazzina di Jason, ci sono tanti monolocali liberi.”
    “No! Lì mancano gli impianti di sicurezza, come faccio a starmene tranquillo sapendoti in quel postaccio lurido e marcio?!”
    “Quel postaccio lurido e marcio è casa mia, ora, che ti piaccia o no.”
    “E pensi che un ragazzino incompetente possa prendersi cura di te, nelle tue condizioni?”
    “Sa il fatto suo e mi fido più di lui che di un’estranea, per quanto ‘qualificata’.” la verità era che sì, poteva riporre senza esitazione la propria vita nelle mani di Jason, ma in realtà, la ragione sottintesa per cui voleva restare con lui, era per non abbandonarlo in quel frangente di grande pericolo, poiché i nemici avrebbero potuto prenderlo in ostaggio per ricattare la famiglia ed era precisamente l'eventualità che voleva in tutti i modi scongiurare. Non si sarebbe mai perdonato se al suo compagno fosse successo qualcosa di brutto, e solo perchè era un Rinaldi. Non tollerava più che il suo destino venisse deciso esclusivamente dal nome che, per una catena fortuita e imprevedibile di eventi, gli era stato affibbiato. Era nato nella mafia non per sua scelta, quindi desiderava essere libero di disporre come gli pareva del suo futuro. In più, purtroppo si era reso conto che le parole 'Jason' e 'mafia' non potevano stare nella medesima frase, se non per negarsi ed escludersi a vicenda.
    “Figlio mio,” lo senti sospirare attraverso la cornetta, “sei il mio erede, lo sai. Finora ho sempre chiuso un occhio sulle tue preferenze sessuali e sulla tua discutibile condotta, ma questa storia non potrà continuare in eterno. Presto dovrai sposarti e sfornare il prossimo erede dei Rinaldi, perciò dovrai lasciare il tuo amante e prenderti le tue responsabilità in quanto boss.”
    Dominic rimase in silenzio, il cellulare all’orecchio e l’espressione indecifrabile. “Allora rinuncio alla mia carica.” affermò neutro.
    “Cosa?! Non puoi! Per diritto di nascita, sei tu il prossimo capoclan! Suvvia, non uscirtene con certe idiozie!”
    “Mi rifiuto di lasciare Jason, papà. Non intendo sposarmi e neanche avere dei figli, penserà Maria a garantire una successione.”
    “Tua sorella non è la primogenita e i suoi figli non porteranno il cognome Rinaldi!”
    “Sì, se la unisci in matrimonio con un cugino. La soluzione c’è e ti conviene accettarla, perché comunque io ho deciso.”
    “Dominic, non sono d’accordo. Io sono vecchio e la famiglia ha bisogno di un leader carismatico. Gli uomini si fidano di te, nutrono un enorme rispetto per te, non tradirli adesso.”
    “Non si tratta di tradimento, papà!” esclamò esasperato. “Il fatto è, semplicemente, che tra la famiglia e l’amore ho scelto l’amore. Fine. Mi tiro fuori, se non ho alternative.”
    “Potrei ordinare di uccidere Jason.”
    “E io ucciderei te.”
    Seguì una pausa, poi Rinaldi padre tornò a parlare: “E sia. Ti disconosco come figlio ed erede, renderò la cosa ufficiale domani. Dalle prime luci dell'alba sarai considerato morto, un reietto, e cambierai identità perché Dio solo sa se premerei il grilletto per spedirti all'altro mondo se continuerai a usare quello che la tua egregia madre ti ha donato. Hai tempo un mese per lasciare la città, anzi il Paese. Ti comprerò due biglietti, per te e per il tuo amante, per l’Europa e non voglio che metti più piede in America, mi hai capito? Inoltre, ogni contatto con me, con tua madre, con tua sorella o qualunque parente sarà severamente proibito, dovrai tagliare tutti i ponti e perdere le tue radici. Ti sta bene?”
    “Sì. Grazie, papà.” il suo vecchio lo aveva salvato, seppur a modo suo. Sfruttando la sua posizione nella famiglia, cancellare tutte le sue tracce non si sarebbe rivelata un'ardua impresa e presto, pur senza un nome o una casa a cui fare ritorno, sarebbe stato svincolato dai propri obblighi. E poi, cambiando identità, nessuno lo avrebbe trovato o sarebbe comparso a rompergli le scatole, amici o rivali che fossero.
    “Non ringraziarmi, figlio degenere. Non voglio saperne più niente, me ne lavo le mani.” grugnì burbero e riattaccò.
    Dominic sorrise contento e, una volta tornato da Jason, gli comunicò la notizia e il piccolo pianse abbattuto, singhiozzando che gli dispiaceva, che era colpa sua, ma il più grande lo rassicurò baciandolo e spiegandogli che non gli importava.
    Trascorse le giornate seguenti a letto come un infermo, mentre il moretto si affaccendava come una trottola in qua e in là per curarlo nel modo corretto ed esaudire ogni suo desiderio. In pratica, si trasformò in una zelante servetta, ma se pensava che si stava facendo il mazzo per il suo fidanzato iniziava a gongolare come uno stupido e diveniva improvvisamente bisognoso di coccole. Passò una settimana e all’ospedale rimossero le garze sul viso, sul collo e sulle braccia, dove le ustioni erano meno gravi ma pur sempre evidenti, e quando varcò di nuovo la soglia dell’appartamento Jason si portò le mani alla bocca per soffocare un urlo.
    La parte destra della faccia era deturpata, l’epidermide irregolare e arrossata, e l’iride destra aveva assunto un colorito celeste, indice di cecità. Il sopracciglio sopra l’occhio era sparito, come anche una parte del cuoio capelluto intorno alla tempia. L’ustione si propagava poi sul collo, da sotto l’orecchio dalla forma non più rotonda fino alla clavicola. La maglietta copriva le bende che ancora gli fasciavano il busto e Jason non volle immaginare che razza di orribili ferite nascondevano. Il naso e la bocca, per fortuna, erano rimasti intatti, ma le braccia presentavano segni di bruciature a chiazze.
    Il trentaduenne, a disagio per il puntiglioso esame a cui il ragazzo lo stava sottoponendo, ridacchiò nervoso e distolse lo sguardo imbarazzato.
    “Suppongo che mi farò crescere i capelli, così mi faccio la riga da una parte e celo questa faccia ributtante con la mia bella chioma fulva.” scherzò.
    Jason gli saltò in braccio con uno slancio e invase la sua bocca con la lingua, nell’intento di trasmettergli il suo amore.
    “Scemo, cosa vuoi che me ne freghi del tuo aspetto? Questa è la prova che mi hai salvato, non potrei mai provare disgusto.”
    Dominic tenne a freno la commozione e ricambiò il bacio con passione, facendo aderire il suo corpo a quello del giovane.
    “Ti fa male?” domandò quest’ultimo, sfiorando le ustioni.
    “No, ma la pelle è ancora molto sensibile. Dovrò spalmarci una pomata speciale per un po’.”
    “Le altre fasciature quando te le levano?”
    “La settimana prossima. E quella ancora dopo partiamo per Venezia.”
    “Già, che bello! Sono contento di andare a vivere in quella città, mi piace un sacco! Anche se non me la cavo con l’italiano…”
    “Imparerai lì. Ce la caveremo, vedrai.”
    “Lo so, andrà tutto bene.” sorrise candido e seguitò ad accarezzare il viso sfigurato di Rinaldi, che cominciò a fare le fusa compiaciuto come un gatto.
    “Jason?”
    “Mh?”
    “Voglio scoparti.”
    “No!” sbottò il moretto. “Solo quando sarai guarito del tutto, era il nostro patto.”
    “Ma…” il rosso lo fissò con occhi da cucciolo e il labbro inferiore sporgente, “ma… ho tanta voglia! Sai da quanto sono in astinenza?” si lagnò.
    Jason prese un profondo respiro. “D’accordo, siediti sul letto.”
    “Lo facciamo?” chiese Dominic ringalluzzito.
    “Tu siediti e stai zitto.”
    “Perc-”
    E zitto.” scandì minaccioso.
    “Ok, ok, capito.”
    L’ex boss obbedì e si accomodò sulla sponda del letto, curioso di scoprire cosa avesse in mente quello scricciolo d’uomo. Egli non lo fece attendere e si inginocchiò fra le sue gambe, sbottonò la patta dei pantaloni ed estrasse il membro semieretto di Dominic. Questi afferrò subito le intenzioni di Jason e rimase a bocca aperta quando il diciottenne accolse il sesso turgido nella sua. Succhiò e pompò a ritmo serrato fin dai primi istanti, in maniera tale da regalargli l’orgasmo che bramava senza tenerlo sadicamente sulle spine. Lo inglobò tutto fino alla base, poi lo sfilò lucido di saliva, la punta arrossata e prossima ad esplodere. La leccò con solerzia, assaporando il sapore dell’amante per la prima volta e trovandolo assai erotico. Era lungo una ventina di centimetri e grosso quanto il suo pugno, la forma era perfetta e solo quando lo aveva preso fra le labbra aveva realizzato per quanto avesse desiderato farlo. Mentre lavorava sull’asta dura e pulsante con la lingua, pensò di essere veramente un pervertito, ma non gli dispiaceva se si trattava di Dominic. Non appena si fosse ristabilito, gli avrebbe concesso tutto se stesso, corpo, anima e cuore, e quello non era altro che un assaggio.
    Dominic si svuotò con un rantolo nella gola di Jason, il quale ingoiò il suo seme con disinvoltura, prodigandosi poi a pulirlo di ogni traccia di liquido perlaceo con meticolosità.
    “Cazzo, sei arrapante…” ansimò il rosso, osservandolo rapito dall’alto.
    “E ancora non hai visto niente.” sogghignò in risposta, provocando nell’altro una scarica di brividi di eccitazione. “Va meglio?”
    “No…”
    “Pace. Sii paziente, su.”
    “Non posso fare altrimenti, purtroppo.” convenne mogio e sbuffò scocciato.

    La gondola scivolava ondeggiando sul placido Canal Grande con terribile lentezza. Il cielo notturno era punteggiato di stelle, una sottile nebbiolina accarezzava la superficie dell’acqua scura e le luci provenienti dalle case e dagli appartamenti che si affacciavano sul fiume si specchiavano in essa, creando un’atmosfera magica e surreale che si rifletteva su tutto il paesaggio.
    La tensione sessuale fra Dominic e Jason era così opprimente che i due evitavano addirittura di guardarsi, onde scongiurare azioni indecenti ed evitare di avviticchiarsi l’uno sull’altro per indugiare in pratiche vietate ai minori.
    Giunsero ad una lussuosa villa in stile rinascimentale, con tanto di portico e loggia interna, e lì un impiegato dell’azienda immobiliare con cui avevano preso accordi li aspettava per consegnare loro le chiavi. Li salutò con un sorriso cordiale, chiamandoli "Signor Lee e signor Rey", e parlò in un perfetto inglese, offrendosi di mostrargli la casa ed aiutarli a portare dentro i bagagli.
    “No!” esclamarono in coro.
    L’uomo rimase interdetto.
    “Cioè, non serve…” Jason Lee arrossì.
    Dominic Rey lo liquidò in quattro e quattr'otto, agguantando le chiavi e catapultandosi in casa seguito a ruota dal compagno. Non compirono neanche quattro passi, che il rosso schiantò il moretto su un muro e gli sollevò le gambe per farsele avvolgere intorno alla vita.
    “Mmm… Dom… Dom!”
    “Eh?” bofonchiò, concentrato a cospargergli il collo di succhiotti.
    “Camera. Letto.”
    Rinaldi barcollò su per le scale di pietra ai margini del loggiato e appoggiò Jason alla porta di legno massiccio dell’ingresso, cercando, mentre lo divorava, di aprirla con la chiave - operazione che gli fece sprecare preziosi minuti. Finalmente la serratura scattò e i due amanti irruppero in quello che era il salotto, ovverosia una mastodontica sala che in passato veniva usata probabilmente per i balli e i ricevimenti degli aristocratici.
    “Sbrigati!” gemette il diciottenne impaziente e il rosso notò un divano color porpora, senza dubbio un costoso pezzo d’antiquariato, posto di fronte alla finestra che aggettava sul canale.
    Ci si precipitò con foga e ci scaraventò sopra un eccitato Jason, stupendosi di quanto sapesse risultare sexy e lascivo in quei frangenti intimi. Si spogliarono a vicenda e una volta nudi iniziarono a strusciarsi e a mugolare, consapevoli che un così misero contatto non bastava a placare i loro bollenti spiriti.
