Il cliente ha sempre ragione

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  1. Lady1990
     
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    “Fabio! Vai a prendere le ordinazioni del tavolo 8!”
    La voce squillante di una donna, mia stimatissima collega. Per modo di dire.
    Rumore di piatti e stoviglie che cozzano gli uni contro gli altri in una cacofonia assordante.
    Bambini che fanno le bizze perché non vogliono le verdure.
    Vecchi che disquisiscono sulla necessità di togliersi o meno la dentiera durante il pasto.
    Una coppietta tutta sorrisi brillanti e pucci pucci.
    “Fabio! Porta queste al 6!”
    Non dovrei trovarmi qui, oggi, durante questo particolare allineamento di pianeti.
    Durante l’ora di punta.
    Ma ho fatto a cambio con un amico e, ghiotto di straordinari pagati quale sono, ho dato la mia disponibilità con uno sfoggio invidiabile di dentatura perfetta e sorrisi smaglianti.
    Me ne sto pentendo. Amaramente, aggiungerei.
    Aperta parentesi: i cani sono ammessi al ristorante?
    Le belve ringhianti mi mettono addosso una certa dose di fatalità, come se il mio io interiore mi mandasse degli impulsi costanti per avvertirmi dell’imminente pericolo che sta correndo la mia giovane ed entusiasmante esistenza.
    Anche se si tratta di un innocuo chihuahua. Non che quello che mi sta fissando sia un chihuahua. Forse qualcosa di simile. Un incrocio tra un topo e un armadillo. Non che io sappia come sia fatto un armadillo.
    Non amo gli animali e gli animali non amano me.
    Questa è l’unica certezza della mia vita, l’unico punto fermo che ho sempre avuto.
    Il resto è relativo.
    Chiusa la parentesi.
    “Fabio! Quelli del 3 vogliono il conto, glielo porti tu?”
    Una vena mi comincia a pulsare sulla tempia destra.
    Ma non lo sai fare tu, brutta femmina rileccata dalla testa ai piedi, con le tue manine di fata? Cosa ci vuole a premere qualche tastino sulla cassina col tuo bel ditino affusolato? Nulla! O forse hai paura di scheggiarti un'unghia?
    Mi sento sfruttato.
    E non è solo una mia impressione, purtroppo: l’ultimo arrivato deve lustrare le scarpe ai colleghi più anziani. È la regola, è una legge non scritta.
    Come raccattare la cacca dei cani sul marciapiede con l’apposito sacchettino che vendono al supermercato in formato famiglia. I padroni delle suddette, micidiali bestiole dovrebbero farlo, ma nessuno lo fa.
    Per questo sono sempre stato dell’idea che il codice civile e il rispetto reciproco sono cose con cui ci si potrebbe pulire il culo.
    Ma sono un bravo bambino, io, chino la testa e faccio quanto mi viene detto.
    Perché ci sono di mezzo i soldi. Per quelli venderei anche la mia nonnina, pace all’anima sua.
    “Fabio! È arrivato un nuovo cliente, è solo, fallo accomodare al 10!”
    E la mancia spetterà a me, baldracca!
    Mi dirigo con aria scazzata verso il nuovo arrivato, che al momento mi dà le spalle. Mi schiarisco la voce per attirare la sua attenzione.
    È un armadio ambulante a quattro ante, due sole è troppo riduttivo.
    Non che io sia smilzo e simile ad una pulce, anzi mi vanto spesso del mio metro e ottanta, ma qui si esagera.
    Che è, un campione di body-building?
    E costui si volta con la lentezza di una tartaruga. No, una lumaca, le lumache sono più lente delle tartarughe. Quei vermicelli dal colore grigio fango, forse un po’ più chiaro; quel colore che ti ispira vomito appena lo vedi.
    Perché sto parlando di lumache?
    All’improvviso, vengo accecato dai suoi occhi azzurro cielo.
    L’attimo dopo cerco di spengerli.
    Lo sconosciuto mi afferra il polso, prima che possa schiaffargli senza tante cerimonie la mano sulla faccia.
    “Sono qui per mangiare, non per attentare alla tua vita.” mi dice con sconcertante cortesia, scioccato del mio gesto.
    Forse ha pensato che volessi colpirlo a causa di quell’aura da serial killer addestrato che si porta dietro.