    Dominic aveva dovuto aspettare più a lungo del previsto, poiché le ustioni avevano richiesto più cure e svariati controlli. Così, si erano messi in viaggio prima di concludere qualcosa e tenere al guinzaglio il desiderio si era rivelato estenuante per entrambi. Ma adesso l’attesa era terminata.
    Il rosso si leccò le dita e le infilò senza preavviso tra le natiche di Jason, che si lasciò sfuggire un gemito di pura libidine.
    “Sbrigatiiii!” ripeté ormai al limite, scuotendo la testa da un lato e dall’altro in deliquio.
    Dominic imprecò, gli artigliò i fianchi e lo issò su di sé, facendolo sedere sulle proprie gambe. Il giovane lo baciò con ardore e, con l’aiuto delle mani, si impalò sull’erezione dell’amante, sciogliendosi in un grido di goduria.
    “Oh, sì!”
    “Tutto ok?” domandò apprensivo il compagno e prese a massaggiargli le cosce per rilassarlo.
    “Fa un po’ male, ma chissenefrega! Scopami, ti prego!” implorò chiudendo gli occhi, rovesciando il capo all’indietro e ruotando il bacino con movimenti ellittici.
    “Piano… piano.” il rosso tentò di rallentare, tuttavia Jason pareva partito.
    “No, più forte! Più veloce!”
    Allora schioccò la lingua e assestò una potente spinta nelle carni del ragazzo, che ululò compiaciuto. L’amplesso si ridusse ad una sequenza ininterrotta di stoccate, di rumori di pelli sudate che sbattevano l’una sull’altra, gemiti strozzati e baci appassionati.
    Le mani di Jason correvano veloci sul petto del maggiore, gentili e dolci sulle bruciature e sulla superficie liscia di quelle indelebili cicatrici. La parte destra del corpo di Dominic era quasi completamente andata, dalla testa ai piedi, ma non era il momento di rivangare i tragici ricordi dell’incidente. Lo cavalcò con furia, desideroso di raggiungere l’apice, penetrandosi da solo sul sesso rovente dell’ex mafioso e trasformandosi in una creatura seducente e bellissima.
    Dominic si incantò a contemplare il viso del piccolo, perso nei meandri del piacere, si beò dei versi osceni che emetteva e si morse la lingua quando egli si aggrappò alle sue spalle per venire con un grido, riversando lo sperma in caldi fiotti sul suo ventre. A quella visione non resistette ed esplose dentro di lui con un sonoro gemito soddisfatto. Però, allorché Jason se ne uscì supplicando con un “Riempimi, dilaniami, sfondami!”, percepì i lombi contrarsi di nuovo e l’orgasmo ricominciare con la medesima intensità del precedente. Sgranò gli occhi e si irrigidì, abbarbicandosi all’altro per timore di affogare.
    “Dio!” ringhiò un’ultima volta, per poi accasciarsi spompato sullo schienale del divano.
    Ho avuto un orgasmo multiplo. Ho appena avuto un fottuto orgasmo multiplo!
    “Chiamami Jason, tesoro.” ghignò il diciottenne e Rinaldi lo fissò allibito. “Il secondo round in camera e sopra ci stai tu. Mi fanno male le gambe.” lo baciò e strinse i muscoli dell’ano per far risvegliare ancora il membro di Dominic. “Ti amo.” bisbigliò timido e nascose il viso paonazzo nell’incavo del collo dell’altro.
    Questi sbuffò divertito e ridacchiò: “Sei incredibile.”
    Fino all’alba consumarono il loro amore, mai paghi dei baci e delle carezze che per tutta la notte si scambiarono senza fretta. Il sole sorse su Venezia, preludio del giorno e di un nuovo inizio.
     
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  4. Lady1990
     
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    “Ora basta! Me ne vado!”
    “Harvey, aspetta! Aspe-”
    La porta si chiuse con un boato e Dorian sussultò come se fosse stato colpito con la medesima forza. Schioccò la lingua e strinse i pugni affranto, il senso di colpa che lo divorava dall’interno e faceva a pezzi ogni giustificazione che cercava di avanzare in propria difesa.
    Tutto era scaturito da un’innocente domanda, posta mezzora prima con voce altrettanto serena e tranquilla: “Andiamo al mare questo weekend?”
    E la conseguente, mortificata risposta: “Mi dispiace, non posso. Ho una riunione di lavoro con alcuni clienti e…”
    “Ma la scorsa settimana avevi detto che ti stava bene, che eri libero!”
    “Lo so, Harvey, lo so.” Dorian si era grattato la fronte con la strana impressione di stare affogando e annaspava nell’intento di scovare una ragione valida per spiegare l’improrogabile impegno. “Però sai anche che non ho il pieno controllo della mia agenda, è la mia segretaria che se ne occupa insieme ai capi. Non posso rifiutare, ne va della mia carriera.”
    “Signor King, mi ascolti attentamente.” aveva proferito il ballerino in tono minaccioso, ergendosi in tutta la sua statura. “Ha idea di quanto tempo è trascorso da quando abbiamo condiviso anche una misera oretta in compagnia l’uno dell’altro?”
    “Mmm… la notte passata, mi sembra.”
    “Stavamo dormendo! Non è la stessa cosa. Va bene, d’accordo, te la metto così: quanto tempo è trascorso dall’ultima volta che abbiamo scopato?”
    “Ah…” il moro arrossì, all’improvviso memore di tutte le posizioni e di tutte le grida imbarazzanti a cui Harvey lo aveva costretto, non che a lui fosse dispiaciuto. “Beh… ecco…” rifletté a fondo, ma lo smarrimento gli si leggeva in faccia.
    “Il fatto che non te lo ricordi è già di per sé indicativo, ma ti fornirò io la risposta: un mese. Un dannatissimo mese! Anzi, se vogliamo essere pignoli, un mese, quattro ore e trenta minuti!” sbraitò ferito, scaraventando il tovagliolo sul pavimento e la forchetta nel piatto, che stridette fastidiosamente.
    Quella tranquilla colazione li trasformò nei protagonisti del primo, vero litigio, con Harvey in vantaggio schiacciante su un Dorian scioccato e balbettante.
    “Siamo uomini, non è normale!” attaccò lo spogliarellista, ma l’amministratore delegato non incassò.
    “Mi sento in dovere di obiettare, perché io sono stato circa due anni a riposo e non è stata una tortura insopportabile.”
    “Allora tu non sei normale!”
    “Hey!” scattò risentito, alzandosi in piedi per fronteggiare il castano alla pari.
    “Io ho bisogno di sesso, signor King. Sesso. S-E-S-S-O. Oltre che ad essere una pratica estremamente piacevole, per me è pure una valvola di sfogo, un antistress. Se mi astengo troppo a lungo, accumulo lo stress, accumulo, accumulo, finché non scoppio. E, ancora, se scoppio mentre sei nei paraggi, corri il serio pericolo che ti apra il culo in due, sottraendoti le facoltà motorie per una settimana abbondante. Per questo, se tu ti lasciassi prendere almeno, dico almeno!, una volta a notte, la bestia che c’è in me non uscirebbe ed io sarei in pace con il mondo dalla mattina alla sera e non schizzato come sono adesso!”
    “Mi stai dicendo che…” Dorian impallidì e deglutì intimorito, “sono a rischio stupro?”
    “Corretto.” annuì solenne e lo trafisse con le due gemme dorate e animalesche che aveva al posto degli occhi. Poi lanciò uno sguardo all’orologio appeso al muro e sbuffò: “Ora devi andare in ufficio e non ti fermerò, ma quando rincasi, e fallo presto, ti lego al letto.” dichiarò imbronciato.
    “Harvey, per favore, non dipende da me. Ho un lavoro che assorbe quasi tutte le mie energie e sono perennemente esausto. Perdonami, però non posso uscirne.” un pensiero lo fulminò e le iridi azzurre vennero attraversate da un guizzo. “No, forse un modo c’è… mmm…”
    “Guarda che se non vuoi ripetere l’esperienza di qualche mese fa, ti conviene darmi retta.” gli suggerì.
    “Quale esperienza?” Dorian lo scrutò interrogativo e piegò la testa di lato.
    Harvey ghignò, si diresse alla finestra del salotto, si girò verso il compagno ammutolito e perplesso e si appoggiò con la schiena al vetro, divaricando le cosce in una posa oscena. Dopodiché si esibì in una sequela di gemiti e versetti, ondeggiando i fianchi in maniera eloquente.
    “Harvey, sì! Ohh, di più! Ah, sì! Sì! Sì!” imitò la voce del moro esagerandola apposta, rivangando la sera che si era presentato a sorpresa nell’ufficio di Dorian e se lo era fatto sulla scrivania, e non solo.
    L’altro divenne paonazzo e si agitò come una donnetta isterica: “Ok, ok! Basta, ho capito!”
    “Scopiamo?”
    “Devo andare, non c’è tempo.”
    Il ballerino si infilò la mano nei pantaloni larghi della tuta e cominciò ad accarezzarsi sfrontato, provocandolo per farlo capitolare.
    “Cristo, Harvey! Se sei ninfomane, non è colpa mia!” esclamò allibito.
    Harvey scrollò la testa e sbuffò. “Non sono ninfomane, ho solo voglia di te, per la miseria! È così difficile arrivarci?”
    “Se tu lavori di notte e io di giorno, non c’è nulla che possa fare.” tentò di spiegargli. “Torni quasi sempre verso le tre o le quattro del mattino, mentre io mi sveglio alle sei.”
    “Significa che non proverai nemmeno a trovare del tempo da dedicarmi? Cosa sono, la tua sgualdrina?” sibilò collerico.
    “Semmai dovrei essere io a dirlo. Sembra interessarti soltanto montarmi come una cagna in calore! Tutto ciò che pensi quando sei con me è il sesso, a questo punto comprati una bambola gonfiabile.” asserì innervosito, ma l’istante successivo si zittì e si morse la lingua.
    Il castano rimase in silenzio, l’espressione granitica e gli occhi, di solito caldi e famelici, gelidi e distanti. Poi inarcò un sopracciglio e scandì: “Odi così tanto fare sesso con il sottoscritto?”
    “No, scusa, mi dispiace.” esalò colpevole. “Non volevo dire questo, davvero.” si tolse gli occhiali e si massaggiò stancamente l’attaccatura del naso.
    “Non vuoi che ti tocchi? Ti ripugna?”
    “No! Harvey, ti prego, ascolta…”
    “Affermasti di amarmi. Ti sei sbattuto non poco per corteggiarmi e ora non vuoi più stare con me?”
    “No, cavolo! Fammi finire di parlare!”
    “Preferisci il tuo fottuto lavoro a me, giusto? Non ti curi neanche di tornare in orario, non ti passa di striscio per l’anticamera del cervello che io possa aspettarti qui ogni giorno per cena, nella speranza di salutarti prima di andare al Maiden’s, desideroso di vederti sveglio, baciarti e fare il pieno del tuo odore così da non sentirne la mancanza fino all’alba. Inoltre, mi sveglio con te ogni mattina, non so se lo hai notato, per fare colazione insieme, altrimenti mi parrebbe di vivere con un fantasma.”
    Dorian sentì con chiarezza il cuore comprimersi dolorosamente e percepì le prime avvisaglie del pianto farsi strada dal petto.
    Harvey aveva ragione. Era sempre oberato di lavoro, si stava facendo monopolizzare e non compiva alcuno sforzo per liberarsi entro le sette per correre a casa tra le braccia dell’uomo che amava. La domanda era: perché?
    Eppure, da quando lo spogliarellista si era trasferito nel suo appartamento si sentiva la persona più felice dell’intero universo, non poteva chiedere di più. Ogni volta che quello lo baciava, lo sfiorava, gli sussurrava porcate all’orecchio con la sua voce sensuale, bassa e roca, si rimescolava da capo a piedi come una ragazzina, il fiato corto per l’emozione e i brividi sulla pelle a causa di un’eccitazione incontrollabile.
    “Scusami, io… ti amo. Ti amo tanto, come e più di quando non eri ancora al corrente della mia esistenza. Ti amo, ma… non voglio rinunciare al mio lavoro.” poi si affrettò a schermirsi, le mani protese dinnanzi a sé, “Non intendo che lo preferisco a te, tu rischiari le mie giornate e mi regali la carica necessaria per affrontarle, però… il fatto è che mi piace. Io amo anche il mio lavoro, Harvey. Ho studiato molto per arrivare dove sono ora, ho faticato e ho lottato con le unghie e con i denti e finalmente mi sono realizzato. Sento di essere nato per questo e…” sospirò abbattuto e si sedette sul divano.
    Harvey lo fissava impassibile dalla finestra, forse aspettando che concludesse il discorso.
    “A dire la verità, potrei rassegnare le dimissioni, certo. Nessuno me lo impedirebbe, suppongo. In tal modo avrei più tempo per te, per costruire qualcosa di solido insieme, eccetera.” considerò ad alta voce, i gomiti sulle ginocchia e le mani a sorreggere il mento. “Ti amo. Se tu me lo chiedessi, lascerei la mia posizione senza indugi, per farti felice. Tuttavia, francamente io non lo sarei altrettanto.” sollevò lo sguardo per intercettare il gemello, ma Harvey aveva chiuso le palpebre. “Si dice che si è disposti a tutto per amore e posso confermare che è così. Se tu sei felice, io sono felice. Anzi, una parte di me sarebbe felice, l’altra soffrirebbe.”
    “Quindi, non vedo opzioni alternative, Dorian.”
    “Mh?”
    “Scegli: o me o il lavoro. Se sceglierai il lavoro, se lo desideri potremmo continuare a vederci saltuariamente, ma solo come amici che ogni tanto scopano. Non avrai una relazione e se troverò qualcun altro, ti pianterò senza rimorsi e senza pensarci due volte. Se, invece, sceglierai me, trascorrerò il mio tempo libero, e ne ho tanto come ben sai, con te.”
    Dorian balzò su e lo incenerì, rabbioso. “Come puoi chiedermi una cosa del genere? Come puoi?! E vivresti sereno, sapendo che sono infelice?”
    “Saresti infelice di stare con me?”
    “Cazzo!” imprecò il trentottenne e quando diventava volgare significava che l’ultima goccia aveva fatto traboccare il vaso. “No, sarei felice di stare con te, ma non completamente. Sarei… insoddisfatto. Io mi sono fatto il mazzo per quasi quarant’anni e dovrei buttare tutto all’aria per un tuo capriccio?”
    “Hai scelto il lavoro, vedo. Bene, ne ho abbastanza.”
    “Harvey, ragiona. Ti supplico, fermati e parliamone con calma.” lo pregò con voce tremante. “Se è il sesso che vuoi, ti prometto che te lo darò. Ma se non te ne frega niente del mio cuore, allora non obbligarmi a questa scelta. Cosa ci guadagno? Il mio futuro sarà divenire la tua domestica, che ti prepara i pasti e apre le gambe quando ti stuzzica? Se mi proponi queste stronzate, è ovvio che non mi ami e che non ti importa niente della mia felicità. Dimostri di essere solo un bambino egoista.”
    Le iridi ambrate del castano si velarono e assunse un’aria indecifrabile. Serrò le labbra in una linea retta e camminò verso la porta.
    “Harvey?” scattò verso di lui per bloccarlo.
    “Ora basta! Me ne vado!”
    “Harvey, aspetta! Aspe-”
    Dorian contemplò la porta d’ingresso per interminabili minuti, sperando che il ventiseienne risbucasse da un momento all’altro, ma ciò non avvenne. Si asciugò con le dita gli occhi umidi di lacrime e inspirò con forza per regolare il respiro affannato. Controllò distrattamente l’ora e si accorse di essere in ritardo, eppure il suo corpo si mosse a rallentatore. Afferrò la giacca dall’attaccapanni, le chiavi, la valigetta e uscì, per la prima volta con una sensazione di estraneità, come se fosse un robot programmato per compiere esclusivamente quei gesti automatici.
    Già all’inizio di quell’indefinibile rapporto con Harvey aveva trascritto mentalmente una lista di problemi in cui sarebbero potuti incappare e l’incompatibilità delle rispettive routine era uno di questi. Veramente non esisteva una soluzione? Era tutto destinato a sgretolarsi sin dal principio?
    Mentre guidava verso la sede della Microsoft, Dorian rifletteva ostinato. Lo spogliarellista era un tipo arrogante, sfacciato, egocentrico, pieno di sé, infantile, disordinato, un maniaco pervertito e lui ne era stato consapevole fin dai primi, impacciati approcci. Però, nonostante il carattere difficile, lo aveva sempre trovato adorabile e affascinante e l’amore che provava per Harvey aveva surclassato tutto il resto, accantonando per un breve periodo le loro spiccate differenze in ogni ambito della vita. D’altronde, Dorian era adulto, si stava avvicinando ai quaranta e il divario di maturità tra lui e il ventiseienne era notevole. Non che reputasse Harvey uno stupido, solo che… beh, erano un po’ come il diavolo e l’acqua santa, l’alfa e l’omega, e non c’era possibilità che i loro mondi si congiungessero in armonia.
    La rottura era inevitabile. O no?
    Il moro si mordicchiò assorto il labbro inferiore e parcheggiò la macchina nel garage del personale dell’azienda. Pochi minuti dopo sedeva sulla poltrona nel suo ufficio, un’idea precisa in testa e il proposito di portarla a termine più vivo che mai. Era l’unica maniera per risolvere la questione spinosa e il successo sarebbe dipeso solo dalle proprie indiscusse capacità. Non per nulla lo avevano soprannominato ‘Il pescecane’.
    Le settimane scorsero all’insegna di colloqui con facoltosi clienti e chiacchierate con i direttori della Microsoft, pienamente soddisfatti del lavoro impeccabile svolto da Dorian, ma l’ultimo gradino da superare per raggiungere il traguardo era un altro. Da anni l’azienda aveva messo gli occhi avidi sul proprietario di una compagnia petrolifera, che era risaputo essere il beniamino della concorrenza. In particolare, costui era in affari con l’oriente e finora ogni tentativo, ogni trattativa intavolata era finita con un buco nell’acqua. Dorian aveva ormai acquisito una certa dimestichezza ed esperienza con gli azionisti, tanto che aveva già abbondantemente cessato di dubitare di se stesso e delle proprie notevoli potenzialità, così decise di osare. Era ottimista e fiducioso del proprio talento, in pochi potevano vantarsi di possedere le carte in regola per rivaleggiare con lui.
    Si era sfregato le mani e aveva partecipato a svariati ricevimenti a Mosca e a Shangai per stabilire un contatto con Yovetisch, suddetto magnate del petrolio, intenzionato a strappargli una firma per un contratto con la Microsoft. Era un azzardo che, in caso di fallimento, gli avrebbe creato non poche grane. Lo scopo era convincerlo a investire sull’impresa tecnologica e mostrargli i vantaggi che questo gli avrebbe procurato se avesse cambiato bandiera.
    Gli occorsero numerose cene su yacht e in resort di lusso, partite a poker clandestino, visite a bordelli illegali di alto rango, cospicue mance, una guardia del corpo e un’enorme dose di coraggio, ma alla fine, dopo un mese circa di incontri pubblici e privati, Yovetisch fu persuaso a firmare e Dorian tornò in patria distrutto ma vittorioso, schiaffando sulle facce rubizze e basite dei capi il certificato che attestava l’adesione del magnate industriale alla loro azienda. L’encomiabile operato del moro fu retribuito proprio come egli aveva immaginato e, dopo squisiti rinfreschi e feste a base di champagne e caviale, i direttori gli strinsero la mano e lo nominarono socio.
    Settembre era alle porte.
    Durante la transazione d’affari, Dorian aveva strenuamente resistito alla tentazione di telefonare ad Harvey e costui non si era fatto sentire nemmeno con un messaggio, segno che presumibilmente si rodeva ancora il fegato dalla rabbia e dal rancore. Tuttavia, ora che aveva scalato la vetta, aveva tutto il tempo per rimettere insieme i cocci, ammesso e concesso che il ballerino non lo rifiutasse. Lo chiamò sul cellulare e al locale, ma nessuno alzò mai la cornetta, ma se lo spogliarellista credeva di metterlo a tappeto comportandosi da fidanzata permalosa si sbagliava di grosso. Oh, se si sbagliava.
    Niente e nessuno è in grado di arrestare Dorian Taylor King, una volta che si è fissato su qualcosa. Se lo vuole, lo otterrà.
    Rivoleva Harvey? L’avrebbe riavuto.

    Il ragazzo inginocchiato fra le sue gambe, conquista neanche tanto sudata della serata, si dava da fare con la bocca sulla sua erezione, spedendogli scariche di piacere in tutto il corpo. Harvey sorrise e gettò la testa all’indietro, in estasi, mentre con la mano destra accarezzava i serici capelli neri e si rigirava le ciocche tra le dita, tirandole un poco di più allorché una fitta di godimento lo coglieva. Chiuse gli occhi e si rilassò, concentrandosi solamente sul risucchio del proprio sesso e sul calore della cavità orale di quel ragazzino senza nome. Sì, senza nome, perché non gli interessava conoscerlo né tanto meno chiacchierarci. Desiderava un’unica cosa e se la stava prendendo precisamente adesso.
    E pensare che non era partito con l’idea di terminare la nottata in quel modo. Era solo uscito con Gil e gli altri colleghi a bere in un pub, poi si erano spostati in discoteca e lì quel morettino delizioso gli era letteralmente piombato addosso, e chi era lui per declinare una simile offerta? In aggiunta, ci aveva visto giusto: con la sua boccuccia carnosa, che ispirava solo fantasie sconce, era capace di certi pompini da farti impazzire in due minuti. Gliene aveva fatto uno nel cesso della discoteca, in seguito Harvey se lo era trascinato nell’appartamento che condivideva con Gil e lo aveva invitato a ricominciare, bramoso di sperimentare il piacere carnale che gli era stato negato da un mese e mezzo.
    Gemette e gli spinse con forza la nuca verso il ventre, facendogli ingoiare tutta l’asta di colpo e schizzandogli lo sperma direttamente in gola. Il ragazzo subì docile e alla fine ripulì il membro come se si trattasse di un dolcetto. Harvey si inumidì le labbra secche e gli sollevò il mento, immergendosi in due iridi color inchiostro che gli provocarono un picco di dolore sordo al livello del cuore: per un misero istante si era illuso di trovarne un paio azzurre come il cielo.
    Seppellì il senso di colpa in un angolo della mente e issò lo sconosciuto sul letto, posizionandolo a pancia sotto. Gli divaricò le gambe, le preparò frettolosamente con le dita impregnate di saliva, indossò il preservativo e si fece largo tra i glutei sodi con un grugnito soddisfatto. Lo scopò con furia, sfogandosi di tutto lo stress e la rabbia accumulata; cercò pure di estraniarsi così da non sentire i mugolii acuti del moccioso, così diversi da quelli di Dorian, più bassi e virili. Si impuntò solo sul piacere fisico generato dall’affondare ripetutamente in quell’antro stretto e bollente, senza badare alla frustrazione che pian piano, ad ogni spinta, cresceva in lui nella consapevolezza che non era il trentottenne colui che stava possedendo come se non ci fosse un domani. Venne tra gli spasmi e dopo di lui il ragazzo moro, che soffocò gli ansiti nel cuscino. Dopodiché si sfilò lentamente e corse in bagno a farsi la doccia, ansioso di lavare via dalla pelle qualunque odore. Se fosse appartenuto a Dorian, avrebbe volentieri evitato di sciacquarsi per giorni, poiché il suo profumo naturale era qualcosa di divino, che restava impresso a fuoco nei ricordi anche se tentava di scacciarlo.
    Si morse il labbro e sferrò un pungo alle piastrelle che ricoprivano la parete del box. Non si sentiva affatto rivitalizzato come sperava, mancava qualcosa, l’elemento più importante di tutta la faccenda: Dorian.
    Era stato un idiota, quella mattina di due settimane prima. Non avrebbe dovuto andarsene, per di più fingendosi offeso. Era stata l’ultima frase dell’uomo, quando aveva tirato in ballo l’amore, a metterlo con le spalle al muro, e siccome detestava sentirsi in trappola come un topo aveva scelto la fuga. Proprio quando il gioco si era fatto duro, aveva disertato il campo di battaglia come il peggiore dei codardi. Era conscio che l’unica soluzione per rimediare ai suoi errori era tornare da lui e chiedergli scusa, ma l’orgoglio glielo impediva. Il risentimento lo stava avvelenando e una vocina nel cervello gli ripeteva che doveva essere Dorian a farsi perdonare, perché lo aveva trascurato troppo, e la sveltina appena consumata era lo scotto da pagare per non avergli dato il culo per un mese.
    Esatto, non era colpa sua, ma di Dorian.
    Allora, perché mi faccio così schifo?!