    Però, Oh Giove, che voce.
    Uno con una voce così me lo farei subito.
    O, in questo caso, mi farei fare subito.
    Mi è venuto un principio di erezione.
    E poi siamo già passati a darci del “tu” al primo scambio di battute?
    Bene, non amo i preliminari.
    “Io attenterei volentieri alla tua.” non so da dove mi sia uscita questa, ma lo vedo sgranare quegli zaffiri che ha incastonati in mezzo al viso. Almeno venti carati ciascuno. Ma i carati valgono per gli zaffiri?
    Adesso ho un’erezione.
    “Ci terrei a tornare a casa illeso, e soprattutto sazio.” mi sorride sornione, avendo capito l’antifona, pur senza perdere il contegno raffinato che pare irradiare da ogni poro.
    Oppure è soltanto la mia brutta abitudine di distorcere la realtà e rimodellarla a mio piacimento a farmi vedere le avances dove non ce n’è nemmeno l’ombra, chissà.
    Ma sono qui per lavorare, non per cincischiarmi col primo stuprabile esemplare di maschio adulto che mi capita a tiro. E che esemplare, ci tengo a precisare.
    “Vieni, ti conduco al tavolo.”
    “Mi conduci?”
    “Sì. Di solito sono io che domino il gioco.”
    “Non con me.” ghigna il mio nuovo sogno erotico.
    Scuote con una mossa palesemente studiata la chioma bronzea e si toglie il giubbotto di pelle marrone, appoggiandolo sullo schienale della sedia.
    Gli porgo il menù.
    Mi siedo davanti a lui, leggermente sporto in avanti col busto.
    Mister Ormoni mi squadra perplesso con un sopracciglio inarcato, in un'espressione che vedrei bene sul viso di un aristocratico inglese, o francese, di quelli con la classica puzza sotto il naso.
    “Di solito i camerieri se ne vanno e lasciano decidere i clienti in tranquillità.” mi fa giustamente notare.
    Sbaglio, o il suo tono si è fatto più suadente?
    “Io sono diverso, speciale.” ammicco.
    Credo di aver fatto la figura del deficiente, sennò non mi spiego perché tutto a un tratto si sia messo a sghignazzare sotto i baffi. Baffi che non ha, solamente a titolo d'informazione.
    Ha il viso completamente glabro come il culo di un neonato.
    “Lo vedo. Flirtare durante il lavoro, però, è proibito per tutti, a quanto so.”
    Mi irrigidisco.
    Mi giro a guardare verso la cassa.
    Il mio capo mi sta incenerendo con gli occhi fuori dalle orbite. Mi sento andare a fuoco. Forse morirò per autocombustione.
    “Cazzo. Torno tra cinque minuti.”
    “A presto.” mi saluta, scuotendo una mano nel tipico saluto di quella mummia della regina Elisabetta.
    Quanto sarò imbecille?
    Però, come posso restare impassibile di fronte a Mister Fascino Magnetico?
    A proposito, l’armadio a quattro ante ce l’avrà un nome?
    Lo fisso. Lo scruto. Gli faccio la radiografia, tamburellando la penna sul blocchetto delle ordinazioni. Che figo pazzesco.
    Mi ricorda vagamente il mio primo fidanzato, di stazza sono molto simili.
    Mi prese la verginità in una Fiat Panda cinque posti. Non reclinò nemmeno i sedili, andammo dietro. Quando venni sulla carrozzeria della macchina di suo padre, mi disse: “Ora sai cos’è il sesso”. La traduzione di questa frase a cui sono giunto a posteriori è qualcosa del genere: “Ti ho attaccato la bronchite.”
    Il giorno seguente aver dato via la mia virtù, infatti, mi sono beccato la bronchite.
    Non l’ho più rivisto, ci lasciammo ventiquattro ore dopo, per messaggio sul cellulare.
    Avevo sedici anni ed ero un cretino, perciò credo di essermelo meritato.
    La mia collega mi studia da trenta centimetri di distanza.
    Quand’è che si è avvicinata così tanto, invadendo il mio sacro spazio vitale?
    Che vada a ficcarsi le unghie smaltate di quell’orribile verde mela su per il naso.
    Ha un bel naso, tutto sommato. Non lei, il figo, quello che mi ricorda il mio primo fidanzato. Vagamente, però.
    “Fabio? Il cliente si sta sbracciando, non lo vedi?” cantilena con la sua vocina flautata.
    Adesso le ficco il blocchetto in gola solo per il gusto di vederla annaspare e soffocare lentamente e in totale agonia.
    Vado.
    Sono pronto.
    Sono carico.
    Sono il migliore e sono conscio di esserlo.
    In un nanosecondo sono da lui.
    “Mi sfugge il tuo nome.” sparo senza giri di parole.
    Si blocca un momento prima di aprire bocca. Mi guarda e mi regala un sorriso assassino.
    “Ermenegildo.”
    Che nome altisonante. È chiaramente falso, nessuno al giorno d’oggi si chiamerebbe in questo modo assurdo e antiquato. A meno che i suoi genitori non lo odiassero così tanto da volergli rovinare la vita sin dalla nascita.
    Sto al gioco.
    “Io sono Venceslao, piacere di conoscerti.”
    Ci stringiamo la mano.
    Ha una stretta forte e virile, come immaginavo.
    “Piacere mio, anche se mi è sembrato che l’oca giuliva laggiù, vicino alla cassa, ti abbia chiamato Fabio, poco fa.”
    “E’ il mio soprannome.”
    “Il mio è Luca. Allora non ti dispiace se ti chiamo Ven?”
    “Solo se tu mi permetti di chiamarti Ermy.”
    “Mi piace. Sì, te lo consento.”
    “Bene, Ermy. Hai deciso cosa prendere?”
    “No, in realtà. E devo ammettere che sono rimasto alquanto deluso.”
    Aggrotto le sopracciglia: mai nessuno si è lamentato delle pietanze del ristorante.
    “Potrei saperne il motivo?”
    “Tu non ci sei, sul menù.” spiega, imbronciandosi come un bambino.
    “Sono un extra. Verrò servito dopo l’ammazzacaffè.” ghigno, appoggiando la mano col blocchetto su un fianco e guardandolo dall’alto.
    “L’ammazzacaffè?”
    “Sì. Prima viene l’antipasto, poi il primo, il secondo con contorno, il formaggio, il dessert, il caffè e l’ammazzacaffè. Vale a dire la grappa. Ne abbiamo di diversi tipi.”
    “E tu arrivi soltanto dopo tutto questo?”
    “Già, ma sono economico. Potrei farti un prezzo stracciato.” gli faccio l’occhiolino.
    Ovviamente, se accetta, non gli farò pagare niente. Non sono mica una prostituta!
    Pondera l’idea per un minuto, poi punta i suoi occhi da infarto nei miei.
    “Per oggi credo che un secondo con contorno possa bastare. La prossima volta verrò qui digiuno, cosicché potrò arrivare alla fine senza scoppiare. E potrò assaporare il piatto extra.”
    Peccato. Anche stasera andrò in bianco.
    Però ha detto che tornerà.
    “Quindi cosa ti porto?”
    “Bistecca di maiale con verdure grigliate.”
    “Da bere?”
    “Acqua.”
    “Sei astemio?”
    “Solo quando non bevo alcool.”
    “Capito. A dopo.”
    “Ciao ciao.”

    È passata una settimana e ancora non si è fatto vedere.
    E pensare che ho fatto in modo di fare più turni possibili per incontrarlo.
    Ingrato.
    Cammino con cinque piatti in equilibrio precario sulle braccia verso il tavolo 4, dove una famigliola chiassosa sta discutendo sul giusto utilizzo dei cucchiaini da dolce. Il padre difende strenuamente la propria convinzione che essi non siano fatti per alitarci sopra e attaccarseli alla punta del naso.
    Non sono d’accordo con lui, avrei da ridire, potrei anche aprire un dibattito approfondito sulle posate.
    La gente è ignorante.
    Li servo e torno in cucina.
    Sono le due passate, quando una comitiva composta da tre ragazze e un ragazzo entra nel ristorante, parlottando e ridendo.
    È lui. È arrivato, finalmente.
    Corro ad accoglierli prima che lo faccia la mia collega con le unghie verde pisello. Sempre meglio che il verde mela della settimana scorsa.
    “Benvenuti.” rivolgo un sorriso smagliante a Mister Universo e lo guardo intensamente.