    Dopo quella notte, non vi furono altri episodi e Harvey si riscoprì con sommo stupore a non avvertirne il bisogno. Era spompato, demotivato e questo suo stato d’animo si ripercuoteva sul palco, dove al posto del ghigno seducente, capace di ingravidare nell’immediato qualunque femmina nelle vicinanze, mostrava una smorfia spenta e per nulla convincente. Ogni dannato giorno verificava le chiamate e i messaggi in entrata sul cellulare, ma dopo il primo periodo di lontananza sembrava che Dorian avesse gettato la spugna. All’inizio gongolava all’udire il trillo della suoneria, immaginandosi un disperato signor King col telefono fra le mani, magari con qualche lacrima a rigargli il viso, che implorava al vuoto il suo ritorno. Tuttavia, quando gli squilli erano scomparsi era rimasto deluso e indisposto, domandandosi se davvero a Dorian fosse servito così poco tempo per dimenticarlo.
    La risposta giunse i primi di settembre, sottoforma di un giovane in divisa da fattorino delle poste, che lo invitò a firmare su un foglio che recava il simbolo di un’associazione che non conosceva. Harvey eseguì e l’altro gli consegnò un mazzo di chiavi, che, a giudicare dalla forma, dovevano appartenere a qualche mezzo di trasporto.
    Gil si sporse dal divano, curioso e impaziente di conoscere i dettagli. Allungò il collo, sgranò gli occhi a mo’ di gufo, si appoggiò sullo schienale e fece la radiografia al fattorino. Appena egli si dileguò giù per le scale del palazzo, il castano si girò a rallentatore con le chiavi incriminate a mezz’aria e l’espressione spiazzata.
    “Hai comprato qualcosa su eBay senza dirmelo?” domandò a Gil lentamente.
    “No, tu?”
    “No.”
    “Non ti ha riferito il nome del mittente?”
    “No.”
    “Beh, non ti resta che scendere e andare a vedere di persona. Ovviamente ti accompagno per supporto morale.”
    Indossarono le scarpe e scapicollarono giù per la tromba delle scale quasi fossero inseguiti dal diavolo, sgusciarono sul marciapiede di fronte al condominio e si bloccarono come statue di sale.
    Poi Gil emise un gridolino da checca e Harvey si voltò a scrutarlo disgustato.
    “Sii uomo, Gil.”
    “Non posso, non in questo momento. Fammi essere donna e godere!”
    Da un lato, Harvey comprendeva e condivideva l’esaltazione dell’amico: parcheggiata a nemmeno un metro di distanza c’era una Ducati Monster nuova fiammante, rossa con bordature metallizzate. Un gioiello, per la modesta opinione di un appassionato di motori come lui. Il cuore batteva per l’emozione e i palmi delle mani prudevano dalla voglia di stringere il manubrio e far ruggire quella meravigliosa bambina.
    “Ma chi te la manda? Cavolo, sarà costata un occhio della testa…”
    “Un’idea ce l’ho.” mormorò il castano, assente.
    “Oh.” il collega afferrò il messaggio e tornò ad osservare la moto con un sospiro. Il coinquilino gli aveva raccontato del litigio, ma allora Gil aveva preferito non consigliarlo, dato che Harvey era fuori dalla grazia e rifiutava qualunque ingerenza esterna. “Dai, va’ da lui.”
    “Anche se tornassi, i problemi non svanirebbero.”
    “Certo, mica fanno puff come per magia? Occorre l’impegno di entrambi, se volete veramente stare insieme. Ora, io non mi preoccupo di Dorian, ma di te.”
    “Perché?”
    “Perché sei un poppante egoista e capriccioso.”
    “Da che pulpito! Continua e ‘come per magia’ ti ritroverai con qualche molare in meno.” lo minacciò, ma Gil, ormai abituato a quelle promesse di tortura e morte, non si fece intimidire.
    “Prima di cominciare a frequentarlo sapevi che lavoro faceva, quindi non hai il diritto di lamentarti. Te lo sei scopato solo per gioco? Lo hai fatto per i suoi soldi? Per le macchine?”
    “Non sono così venale, cazzo! Se non mi fosse piaciuto, non avrei mai accettato le sue avances.” si inacidì e piegò la bocca in un broncio infantile.
    “E dunque cosa aspetti, un invito formale spedito per fax, visionato e timbrato dal presidente alla Casa Bianca? Salta in sella e sgomma, bello!” sorrise, ma poi si zittì di botto e ponderò per un paio di secondi. “Non hai il casco, però.”
    “Chissenefrega del casco, Gil.”
    “E’ contro la legge correre senza!”
    “Cosa vuoi che me ne sbatta adesso!”
    “Ti ucciderai!”
    “Tch!”
    Harvey montò sulla Ducati, inserì le chiavi e riscaldò il motore, sordo alle proteste dell’amico. Infine, diede gas e schizzò alla velocità della luce verso il centro, mentre Gil seguitava imperterrito a gridare “Lo ammazzeranno, lo ammazzeranno!”
    In circa mezzora il ballerino raggiunse il grattacelo dove abitava Dorian. Parcheggiò la moto nel garage, grazie alla copia del telecomandino fornitagli dal lui tempo addietro, e si catapultò nell’ascensore. Rifletté sulle parole da dire al moro, tuttavia i pensieri si accavallavano gli uni sugli altri in un gomitolo intricato e confuso, cosicché giunse al piano senza aver elaborato uno straccio di strategia. L’ora sul cellulare segnava le sei e venti di sera, quindi c’era la possibilità che Dorian fosse ancora in ufficio. Estrasse le chiavi dalla tasca, anche quelle gentile concessione dell’amministratore delegato, ed entrò di soppiatto, constatando l’assenza del padrone di casa.
    Sospirò di sollievo e si levò le scarpe, deponendole nell’apposita scarpiera all’ingresso, poi si diresse in cucina per versarsi un bicchiere d’acqua e predisporsi all’attesa. Era inutile rimandare in eterno, dovevano chiarire gli attriti al più presto se desideravano far funzionare il rapporto e Harvey doveva assolutamente venire a patti con i propri sentimenti. Non poteva più ignorare l’attaccamento che provava per Dorian, il costante desiderio di abbracciarlo e soffocarlo di baci, e sebbene lo spaventasse, era già consapevole del nome sotto cui raccogliere quel groviglio di emozioni selvagge e contorte.
    Dorian rincasò alle nove in punto, girò le chiavi nella toppa e si immobilizzò. La porta era aperta, qualcuno era entrato. Deglutì e accostò l’anta, spiando all’interno per accertarsi che tutto fosse al suo posto e che un ladro non avesse fatto razzia delle sue cose, ma ogni granello di polvere era precisamente dove lo aveva lasciato quella mattina.
    Aggrottò le sopracciglia, si tolse le scarpe, posò per terra la valigetta e si recò in salotto.
    Harvey sedeva sul divano, un braccio appoggiato mollemente sullo schienale e un sorriso enigmatico disegnato sulle labbra peccaminose. Dorian boccheggiò, colto decisamente alla sprovvista, ma il giovane spogliarellista si alzò con movimenti fluidi e aggraziati e gli si accostò. Sollevò una mano e gli accarezzò con delicatezza il viso ben rasato e i capelli neri perfettamente acconciati, non una ciocca ribelle sfuggiva al controllo. L’odore di dopobarba invase le sue narici e si scoprì ad inalarlo a pieni polmoni.
    Dio, quanto gli era mancato.
    Dal canto suo, Dorian era scioccato e non osava muovere un muscolo nel timore di intaccare l’equilibrio precario di quel momento.
    Harvey premette il pollice sulle labbra del moro e le schiuse, senza però sporgersi per mangiarle come avrebbe voluto.
    “Scusa.” sussurrò invece.
    “Eh?” domandò il trentottenne, in trance, con l’espressione adorante che si riserva al proprio idolo.
    “Non sono tornato per la moto, benché il regalo sia stato enormemente apprezzato. Diciamo che si è rivelato il giusto incentivo, ecco. Dovevo tornare per scusarmi, mi sono comportato male. Sono geloso.” ammise. Sorrise amaro e si avvicinò per far sfiorare i loro nasi.
    “Sei sleale…” rispose Dorian.
    Il castano lo fissò interrogativo.
    “Quando fai così, ti perdonerei sempre tutto.”
    “Perché sprecare le mie doti naturali?” ghignò e l’altro si incantò ad ammirare i denti bianchi e i canini leggermente più lunghi, proprio come un animale.
    “Già…” esalò, ormai partito per la tangente, ma Harvey si schiarì la gola e lo riportò con i piedi per terra.
    “Devo dirti una cosa.”
    “Oh, anch’io.” Dorian si risvegliò dal torpore che gli aveva ottenebrato il cervello e sbatté le palpebre per obbligarsi a restare lucido.
    “Prima tu.”
    Adesso fu il turno del maggiore di schiarirsi la gola, imbarazzato. “Quest’estate ho lavorato duramente, mi sono impegnato moltissimo per realizzare il mio scopo e ci sono riuscito.”
    Harvey lo incoraggiò a proseguire e Dorian intrecciò le mani con le sue. “Ho pensato a lungo alle tue parole, al fatto che ti sentivi trascurato e che non ti dedicavo abbastanza attenzioni. E… avevi ragione. Così, attraverso le mie eccellenti abilità di manager, ho accalappiato una gallina dalle uova d’oro che mai nessuno della Microsoft era stato in grado di attirare nella rete. Di conseguenza, pochi giorni fa sono stato nominato socio dell’azienda e ciò vale a dire che avrò tanto tempo libero per te, tante ferie e se voglio posso lavorare da casa. Ovviamente, è possibile che talvolta debba partire per viaggi all’estero, ma non dureranno mai troppo. Perciò, saluta il nuovo direttore! Ho anche cambiato ufficio, pare una piazza d’armi.” sorrise felice e si spalmò sul corpo del ballerino, bramoso di ricevere un bacio dopo mesi di astinenza.
    “L’hai fatto… per me? Ti sei ammazzato di lavoro… per me?”
    “A-ha. Così non ho dovuto rinunciare ai miei sogni, sia pubblici che privati…” ammiccò, gli circondò il collo con le braccia e si tuffò nell’oro fuso dei suoi occhi. “E la moto è stata un regalino per farmi perdonare. Avevo torto, ti ho offeso e non te lo meritavi, per questo scusami.”
    Harvey si incupì e arretrò di un passo, suscitando perplessità nel compagno.
    “Io…” inspirò profondamente, “io ti ho tradito.” borbottò. “Sono una merda.”
    Dorian si allontanò di scatto, ferito e col cuore sanguinante a quella confessione inattesa.
    “E’ accaduto una sola volta!” si affrettò a spiegare, ansioso si aggiustare la crepa generatasi improvvisamente fra loro. “Non so neanche il suo nome. Mi ha abbordato una sera, in discoteca. Ero mezzo ubriaco e soprattutto ero stanco di masturbarmi pensando a te, volevo qualcosa di più concreto. Ma mentre lo fottevo, immaginavo te sotto di me, la mia mente era piena di te.”
    “P-perché?” balbettò il moro, violentandosi per non scoppiare a piangere e rendersi ancora più patetico. “Per te è così importante scopare? Ti va bene chiunque, basta che abbia un buco da sfondare?”
    “No! Dorian, io… cazzo.” grugnì passandosi una mano sulla faccia. “Mi dispiace, so di aver sbagliato. Dopo mi sono sentito sporco, credimi, e il senso di colpa non mi abbandonava. Però io voglio te, non mi interessano gli altri, lo giuro. Ho capito che se non ti tocco… mi sento solo, anche se siamo nella stessa stanza. Ho bisogno del contatto fisico, molto contatto fisico, perché in base alla necessità che avverto le mie emozioni germogliano e crescono. E io ho tanto, tanto bisogno di sentirti… non so come dirlo…” fece per accarezzarlo di nuovo, ma Dorian gli schiaffeggiò la mano.
    “Esci. Non voglio vederti per un po’.” ordinò in un singhiozzo a stento trattenuto.
    Lo sguardo di Harvey si indurì e si affilò come una lama. Agguantò il trentottenne per un braccio e lo trascinò in camera. Lo scaraventò bruscamente sul materasso, gli imprigionò i polsi e li legò stretti con la cravatta che aveva sfilato prontamente dal collo di Dorian.
    “Cosa vuoi fare? Slegami!” gridò spaventato e si divincolò per sottrarsi alla presa ferrea del ventiseienne.
    Egli lasciò il letto giusto il tempo di munirsi di un’altra cravatta per imbavagliarlo. “Lo farò solo quando dalla tua bocca usciranno gemiti di piacere.” gli levò gli occhiali e li depose con cura sul comodino, poi si spogliò dei vestiti e fece lo stesso con un recalcitrante Dorian, affatto contento del sicuro esito della serata.