    Ricambia.
    Mi aspettavo che venisse solo, invece è accerchiato da un trio di femmine starnazzanti.
    “Ciao, Ven, vorremmo un tavolo.” dice Ermy ed io li faccio sedere vicino alla finestra, all’unico tavolo da quattro rimasto libero.
    Poso i menù di fronte a loro e faccio per andarmene, quando una delle oche mi ferma.
    “Siete anche un bar?”
    “All’occorrenza.” rispondo attonito.
    “Bene, grazie.”
    Cioè, vengono in un ristorante e pretendono di stare in un bar? Va bene che siamo versatili, ma ce n’è uno proprio dietro l’angolo, stupida gallina!
    Do loro tempo dieci minuti, poi torno per le ordinazioni.
    Oggi Ermy ha gli occhi più espressivi dell’ultima volta, deve essere di buon umore.
    È lui che parla e il suo timbro profondo mi sconquassa gli ormoni.
    “Allora prendiamo: un caffè decaffeinato, un tè deteinato, una birra senza alcool, una pasta dolce senza glutine, un bombolone senza ripieno, una pizza Napoli senza capperi e acciughe, un succo di pompelmo senza zucchero e un cappuccino senza schiuma. Io da bere vorrei un bicchier d’acqua. Senza bolle.”
    Lo guardo sconcertato, ho smesso di scrivere dal tè. “A livello molecolare, l’idrogeno nell’acqua lo lasciamo o vuoi che ti togliamo anche quello?”
    Ridacchia.
    “Dai, scherzo.” scarabocchio qualcosa sul blocchetto.
    “Nessuno che mangi, nessuno che beva. Cosa darei per qualcosa di sanamente nocivo.” mormora con finta aria sconsolata.
    “Non ti basta la vita che fai?” interviene una delle amiche.
    “Ah ah.”
    “Dai, scherzo.”
    Li lascio alle loro chiacchiere e vado dietro il bancone per preparare le cose che hanno chiesto.
    Soggetti interessanti.
    Ma ce l’abbiamo le paste senza glutine?
    Nel frattempo, non posso fare a meno di incantarmi sulle labbra del mio Ermy. Sì, mio, perché dopo aver fatto cinque o sei sogni a luci rosse con lui come protagonista ho acquisito il diritto divino e incontestabile di considerarlo come una mia esclusiva proprietà.
    Non so nemmeno se ha il ragazzo.
    I menage à trois non mi dispiacciono, ma preferisco essere l’unico a godere delle attenzioni del partner in camera da letto.
    Dopo circa un quarto d’ora, faccio ritorno con un vassoio pieno di bicchieri, tazze e piattini.
    “Sposta la borsa, c’è il cameriere con la roba.” dice una delle tre grazie alla sua vicina.
    “Per chi è il prosciutto senza grassi?” chiedo.
    “Per me, sennò stanotte non dormo.” risponde una biondina.
    “Avevo ordinato del prosciutto?” fa Ermy, piuttosto stranito.
    “Ho letto fra le righe.” gli spiego.
    “Ah ah.”
    “Buon appetito.”
    Finisco di servirli e vado a rintanarmi negli spogliatoi sul retro. Il mio turno è finito.
    Casa mia consiste in un modesto bilocale con cucina abitabile, camera da letto e bagno. Per vivere da solo basta e avanza.
    Scaravento con noncuranza il giubbotto di jeans sul divano e le chiavi sul comodino accanto all’ingresso. Mi fiondo in camera, smanioso di gettarmi sul mio letto a due piazze. Lo stress che ho accumulato in questa settimana comincia a farsi sentire. Mi metto in ginocchio e guardo fuori dalla finestra. Mi diverte spiare i vicini.
    D’altronde, non ho la tv, perché il canone è troppo caro e già sono in ritardo sul pagamento dell’ultima bolletta del gas.
    Sul marciapiede sotto la mia palazzina un bambino di ritorno da scuola sta camminando tranquillo e beato con l’Ipod nelle orecchie. Il mio primo iPod l’ho avuto a diciotto anni, ai miei tempi c’era lo walkman, prima solo per le cassette, poi anche per i cd.
    Gioventù bruciata.