    Il moro si ritrovò con la camicia arrotolata sulle braccia tese verso l’alto e la pelle esposta agli occhi avidi di Harvey, il quale decise di non tergiversare e procedere nel compito che si era prefissato.
    Si chinò a depositare una scia di baci e morsetti sul collo del trentottenne, grato di poter gustare ancora il suo sapore. Gli palpeggiò i fianchi e le cosce, lambì con le labbra i suoi capezzoli e scivolò lentamente sull’addome, dove penetrò l’ombelico con la lingua.
    Suo malgrado, Dorian era in estasi e l’eccitazione stava pian piano prendendo il sopravvento sulla razionalità. Percepiva le mani di Harvey esplorarlo in ogni anfratto, senza lasciarsi sfuggire nemmeno un centimetro. Il respiro si fece corto e i muscoli si irrigidirono, smanioso di arrivare al sodo e al contempo riluttante ad abbandonarsi nuovamente alla lussuria del giovane. Quest’ultimo scese più giù e lappò appena la punta del sesso turgido, compiaciuto nel vederlo guizzare contento di quelle attenzioni. Lo inglobò in un colpo solo, spingendoselo fino in gola, e iniziò a succhiare con una tecnica invidiabile. Dorian strinse i pugni e mugugnò appagato, inarcandosi di scatto per l’inaspettata scossa di piacere che gli attraversò la spina dorsale, ma l’improvvisato bavaglio attutì i suoi gemiti.
    Harvey continuò a pompare fino a ingoiare il seme del compagno, curandosi di non trascurarne neanche una goccia. Voleva farlo sentire amato, coccolato; voleva farlo sentire importante, unico, ed esisteva un solo modo per trasmettergli i propri sentimenti.
    Così, mentre Dorian divaricava le gambe preparandosi, il ballerino agguantò il lubrificante dal cassetto del comodino e ne spremette un po’ sulle sue dita. Poi le condusse in basso e il moro chiuse gli occhi, pronto a percepire quelle falangi intrise di lozione violare la sua apertura. Tuttavia, quando si rese conto che il familiare contatto tardava a presentarsi, lanciò un’occhiata confusa ad Harvey e si scontrò con il suo volto contratto dal dolore.
    Percorse basito la sua silhouette da modello e notò che si stava penetrando con le dita. Assunse un’espressione corrucciata, ma le intenzioni di Harvey divennero palesi allorché cosparse di lubrificante il suo membro di nuovo duro. Si contorse e urlò attraverso la stoffa della cravatta. Sapeva che lo spogliarellista era vergine dietro, glielo aveva detto una volta, ma non era giusto farlo così, non in quel momento, non in quella maniera. Se doveva per forza succedere, sarebbe stato quando Harvey si fosse fidato abbastanza di lui da permettergli di possederlo in un atto di amore e non per farsi perdonare, quasi desiderasse umiliarsi apposta per convincerlo ad archiviare il tradimento.
    “Sta’ fermo, Dorian, mi complichi le cose.” ansimò, strofinando il pene del moro con tocchi esperti e stendendo su tutta la superficie la sostanza oleosa.
    Dopodiché si mise a cavalcioni su di lui e portò la punta del sesso di Dorian sul proprio orifizio mai profanato, facendo leva sulle ginocchia per dondolarsi e inserirlo con le sue sole forze. Una fitta atroce e lancinante gli scosse i nervi e percepì le pareti dell’ano dilatarsi e strapparsi per concedere l’accesso al corpo estraneo. Digrignò i denti e rantolò. Onestamente, non immaginava che si sarebbe rivelata una simile agonia. I lunghi capelli gli ricaddero sul torace e sulla faccia, celando la smorfia sofferente ad un altrettanto sofferente Dorian, che ormai aveva esaurito le energie per ribellarsi e si era rassegnato. Una volta impalatosi fino alla base, si fermò e annaspò, aggrappandosi alle lenzuola sgualcite.
    Una lacrima atterrò sul ventre di Dorian ed egli strabuzzò le palpebre preoccupato.
    “Sto… sto bene.” bofonchiò Harvey, per poi cominciare a fare su e giù sull’erezione del moro.
    Il dolore era ancora molto, ma nonostante questo il ballerino si stimolava come meglio poteva per sostituirlo al piacere, senza notevoli progressi.
    Dorian lo chiamò frustrato e l’altro acconsentì a liberarlo dalle cravatte, tanto ormai era completamente in suo potere, tuttavia restò scioccato quando il maggiore si mise seduto e lo abbracciò stretto, cullandolo quasi. Arrestò il movimento del bacino, infilò le dita tra i capelli neri, strusciò la guancia sulla sua fronte e sorrise tranquillizzato.
    “Sei un cretino…” sussurrò con dolcezza il moro e un secondo più tardi riprese a spingere gentilmente, attento a non fargli male.
    Dopo interminabili minuti, il ritmo aumentò e Harvey cominciò ad avvertire le prime note di piacere, specialmente quando Dorian urtava un punto preciso dentro di lui.
    “Harvey… non venire.”
    “Eh?”
    “Aspetta. Aspetta.” al trentottenne si mozzò il fiato in gola e si riversò con un gemito nella carne del giovane, che rimase a scrutarlo a metà tra il felice e il disorientato.
    Dopo essersi calmato, Dorian uscì dall’altro e si girò, piegandosi a quattro zampe ed esponendo il sedere alla vista di Harvey, il quale, neanche a dirlo, si leccò le labbra affamato.
    “Montami…” ansimò disinibito.
    Egli afferrò ancora il tubetto di lubrificante e ci intinse le dita, stavolta spalmandosi l’olio sul proprio pene arrossato e al limite. Andò a leccare l’apertura del moro, vezzeggiandola con la lingua e mordendo la pelle intorno, e infine lo violò con un ringhio gutturale, accasciandosi sulla sua schiena con sonori gemiti appagati. Spinse da subito con impazienza, levando alta la voce per la prima volta, segno che era allo stremo, e risvegliando così l’eccitazione di Dorian, che, positivamente stupito di quanto potesse essere erotico il timbro vocale di Harvey in determinati frangenti, si unì inevitabilmente a lui. Presto cavalcarono insieme le onde dell’orgasmo e toccarono l’apice quasi in simultanea.
    Esausti, rotolarono su un fianco, ma il castano non pareva dell’idea di volersi staccare dal compagno, poiché infatti gli era ancora dentro.
    “Non abbiamo usato il profilattico…” commentò Dorian tra gli ansiti generali.
    “Pazienza… è stato magnifico.” lo sbaciucchiò sul collo e sulla spalla, gli accarezzò i fianchi e se lo attirò addosso.
    “Ah! Ahh… Harvey… sei ancora…!”
    “Prontissimo.”
    “Un attimo, ti prego. Non ho più l’età per queste maratone…”
    “Cinque minuti.”
    Dorian ridacchiò e sospirò stancamente. “Che ti è saltato in testa? Eri vergine, accidenti! Un minimo di attenzione!” lo redarguì.
    Harvey esitò, poi si issò su un gomito e si sporse per guardarlo. “In passato, mi ero promesso che avrei donato il mio culo solo alla persona che amavo. Per questo l’ho fatto, volevo che capissi…”
    L’uomo lo squadrò sbigottito, stranito e commosso. “Tu mi…?”
    “Mh.” lo baciò su un angolo della bocca e sfoggiò un sorrisino sghembo.
    “Davvero?”
    “Sei pedante.”
    “Anche se tu non mi avessi dato la verginità, ti avrei perdonato comunque, dopo qualche giorno ti avrei riaccolto nella mia vita. Lì per lì ero solo sconvolto e mi serviva del tempo per assimilare e digerire la notizia.”
    “Beh, ora mi perdoni? O ti occorre ancora qualche giorno?”
    Dorian rise e scosse il capo. “No, mi è passata. Ma non farlo più, ok? D’ora in avanti avrai tutto il sesso che desideri.”
    “Fantastico.” assestò una lieve spinta di ringraziamento, strappando all’uomo un gemito osceno.
    “Prevedo che dovrò farmi prescrivere degli integratori vitaminici…” bofonchiò.
    Harvey soffocò una risata, ma non perse il ghigno sardonico.
    “Abbi fiducia nelle mie arti amatorie!”
    “E’ proprio di quelle che ho paur-ah! Ah! Oddio…”
    Harvey estrasse quasi tutto il membro gonfio, tranne la cappella, e riaffondò di scatto, godendo dei lamenti goduriosi dell’amato.
    “Per stanotte… ok.” sentenziò affannato Dorian. “Ma per tre giorni niente.”
    “Che?!”
    “Adeguati. Ho giù avuto tre orgasmi, non penso di essere in grado di produrre altra roba…”
    “Eh eh, la produrrai, la produrrai…”
    Il moro sbuffò e artigliò il cuscino, prima di venire letteralmente travolto da una bestia in perpetuo calore. C'era da augurarsi che almeno entrasse in letargo, qualche volta.
     
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  5. Lady1990
     
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    Non importa quanto hai sofferto.
    Ti innamorerai di nuovo.
    Sarà più bello di prima,
    E farà più paura che mai.
    [Fabio Volo]



    Quella mattina di dicembre, Alan e Raphael stavano facendo colazione davanti al tavolo di cucina di casa Hopkins, entrambi in pigiama e pantofole, l’uno di fronte all’altro. Il rossino aveva gli occhi cisposi e la faccia assonnata di chi si trova ancora in uno stato di dormiveglia, nonostante ingurgitasse biscotti al cioccolato come un troglodita; Raphael, invece, sorseggiava con calma la sua tazza di caffè e leggeva le ultime notizie sul giornale, che era stato lanciato sul tappetino della villa con precisione millimetrica dal ragazzo del New York Times che passava in bici a battere tutto il quartiere ogni giorno. La quiete che aleggiava nella stanza trasmetteva pace e serenità e quel silenzio era il benvenuto a quell’ora, ottimo per rilassare il cervello in vista dell’ennesima giornata di lavoro.
    Ad un tratto, il cellulare di Alan squillò spezzando l’incantesimo e il giovane, risvegliatosi bruscamente, sputacchiò alcune briciole di biscotto, che malauguratamente finirono sugli occhiali del compagno. Questi arrestò di botto la lettura, abbassò lentamente il giornale e fissò criptico, probabilmente incazzato, il suo adorabile animaletto domestico con un sorrisino dipinto sulle labbra.
    Ma i suoi occhi non sorridevano.
    “Ops…” fece Alan.
    Poi, per rimediare in extremis al danno, si alzò dalla sedia, circumnavigò il tavolo e si accostò al biondo, andando a pulirgli le lenti con la lingua. Una volta terminato, sfoggiò un ghigno seducente, anche se l’effetto che ottenne fu un’espressione da ritardato con qualche serio disagio mentale. Tempo due secondi e schizzò verso il divano come se fosse stato inseguito da una mandria di bufali inferociti, mettendosi a fiutare l’aria alla stregua di un segugio addestrato.
    Raphael osservava la scena impenetrabile, domandandosi distrattamente se Alan non fosse affetto veramente da un grave disturbo psicologico.
    Il ragazzino acciuffò trionfante il telefono, che per qualche arcana ragione era finito tra i cuscini del divano, e accettò la chiamata.
    “Pronto?”
    “Hey, Al!”
    “J.J.! Ciao, come stai? Ah! No, aspetta, perché mi stai chiamando sul cellulare? Lo sai che sto spendendo anche in questo esatto istante una barcata di soldi? Chiama sul fisso, cavolo, almeno è Raphael che paga la bolletta!” si girò di soppiatto a guardare con assoluta innocenza l’amore della sua vita, il quale gli stava ancora sorridendo beato e serafico.
    Ma i suoi occhi non sorridevano affatto.
    “Scusa, è che non volevo disturbare. Siete svegli? In America dovrebbero essere le… otto? Otto e qualcosa?”
    “Le otto e diciotto. Lì è sera?”
    “Sì e fa un freddo assurdo! Io e Dom siamo rintanati in casa e sono due giorni che ci rifiutiamo di mettere il naso fuori.”
    “E per mangiare come fate?”
    “Cibo a domicilio.”
    “Oh. Ma dimmi, perché hai chiamato?” si lasciò cadere a peso morto sul divano e cercò una posizione comoda.
    “Non posso chiamare il mio migliore amico per un saluto?” sbuffò Jason dall’altra parte della cornetta.
    “Certo! Ah, giusto, ora che mi viene in mente, nell’ultima telefonata avevo dimenticato di chiederti se quest’anno torni per Natale.”
    “Al… non credo.”
    “E per Capodanno?”