    Il bambino incespica e cade in una pozza di fango oltre il bordo del marciapiede. Ha finito di piovere ieri, quindi è ancora abbastanza grande. Ci cade dentro di faccia. Tripudio di gioia del sottoscritto.
    Sicuramente l’iPod ha fatto una brutta fine. Ben gli sta.
    Si è infradiciato tutto, tranne la schiena. Quella è ancora asciutta.
    In questo momento vorrei salire sulla mia utilitaria e passare con le ruote proprio su quella pozzanghera per bagnare per bene quell’infante.
    Mi irritano le persone che fanno le cose a metà.
    È una questione di principio.
    Come gli uomini che a fine serata ti sbaciucchiano sul portone di casa, ti infilano due metri di lingua in gola, ti fanno una meticolosa tonsillectomia e poi ti augurano la buonanotte.
    Falliti.
    Avrò anche le mie nevrosi, ma sono pur sempre nevrosi giuste e salutari. Come una ciotola di insalata, che personalmente odio - infatti, fin da piccolo ero fermamente convinto di avere il sacrosanto e legittimo permesso di essere esonerato dal mangiare lo stesso cibo delle tartarughe di terra. Però non voglio venire frainteso, io amo le tartarughe. Ne avevo una, da bambino. A casa avevamo il giardino. Si chiamava Ugo.
    Non il giardino, la tartaruga.
    È ancora viva, a quanto ne so. Ormai avrà quasi un secolo. Mio nonno la regalò a mia nonna per le loro nozze.
    Chiusa la parentesi, io preferisco chiamarle pignolerie.
    Ad esempio, detesto i cuscini sul divano. Perciò, se ce li vedo sopra, li schiaffo sul pavimento senza troppi preamboli.
    Odio il basilico nella pasta al pomodoro.
    Odio guardarmi allo specchio e trovare la superficie riflettente completamente linda, mi viene l’impellente impulso di schizzarla con un po’ d’acqua.
    Odio portare le mutande sotto i pantaloni attillati, quindi molto spesso non le indosso.
    Non sono nevrosi, sono fissazioni.
    È una questione di sfumature.
    È una questione di principio.
    Voglio Ermy.
    Chissà come sarebbe sentirlo muovere dentro di me?
    È da tanto che non faccio il passivo, dovrò forse prepararmi?
    Urge un vibratore, che non ho.
    Ho il presentimento che farà male.
    Beh, nessun problema, l’importante è che poi mi faccia godere.
    Ermy dagli occhi come fari da stadio.
    Il mio cellulare squilla. È mia madre che mi chiama, sicuramente per rimproverarmi di qualcosa. Anche se non ho fatto niente, una ragione la trova lei, non mi devo preoccupare. Anche il non aver fatto niente è una colpa. Serve solo un po’ di fantasia e saper toccare i tasti giusti, dopodiché l’apocalisse è garantita. Una bomba atomica farebbe meno danni, senza dubbio.
    Rispondo.
    “Hola!”
    “Che razza di saluto è? Non si dice più buongiorno alla propria madre?”
    “Acida. Sei acida come un barattolino di yogurt Vitasnella senza zucchero e con lo 0,1% di grassi.”
    “Imbecille. Piuttosto, ti piacciono ancora gli uomini?”
    “Sono tornato sulla retta via, adorata madre.”
    “Davvero?” soffia incredula e con una nota di speranza nella voce.
    “No.”
    “Imbecille.”
    “Ti voglio bene anch’io.”
    “Se non fosse per tuo fratello maggiore che ti difende a spada tratta, ti avrei già diseredato.”
    “Non mi dai più la paghetta da quando avevo sedici anni, è più o meno la stessa cosa.”
    “Almeno lui si è sposato e ha dei figli!”
    “Tranquilla, se tutto va bene, mi sposerò anch’io.”
    “Ma non puoi!”
    “C’è chi può e chi non può. Io può. In Spagna!”
    “Imbecille.”
    Le mando un bacio a schiocco attraverso l’altoparlante.
    “Comunque sia, va tutto bene? Mangi? Lavori?”
    “Sì.”
    Silenzio.
    “E…?”
    “La risposta a tutte le tue domande è sì. Che altro c’è da aggiungere?”
    “Ho messo al mondo un imbecille.”
    “Grazie ma’! A presto! Saluta papà e dai un bacino a Ugo.”