    “No… io e Dom abbiamo altri progetti, sai.” rispose mesto.
    “Ma sono tre anni che non ci vediamo! Almeno una volta potresti fare un salto!”
    “Non abbiamo così tanti soldi, Alan. Quello che sta meglio sei tu.”
    “Ah, sì, che lavoro faceva Dominic?”
    “L’operatore turistico.”
    “Allora gli daranno sicuramente, che ne so, qualche buono per un viaggio, no?” insistette.
    “Che palle, quanto sei petulante! Ti ho detto che non è possibile per me tornare. Perché tu e Raphael non venite a stare da noi per le feste, invece?”
    “Mmm, Raphy vuole risparmiare. Abbiamo in palio una vacanza di un mese alle Maldive, a maggio, perciò resteremo tappati qui per ora.”
    “Capisco.” sospirò. “Beh, pazienza, sarà per l’anno prossimo! Mi manchi un casino.”
    “Anche tu, J.J.. Spediscimi un’altra cartolina dall’Italia, ok? Ah, e poi vorrei una di quelle maschere veneziane da sogno, magari di colore blu.”
    “La grandezza?”
    “Come la mia faccia.”
    “Ricevuto, capo. Oh, quasi me ne scordavo! Ti è arrivato il mio pacco per il tuo compleanno?”
    “Sìììììì! Mi spieghi come hai fatto a procurarti quell’opera del Veronese? Io adoro quel pittore, lo adoro!” squittì, mordendo il cuscino dall’emozione.
    “E’ una copia, Al, e Dom ha i suoi agganci.”
    “Beh, se tutti i tuoi regali saranno di questo livello, non vedo l’ora di celebrare il mio prossimo compleanno!”
    “Ah ah, felice che ti sia piaciuto. Come ci si sente ad avere ventuno anni ed essere finalmente libero di ubriacarti?”
    “Ti direi da sballo, se non fosse che Raphael mi proibisce di scolarmi più di un bicchiere di vino al giorno. E mi ha pure minacciato che se oso tornare a casa dopo aver fatto il pieno di alcool, mi sbatte fuori.” si imbronciò e finse di singhiozzare.
    “Fa bene, non fare cazzate. Adesso devo andare, Dom mi sta reclamando a letto.”
    Il rosso ridacchiò comprensivo. “Ok, ti do la mia benedizione. Ciao, J.J.!”
    “Ciao ciao!”
    Alan riattaccò e posò il cellulare sul tavolino accanto al divano. Aveva fatto da tempo pace con Jason e quello gli aveva raccontato di Dominic per somme linee, senza scendere troppo nel dettaglio. Ad ogni modo, il giovane aveva afferrato che l’amico aveva finalmente trovato un uomo da amare che lo amava a sua volta e i due parevano essere felici, tanto bastava. Il moro, all’epoca, aveva aggiunto che aveva seguito Dominic all’estero per lavoro, in Italia, e che sarebbe rimasto con lui nel Bel Paese fino a data da definirsi, poiché in America non aveva legami familiari o altre scuse che lo trattenevano.
    Non riusciva a credere che erano già trascorsi tre anni da quando si era messo con Raphael. Gli sembrava ieri che i loro destini si erano incrociati, in biblioteca: lui un liceale con la testa piena di fantasie romantiche e il biondo avvolto costantemente da un’aura malinconica e triste a causa della dipartita della moglie. Il tempo era letteralmente volato, ma non poteva negare di essere felice. Ogni giorno spalancava gli occhi su un mondo luminoso, l’entusiasmo e un candore bambinesco a brillare nelle sue iridi verde bosco, mentre i raggi del sole inondavano gentili la camera e Raphael gli dava il buongiorno con un bacio appassionato.
    Ormai si era trasferito dal compagno in pianta stabile e aveva detto addio alla casa in cui era nato e cresciuto col beneplacito di sua madre. D’altronde, se avesse continuato a vivere sopra il negozio di fiori, si sarebbe quantomeno sentito perennemente a disagio, dato che Daisy si era risposata con il signor Corvey, assiduo cliente da anni. Senza dubbio andava premiato per la perseveranza, sua madre era sempre stata una donna difficile. Tuttavia, ora erano felici e abitavano insieme nell’appartamento, così Alan aveva colto l’occasione per levare le tende e lasciarli a tubare come piccioni nel loro talamo.
    Raphael, nel frattempo, si era dimesso dal lavoro di bibliotecario e si era rituffato in pista, riprendendo in mano la sua vecchia carriera di architetto e aprendo uno studio da libero professionista. Non occorre specificare che, grazie alle sue eccellenti abilità, aveva già guadagnato un enorme successo, e si era anche fatto un nome nel campo.
    Alan aveva concluso l’Accademia con ottimi voti e un talent scout lo aveva contattato a settembre per proporgli di esporre le sue opere in una galleria, durante la mostra di un altro pittore americano molto in voga in quel periodo. Non era la sua galleria, ma rappresentava di sicuro un perfetto trampolino di lancio per diventare un celebre artista freelance ed era impaziente di cominciare i preparativi. La mostra avrebbe avuto luogo pochi giorni prima di Natale e mancavano solo due settimane. Non stava nella pelle!
    Raphael fissò con un sorriso indulgente quel ragazzino ribelle e respirò roteando gli occhi al cielo, falsamente esasperato.
    “Hey, bestiolina, vieni a finire la tua colazione.” gli intimò bonario e Alan saltellò verso di lui contento, spalmandosi poi sul suo corpo e appiccicandoglisi addosso come una cozza.
    Casa Hopkins, dopo l’arrivo definitivo di Alan, si era drasticamente trasformata. Il giardino adesso straripava di piante che il rosso aveva piantato con le sue mani, complice l’innato pollice verde e la passione da giardiniere acquisita tramite la madre. L’aria profumava sempre di fiori, i vasi erano collocati ovunque, su ogni davanzale, angolo e tavolo, e rendevano l’ambiente immancabilmente più colorato e allegro, un po’ come quando c’era ancora Alicia. Alle pareti, i quadri della defunta moglie, riesumati da un irremovibile Alan, abbellivano le stanze, misti a quelli del ragazzo, in un’armonia dolce e sublime. In camera da letto troneggiava un ritratto di un metro per settanta centimetri di Raphael, uno dei primi che il compagno aveva creato quando frequentava il liceo.
    Per l’architetto era come essere tornato indietro nel tempo e non poteva esimersi dal notare come persino i propri sentimenti splendessero esattamente come allora, solamente che il suo cuore palpitava per un’altra persona.
    Due giorni prima di Natale, Glenda telefonò al cognato per scambiarsi gli auguri e informarlo delle ultime novità. Aveva divorziato ufficialmente da Roger e aveva ottenuto la custodia di Rose e Jack, mentre l’ex marito era fuggito all’estero con l’amante.
    “E i ragazzi come l’hanno presa?” indagò cauto il biondo.
    “Beh, dovranno abituarsi, suppongo. Non sarà facile, ma ora sono molto più rilassata. Ah, sai che Rose ha finalmente superato la sua cotta storica per te e si è fidanzata?”
    “Davvero?”
    “Sì, con un suo compagno di liceo. È un giocatore di football, ma è un bravo giovanotto.”
    Raphael rise di gusto. “Come sarebbe a dire? Disprezzi i giocatori di football?”
    “Andiamo, Raphael, non hanno una reputazione da cervelloni. Certo, avrei preferito un ragazzo con bei voti a scuola, ma finché Patrick tratta mia figlia con i guanti di velluto non mi lamento.”
    “Patrick? È il suo nome?”
    “Sì. E, pensa, l’ho iscritta ad un corso di Thai Boxe! Lo credevi possibile?”
    “Thai Boxe?” chiese sbigottito.
    “Pure io ci sono rimasta di sasso quando mi ha pregata di segnarla, ma se le piace ed è contenta… Lo ammetto, me la immaginavo più femminile, il classico tipo da corso di danza o ginnastica artistica.”
    “Indubbiamente è inaspettato.” concordò il cognato, segretamente colpito.
    “Come sta Alan?”
    “Bene…” tentennò nel fornire una risposta e gettò un’occhiata significativa e al contempo titubante al rossino, che se ne stava muto come un pesce sul divano facendo finta di guardare la televisione.
    La verità era che non si parlavano da quattro giorni, perché Alan sembrava risentito per qualcosa, un qualcosa che per Raphael era ancora oscuro. A nulla erano serviti i numerosi tentativi di instaurare un dialogo civile, il piccolo si dileguava in un secondo con un verso stizzito e si rifiutava perfino di toccarlo.
    “Raphael?”
    “Eh? Ah, ma dimmi di Jack! Come sta il mio campione?”
    “Indaffarato con i videogiochi come sempre, ma di recente ha trovato un amico. Poca cosa in confronto a ciò che vorrei per lui, ma non voglio forzare troppo la mano. La situazione in casa è delicata e senza una presenza autoritaria, intendo un padre, non so come gestirla. Bah, forse gli passerà…”
    “Io ed Alan verremo a farvi visita il ventisette, come programmato.”
    “Lo so, me lo ricordo. Ok, salutamelo e a presto!”
    “A presto, Glenda, manda un bacio ai ragazzi da parte mia.”
    “Lo farò!” gli inviò un bacio attraverso l’apparecchio e riattaccò.
    Proprio non capiva cosa aveva fatto di sbagliato, perché era evidente che fosse colpa sua, almeno a giudicare dal comportamento di Alan. Avevano litigato, quella sera di quattro giorni fa, ma in tutta onestà aveva dimenticato il motivo, segno che per lui non era importante. Però per il rosso doveva esserlo stato.
    Sospirò e si grattò la nuca. L’indomani era la vigilia e aveva invitato a cena Harvey e Dorian, come l’anno precedente. Non sarebbe stato carino accoglierli con quella spropositata tensione e per giunta Alan era incapace di fingere, di conseguenza temeva che la serata si sarebbe tramutata in un disastro.
    Il pomeriggio del ventiquattro, Harvey e compagno suonarono al campanello in anticipo, entrambi bardati come esquimesi a causa della bufera di neve che si era abbattuta sulla città la notte passata. Raphael corse ad aprire e si stupì nel ritrovarsi davanti un cesto di dimensioni mastodontiche pieno di polistirolo, tre bottiglie di spumante pregiato e stuzzichini assortiti.
    “Buonasera, siamo venuti ad aiutare.” esordì il castano con un ghigno sinistro.
    Il biondo rabbrividì involontariamente e non per il freddo. “Non era necessario, sul serio. Prego, vogliate attendere qui fuori l’ora di cena.”
    “Hey! Che è questa la maniera di trattare gli ospiti? Spostati e facci largo, quattrocchi!” gli appioppò il cesto ed entrò in casa senza complimenti, appendendo il piumino all’attaccapanni con un gesto rapido, al contrario di Dorian che aspettò in rispettoso silenzio il permesso.
    Raphael sbuffò divertito e salutò il moro con un’amichevole stretta di mano, invitandolo ad accomodarsi e prendendo in consegna il suo cappotto firmato.
    “Perdona la sua maleducazione, Raphael.” disse Dorian mortificato.
    “Nah, fa niente, ci sono abituato. Harvey!”
    “Sì?” gli urlò quello in falsetto dalla cucina, la voce più alta di un’ottava.
    “Giù le zampe dal cibo! Sono le tre del pomeriggio!”
    “Ma ho fame! Hai qualcosa da sgranocchiare?” non attese una risposta e inserì la testa nel frigo, scannerizzandone il contenuto con attenzione.
    “Vado a mettergli il guinzaglio e gli ordino di stare a cuccia, scusami.” borbottò il fidanzato della fogna umana e raggiunse la suddetta con ampie falcate.
    Raphael depose il dono sul tavolo in salotto e si recò anch’egli in cucina, dove lo stufato di verdure stava ancora bollendo sui fornelli.
    “Hey, biondino.” lo chiamò l’amico, mentre biascicava una fetta di pane.
    “Mh?”
    “Dov’è lo scricciolo?”
    “Ah.” girò un’ultima volta lo stufato e andò ad affacciarsi alle scale che conducevano al piano di sopra. “Alan!” gridò. “Ci sono Harvey e Dorian!”
    “Di già?” gli giunse l’esclamazione attutita del ragazzo.
    “Scendi appena sei pronto!”
    “Ok!”
    “Smettila di ingozzarti come un maiale, comportati bene!”
    Il padrone di casa risbucò in cucina e sorprese Dorian a rimbeccare Harvey.
    “Che succede?”
    “Niente, il vecchietto vuole fare la mammina.” commentò scocciato il ballerino.
    “Vecchietto?” rise Raphael.
    “Eh, ormai ho quarant’anni…” esalò stancamente il moro.
    “Quarantuno.” puntualizzò cattivo il compagno e Dorian lo fulminò con un’occhiata.
    “Tch! Accetta la realtà, tesoro.”
    L’esimio direttore capo della Microsoft gli assestò una spinta per ripicca e Harvey raccolse la sfida. Il biondo li lasciò litigare, concentrato a preparare l’impasto della torta, e fintanto che la cosa non degenerava, limitandosi ad innocui pugnetti, minacce di morte lenta e dolorosa e tentativi di soffocamento, gli andava bene. Anzi, quel siparietto rendeva il tutto molto più natalizio.
    “Harvey!” strepitò spazientito il moro, cercando di porre un freno alla condotta deplorevole che stavano adottando di fronte all’ospite.
    “Dorian!” lo scimmiottò l’altro.
    E la rissa verbale continuò, seppur contenuta.
    Alan entrò nella stanza con un gran sorriso stampato sul volto, ma dovette bloccarsi nell’assistere a quella scena a metà fra il comico e il preoccupante.
    “Buona… sera?” soffiò incerto.
    “Oh, Alan, che piacere. Come stai?” Dorian fu il primo a dissociarsi dalla dimostrazione di mancanza di buone maniere di Harvey e si rivolse al rosso in tono cortese e affabile.
    “Bene, grazie. Tu?”
    “Bene.”
    “Ciao, Alan!”
    “Harvey! Come va?”
    “Non male.” annuì e agguantò la seconda fetta di pane, che il fidanzato provò a strappargli di mano prima che essa raggiungesse le sue labbra, invano.
    Alan camminò verso la credenza, prese un bicchiere e lo riempì d’acqua, il tutto in religioso silenzio e senza nemmeno rivolgere lo sguardo su Raphael.
    Harvey captò le onde negative che all’improvviso erano esplose nell’aria e scrutò trucemente l’amico indaffarato ai fornelli.
    “Che c’è?” domandò confuso.
    “Che hai combinato?” il castano incrociò le braccia sul torace, fissandolo con rimprovero.
    “Boh.”
    “Come ‘boh’?”
    “Non lo so! Chiedilo a lui.” fece un cenno ad Alan, il quale sollevò il mento offeso.
    “E poi perché pensi che è colpa mia?”
    “Raphael, caro, è sempre colpa tua. Alanuccio, che ti ha fatto questo infimo individuo?” si avvicinò e gli circondò le spalle in un abbraccio consolatorio.
    “Lui ha…” pigolò, “lui… no, non ci riesco… è troppo orribile!”
    “Dillo allo zio, risolverò tutto.”
    Sorvolando sullo ‘zio’, Alan ruotò il busto per guardarlo con occhi lucidi di lacrime. “Lui mi ha…”
    “Ti ha?”
    “No, meglio che te lo faccia vedere.” lo prese per mano e lo portò in salotto, dove sul mobiletto di legno accanto alla portafinestra del giardino c’era un piccolo alberello finto, elettrico, di quelli con le lucine che cambiano colore alle estremità dei bastoncini di gomma che fungono da foglie. In sostanza, una cosa indecente e, appunto, orribile.
    “Q-quando gli ho proposto di fare l’albero,” singhiozzò, “lui ha risposto: “Ci penso io.” e la sera stessa è tornato a casa con… questo… questo… non so neanche come definirlo.”
    “Un obbrobrio.” pronunciò inorridito.
    “Sì! Allora mi sono arrabbiato e gli ho detto che intendevo un vero albero, con le palle colorate e le pellicce di carta dorata, con il puntale in cima e un mare di lucine, ma lui ha detto-”
    “Ho detto,” si intromise Raphael, ora conscio della ragione che stava dietro il broncio di Alan, “che non era né un bambino né una donna, e grazie al cielo aggiungerei, perciò perché sbattersi e sprecare soldi per comprare un abete che perderà foglie ogni secondo sporcando e accumulandosi sulla moquette?”
    Harvey lo incenerì, allibito che un simile pensiero si fosse radicato nel cervello dell’amico. “Siamo a Natale… e tu non vuoi addobbare l’albero di Natale?!”
    “Che senso ha? Sappiamo tutti che Babbo Natale non esiste e che non metterà i regali sotto l’albero, quindi a che pro?”
    “A che pro? Hai mai sentito parlare dello spirito del Natale? Non esiste Natale senza albero di Natale!” replicò infervorato.
    “Io lo trovo carino. Non sporca, non inquina e non è un essere vivente abbattuto dall’egoismo dell’uomo per abbellire per qualche giorno la casa di qualcuno.” intervenne Dorian, sinceramente perplesso. Non vedeva dove stava il problema.
    Al fidanzato cadde la mascella, pietrificato e sconvolto.
    “Insomma, hai idea di quanti poveri alberi vengono abbattuti ogni minuto per produrre la carta? E vorresti che ne uccidessero altri per una festa? Io la trovo una cosa crudele. Molto meglio questo.” indicò l’infelice alberello oggetto di quell’accesa discussione. “E poi nemmeno noi abbiamo un albero, a casa.”
    “Perché…” Harvey si morse un labbro, ma la voce gli tremò ugualmente, “io credevo che… tu avessi in mente di farmi una sorpresa, tipo farti consegnare all’ultimo un abete gigante da piazzare in salotto… e noi ci saremmo divertiti ad ornarlo con le decorazioni e… ma tu…”
    “Mmm… no. Non avevo in programma di farmi recapitare un abete gigante. Ero convinto che non ti interessasse, così non mi sono preoccupato.”
    “Allora… niente albero?” mormorò deluso il ballerino.
    Dorian ammutolì, il dannato senso di colpa che aumentava di secondo in secondo.
    “Sono persone malvagie, Harvey. Non piangere.” gli bisbigliò all’orecchio Alan, coprendosi la bocca con la mano.
    “Sono malvagi, spregevoli… e insensibili!”
    “Esatto, non sono meritevoli di regali.”
    “E’ un oltraggio al Natale!”
    “Va bene, basta.” Raphael sedò quegli irritanti piagnistei con un gesto secco della mano. “Aspettate qui, vado in garage.”
    Svanì e ricomparve con uno scatolone stracolmo di cavetti verdi.
    “Ecco le tue lucine, mettile dove ti pare.” sbuffò arrendevole.
    Alan spiò sospettoso il contenuto della scatola e, appena si assicurò che erano davvero lucine natalizie, il suo viso si illuminò come quello di un bambino.
    “Harvey, decoriamo l’albicocco in giardino!”
    “Che?! Io fuori non ci vado! Mi piace il caldo.”
    “Eddai! Vuoi lasciarmi ad assiderare da solo?”
    “Non siamo fidanzati! Chiedi al tuo maritino, piuttosto.”
    “Io devo finire di preparare la cena.” proferì rapido il biondo e si dileguò modello ninja in cucina.
    “Cosa? Tu non mi ami!” urlò.
    “Mi dispiace, la pigrizia è una brutta bestia.” confermò l’interessato, già impegnato a rimestare sui fornelli.
    Quindi Alan scoccò un’occhiata speranzosa a Dorian.
    “Io purtroppo non sono bravo in queste cose, rischierei di rovinare la tua opera.” rispose contrito.
    “Cosa? Tu non mi ami!” esclamò Harvey piccato, facendo il verso al ventunenne.
    Il moro lo gelò e scandì con un sibilo: “Se non la pianti immediatamente, niente sesso fino a gennaio.”
    L’altro trattenne il fiato, poi si rivolse ad Alan: “Scusa, ho le mani legate.”
    Il ragazzino scrutò lo spogliarellista con occhioni da cucciolo abbandonato, ma Harvey voltò il capo nella direzione opposta.
    “Vi odio! Tutti quanti!” sbottò, ma nonostante questo si vestì e uscì nel cortile interno ad addobbare l’albicocco rinsecchito, coi rami ricoperti da uno strato spesso di neve.
    Fra battibecchi e frecciatine velenose, la vigilia trascorse in totale tranquillità. Parlarono dei progetti di Raphael, il quale raccontò alcuni aneddoti dei suoi clienti; chiacchierarono a proposito della mostra di Alan, che si era rivelata un vero successo, tanto che lo stesso Dorian aveva acquistato un paio di quadri del giovane; Harvey comunicò che dopo le vacanze avrebbe ufficialmente lasciato il lavoro al Maiden’s Blossom per lanciarsi nella carriera di modello, anche se niente di importante perché non voleva restare troppo tempo lontano dal suo uomo.
    “Oh, che tenero!” Raphael lo prese per i fondelli.
    “Taci, nonno!”
    “Nonno?!” gracchiò all’udire l’epiteto poco gentile.
    “Se diventassi famoso su tutto il globo, i tabloid non mi darebbero tregua e la mia vita privata verrebbe spiaccicata su ogni giornale scandalistico! Se invece mantengo un profilo basso, posso continuare a scopare con questa mummia.” accennò a Dorian, che si stava servendo di un’altra porzione di sformato di spinaci.
    “Mummia a chi?! Ti ricordo che vai per i trenta, amore mio.”
    “Trenta non sono quaranta, orsacchiottino.”
    “Mmm… facciamo così: quando passerai anche tu la soglia dei quaranta, organizzeremo un funerale anziché un compleanno. Ok? E fino ad allora niente sesso, perché è risaputo che le mummie, essendo cadaveri, non possono usufruire di alcun apparato riproduttivo.” affermò affabile, brindando simbolicamente con un bicchiere invisibile a quella decisione.
    “Tesoro mio adorato, non ti ho mai detto quanto sei bello. Prrrrr!” lo accarezzò sul collo e fece le fusa come un gattino.
    “Che voltagabbana. Brutto ruffiano.” borbottò il moro seguitando a mangiare.
    Alan studiò la scenetta distrattamente, troppo occupato a mascherare un sorriso compiaciuto e imbarazzato: sotto la tavola Raphael gli stringeva la mano e gli accarezzava il palmo con il pollice in cerchi concentrici.
    Per capodanno festeggiarono a casa, anche perché in strada imperversava un uragano di grandine e neve. Tuttavia a loro non pesò affatto, dato che nell’infinito tempo libero a disposizione non fecero altro che dilettarsi in piacevoli pratiche tra le lenzuola.
    Dorian noleggiò una nave da crociera, con tanto di capitano e servitù qualifica e discreta, e invitò Harvey per un viaggetto di tre giorni al largo della costa messicana. In realtà non abbandonarono mai il ponte della nave, dove sulla prua dominava una vasca idromassaggio otto metri per undici, e ammirarono i fuochi d’artificio immersi nell’acqua calda. O almeno Dorian ci provò seriamente a guardarli, non fosse stato per le potenti spinte che il compagno indirizzava con colpi calibrati alla perfezione sulla sua prostata. Harvey, al contrario, se li godette appieno. Sesso e fuochi: l’accoppiata vincente.
    In Italia, pure per Jason e Dominic le cose procedevano bene e celebrarono l’arrivo del nuovo anno sorseggiando champagne sul balcone di casa, scherzando sulla pomposità delle decorazioni delle gondole, delle barche e delle sponde del Canal Grande di Venezia, come una lussuosa parata di gente agghindata con abiti rinascimentali e maschere pittoresche. Jason inviò un messaggio di auguri ad Alan e ripose il cellulare in tasca nell’attimo esatto in cui Dominic intrecciò le loro mani. Due piccole fedine in oro bianco baluginarono riflettendo le luci provenienti dal fiume e dai lampioni e i due si baciarono con passione sotto lo scroscio dello spettacolo pirotecnico che illuminava il cielo notturno.

    I mesi volarono, le stagioni mutarono e giunse la primavera.
    Era un normale pomeriggio di un weekend di metà aprile. A casa Hopkins, Raphael stava terminando di spolverare i mobili ed Alan era a razzolare in giardino con le piante, da lavativo quale era. Non appena sentiva la parola ‘pulizie’ se la svignava puntualmente come un vile e toccava al biondo rimboccarsi le maniche.
    Ad un tratto, l’architetto si incantò a fissare il cielo bluastro e si avvide che era l’ora di cena. Fuori il sole stava scomparendo al di là degli alberi e le rondini svolazzavano tra i nidi per portare da mangiare ai loro piccoli.
    Mentre rimirava quello splendido tramonto, pensò alla sua cara Alicia. Avrebbe voluto che la moglie assistesse allo spettacolo attraverso i suoi occhi. Non era diverso dagli altri, se ne vedevano tanti di simili, perché il giorno moriva oltre l’orizzonte da molto prima che l’umanità cominciasse a calpestare il suolo terrestre.
    Però quello, in qualche modo, era speciale.
    Da quando l’aveva seppellita, era la prima volta che lo pervadeva una dolce, malinconica consapevolezza, la stessa che lei gli aveva insegnato a riconoscere quando era viva: gli uomini non sono che granelli di polvere rispetto all’immensità del creato, eppure, nonostante il loro essere significativamente minuscoli, effimeri e fragili, sono capaci di sprigionare una luce abbagliante e unica, tanto da accecare le stelle.
    Era da molto che non si sentiva così… in pace con tutto.
    Si accasciò sulla poltrona davanti alla finestra del salotto, proprio dove Alicia soleva accomodarsi, con le ginocchia raccolte sotto il mento e la schiena incurvata, in una posa rannicchiata, mentre leggeva uno dei suoi romanzi d’avventura; sfogliava le pagine divorandole con fame insaziabile e aveva sempre trovato affascinante osservare il suo viso concentrato mutare espressione ad ogni rigo.
    Raphael cavalcò le onde dei ricordi, felici ma ammantati di una sfumatura amara, e ogniqualvolta gli capitava di rivangare vecchie memorie, il tempo si riavvolgeva come il nastro usurato di una pellicola. Tuttavia, ad ogni visione, le immagini erano più sfocate, indefinite, opache, un po’ come se stesse osservando attraverso una lastra di vetro appannato. Era divorato dal terrore di rimuovere involontariamente i molteplici episodi che avevano costellato la loro vita, i pochi anni che avevano trascorso insieme come marito e moglie. Ma, senz’ombra di dubbio, non avrebbe mai dimenticato le emozioni che lo legavano a lei, perché il cervello non è che un organo soggetto allo scorrere del tempo, l’anima invece è imperitura come il bagaglio di esperienze che porta con sé. Non avrebbe dimenticato la sua risata, la sua voce, il suo odore, poiché essi avevano già marchiato a fuoco la sua anima, impossibili da cancellare.
    Forse anche Alicia, in quel preciso istante, stava guardando il tramonto, dal Paradiso dove il prete dichiarava che si riversassero gli spiriti dei defunti, e gridava e sorrideva e piangeva simultaneamente, come era solita fare quando si recavano in campagna, d’estate, e impazziva e correva sui prati come una bambina, beandosi del vento e del profumo dei fiori di campo, che danzavano intorno a lei mossi dalla brezza. In quei frangenti, a Raphael dava l’impressione di uno spirito della natura, una creatura selvaggia, incontaminata e piena di candida gioia; un bocciolo piccolo e delicato che attende solamente la prima pioggia per fiorire e mostrare la sua forza e bellezza con meravigliosi e variopinti petali.
    Gli sovvenne della loro gita sul Grand Canyon, quando Alicia gli aveva rivelato di essere incinta di Maggy. Si erano seduti sulla roccia, sul bordo del crepaccio più alto che aggettava proprio sull’abisso, e avevano contemplato in silenzio il sole che calava lento e inesorabile, tenendosi per mano.
    Rammentava il suo sorriso pacifico, la sua pelle lattea baciata dagli ultimi raggi di un tenue arancio e quella strana sensazione di essere al posto giusto al momento giusto, che non sarebbe mai esistito nulla di più sublime. Un singolo, fugace attimo di pura serenità spirituale, che aveva avvicinato le rispettive anime fino a farle collidere, provocando una liberatoria e gentile deflagrazione. Non erano più Raphael e Alicia, ma solo due individui uniti dal destino. Pensieri su quanto fosse fortunato ad averla, quanto la sua vita da sola fosse insignificante in confronto al loro legame - perché lo sapeva, ne era certo come sapeva che il suo cuore batteva, che ciò che li legava non era inscrivibile nei canoni con semplici termini umani, talvolta talmente sterili da non cogliere nemmeno una briciola della vastità del concetto - gli attraversarono la mente, per svanire un secondo più tardi, senza concedergli l’opportunità di analizzarli. Lassù, sulla montagna che rifulgeva di un lieve colore rosato, si era sentito libero.
    Che fossero stati sul Grand Canyon o in mezzo al mare, uno al Polo Nord e l’altra al Polo Sud, bambini o adulti, animali o piante, nuvole o terra, sapevano di appartenersi, come se non potesse essere in altro modo. Erano due ingranaggi incastrati alla perfezione. Raphael lo aveva realizzato appena aveva incrociato gli occhi di Alicia il fatidico giorno in cui la conobbe; ricordò di aver realizzato che l’aveva aspettata da tutta una vita e che il proprio posto era al suo fianco, come il genio imperscrutabile della Natura aveva prestabilito. La rivelazione lo aveva spaventato, all’epoca, ciononostante il cuore che credeva ghiacciato aveva ricominciato a battere nel suo petto. Aveva respirato sul serio, quella volta. L’apnea in cui si era trincerato era terminata di botto ed era riemerso.
    Nel preciso momento in cui l’aveva incontrata, era nato e il suo spirito aveva emesso il primo, straordinario vagito.
    Rimembrava la musica che avevano udito durante quella gita, in bilico sullo strapiombo. A rigor di fatti, era soltanto il vento che soffiava fra le rocce, ma loro ascoltarono quella melodia fino a notte inoltrata, poiché Alicia non voleva andarsene. Gli disse che era la musica della Terra, che mette in relazione tutte le creature viventi e le fa convergere in un solo, grande miracolo.
    Invece, il biondo era convinto che fosse stata lei, il suo miracolo.
    Era un’artista, una maga che si dilettava in antichi incantesimi colorati da imprimere sulla tela con l’ausilio della sua bacchetta magica, una donna capace di cogliere i dettagli e al medesimo tempo avere uno sguardo di insieme. Era una persona eccezionale, non glielo aveva mai detto.
    Tante sarebbero state le cose di cui avrebbe desiderato parlarle o confessarle, tutte cose belle e nostalgiche, ma era inutile dilungarsi, non avrebbe avuto senso e chissà se Alicia era veramente in ascolto.
    A parte che si sentiva leggermente idiota a fingere di chiacchierare con lei nella sua testa.
    Ora, mia cara, devo lasciarti.
    Perché Alicia era tornata, era tornata da lui sotto spoglie differenti.
    Perché lei non era più lì con lui, ma in un luogo dove per adesso non poteva raggiungerla.
    La sua essenza era lì, ancora presente, ma lei non era più.
    Ti ho amata, ti amo ancora e ti amerò per sempre, oltre la morte. Ti ho amata quando eri donna e ti amo adesso che sei uomo.
    Alan era un frammento di lei, l’aveva capito nel preciso istante in cui aveva incrociato il suo sguardo, come in passato, anche se non aveva idea di come fosse anche remotamente possibile. Anche se era decisamente consapevole che Alan, per quanto simile, non era lei e non lo sarebbe mai stato. Solo, il mondo aveva ripreso a girare, di nuovo, esclusivamente per lui, e amava Alan come aveva amato Alicia. L'amore per il fidanzato e quello che aveva provato per la moglie erano identici.
    Spesso, nei suoi momenti di esaltazione, Alicia si soffermava a spiegargli che l’essersi trovati proprio lì, a New York, entrambi nella giusta età, era stato un miracolo. Le probabilità erano una su otto miliardi circa, però il fato, o forse Dio, aveva voluto attirarli l’uno verso l’altra. Magari gli era stata offerta solo un’occasione e non avrebbero avuto modo di rivivere insieme così anche in futuro, se era vero che la vita era soltanto una. Tuttavia, nella lontana possibilità che le anime potessero reincarnarsi, non sarebbe stato bello trovarsi ancora?
    Raphael scrollò la testa e chiuse gli occhi. Non avrebbe dovuto già pensare ad un’altra, ipotetica vita, ma godersi quella presente come se fosse stata l’ultima e amare ancora quell’anima complementare alla propria con tutto se stesso, come non poteva non fare.
    Il sole stava per svanire dietro le villette a schiera e l’aria che respirava dalla finestra spalancata era satura di smog e rumori stridenti. Eppure, in lontananza, udì le flebili note di una melodia. Qualcuno lì nei pressi stava ascoltando Beethoven. Trovò che avesse un che di emblematico: Alicia adorava Beethoven.
    L’albero di albicocche in giardino era fiorito per l’ennesimo anno di fila. Ricordava che la donna amava quando i frutti maturavano, impaziente di arraffarli per farci la marmellata, che veniva sempre troppo dolce.
    Io ti amerò di nuovo, come prima, se non di più, come se non te ne fossi mai andata.
    Non esistevano barriere od ostacoli sufficientemente resistenti per impedirgli di scovarla, era sempre accanto a lui, come un pianeta che gli gravitava intorno. Anzi, era lui, il pianeta.
    Alicia, ti devo dire addio.
    Grazie per i ricordi, che custodirò gelosamente finche non chiuderò gli occhi su questo mondo.
    Grazie per i baci, grazie per i litigi, grazie per nostra figlia, grazie per l’opera d’arte in cui hai trasformato la mia vita.
    Grazie per i colori con cui hai dipinto la mia esistenza.

    Dopodiché, d’ora in avanti, l’avrebbe salutata dicendole: “Bentornata”
    E l’avrebbe accolta con un sorriso.
    “Raphael, che ci fai lì imbambolato?”
    Alan rientrò in casa con un cesto colmo di albicocche.
    “Dai, aiutami a fare la marmellata! Sono sicuro che verrà buonissima!” cinguettò allegro, dileguandosi in cucina con passo saltellante.
    Raphael rivolse lo sguardo sulla schiena ampia di Alan coperta da una maglietta bianca a maniche corte, e lo osservò con calma e indolenza lavare i frutti arancioni sotto l’acqua corrente.
    “Bentornata.” sussurrò in trance.
    “Mh? Hai detto qualcosa?” il rosso si girò di tre quarti e lo scrutò interrogativo.
    “No, niente. Ma stavolta attento a non esagerare con lo zucchero, lo scorso anno era immangiabile. Troppo stucchevole.”
    Alan spalancò la bocca con aria mortalmente offesa. “Non è vero! Era dolce al punto giusto!”
    “Per i tuoi gusti, non per i miei.”
    “Allora ne farò di due tipi diversi, così sei contento.” sbuffò irritato.
    L’architetto ridacchiò appena e infine si voltò verso la finestra.
    Spesso, dopo la morte di Alicia, gli era sembrato più facile e meno dispendioso di energie arrendersi, abbandonarsi alla marea e lasciarsi trascinare alla deriva, senza più preoccupazioni. Ma la possibilità di rialzarsi c’era sempre stata, solo che lui l’aveva ignorata, imprigionato nella sua gabbia di rimorsi. Eppure, se l’avesse colta prima, una volta in piedi avrebbe scorto innumerevoli strade dipanarsi di fronte a sé.
    La paura lo aveva più volte bloccato, tuttavia alla fine aveva provato ad afferrare di nuovo la felicità ed era stato lautamente ricompensato, oltre ogni aspettativa.
    Ad un tratto, si scoprì a trattenere il fiato, colto da un’emozione di pura serenità spirituale. Gli parve di essere seduto sul Grand Canyon, in precario equilibrio sul crepaccio a rimirare il tramonto. Uno strano déjà vu. Senza accorgersene, allungò una mano per afferrare quella che era sicuro trovarsi a pochi centimetri dalla sua. La strinse e torse di poco il collo, per accertarsi di non stare sognando.
    Sorrise quando vide le bellissime iridi verdi di Alan brillare ed egli, lievemente perplesso per la sua espressione persa, si chinò a baciarlo castamente sulle labbra proprio quando il sole emise l’ultimo, tiepido bagliore.


    Potrai non essere il suo primo, il suo ultimo o il suo unico.
    Lei ha amato prima e potrebbe amare ancora.
    Ma se lei ti ama adesso, cos’altro importa?
    Lei non è perfetta e nemmeno tu, e voi due potreste non essere mai perfetti insieme, ma se lei può farti ridere e se entrambi capite di essere umani e che si può sbagliare, allora rimani con lei e dalle tutto ciò che puoi darle.
    Lei potrebbe non pensare a te ogni secondo della giornata, ma ti darà una parte di se stessa che sa che tu potrai rompere: il suo cuore.
    Quindi non ferirla, non cambiarla, non aspettarti di più di quello che lei può darti.
    Sorridi quando ti fa felice, dille chiaramente quando ti fa arrabbiare e senti la sua mancanza quando non c’è.
    [Bob Marley]

    Fine




    Grazie per avermi seguita fin qui, mando a tutti un bacione immenso!
     
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