    “No.”
    “Ti adoro.”
    Riattacco e mi stendo sul letto. Sono esausto, i neuroni non rispondono agli stimoli poco convinti che invio loro. Credo che mi farò un meritato pisolino.

    Mi ha invitato a uscire. È venuto apposta al ristorante e mi ha invitato a uscire.
    Appuntamento.
    Da quanto le mie orecchie non si beavano di questa parola?
    Che suono dolce.
    Mentre me lo chiedeva, il suo sorriso era quanto di più lascivo abbia mai visto. Se continua così, gli salto addosso prima dello slinguazzamento sul portone di casa. E spero che non mi dia la buonanotte.
    Voglio un buongiorno, per mille fulmini e saette!
    Sono immobile davanti all’armadio da circa mezzora. Dico così perché ogni tre per due guardavo l’orologio per sincerarmi del tempo che rimaneva. Ventotto minuti che io e l'armadio ci troviamo a tu per tu, e finora non c'è stato un vincitore.
    Giove, Allah, Dio, Buddha, ditemi, perché io che sono un uomo, sono nato uomo e normalmente penso come un uomo, adesso mi trovo ad affrontare lo stesso problema di una donna prima di uscire con lo spasimante?
    Perché sto riflettendo, anche seriamente, sul dilemma biancheria sexy o non biancheria sexy o direttamente non biancheria?
    Perché sono indeciso tra una camicia nera e un’altra blu scuro quasi nero?
    È una questione di sfumature, credo.
    Meglio andare sul sicuro, mi metto quella lilla.
    Sta bene sui jeans chiari.
    Sono le sette, sarà qui a minuti. Mi sudano le mani.
    Mi do una sistemata ai capelli con un po’ di gel e stiro le ciglia.
    Mi scoperei.
    Il campanello suona e mi lancio come un razzo verso la porta, non prima di aver preso le chiavi di casa e quelle della macchina. Non so dove vuole portarmi, non me l’ha detto. Sono eccitato come una scolaretta.
    Apro il portone e me lo trovo davanti in tutta la sua magnificenza di muscoli e gemme azzurre.
    È proprio necessario uscire? Non si potrebbe saltare qualche tappa e andare subito al sodo?
    “Ciao, Ven.” mi sorride seducente.
    “Ciao, Ermy. Vuoi scopare?”
    “Dopo. Prima conosciamoci meglio.”
    “Boyscout del piffero.” sbuffo.
    Ride e mi prende per mano.
    Ottimo, non è uno di quei tipi che si vergognano della propria omosessualità.
    Più venti punti.
    Mi propone di andare a mangiare qualcosa in un posticino carino ed economico ed io lo seguo giulivo ed elettrizzato. Romantico.
    Ci fermiamo davanti al McDonald’s.
    Prendo delle crocchette di pollo, non voglio appesantirmi troppo.
    “Allora, che fai nella vita?” mi domanda.
    Infilzo una crocchetta con la cannuccia, di cui ho reso un’estremità appuntita con un esperto gioco di dita.
    “Lavoro al ristorante.”
    “E basta? Non studi?”
    “Non ho abbastanza soldi per pagarmi la retta universitaria.”
    “Quanti anni hai?”
    “Venti. Tu?”
    “Venticinque. Studio marketing.”
    “Bello. Diventerai ricco.”
    “Lo sono già. Mio padre è amministratore delegato di una multinazionale di detersivi per i piatti.”
    “Quindi non hai la lavastoviglie.”
    “No, no, ce l’ho. Non mi piace sporcarmi le mani.”
    “Maniaco del pulito, immagino.”
    “Solo quando c’è sporco.”
    “Capisco. Mi fanno tenerezza i ricchi.”
    “Ti faccio tenerezza?”
    “Sì, mi viene voglia di coccolarti.”
    “Dopo. Prima conosciamoci meglio.”
    “Boyscout del piffero.”
    Si porta dietro l’orecchio un ciuffo di capelli color bronzo e non posso fare a meno di pensare che vorrei affondarci le dita. Ora. Subito.
    “Interessi?” chiede.
    “Spiare i vicini. Quando litigano sono uno spasso.”
    “Scopano?”
    “Non credo, hanno ottant’anni.”
    “Teneri.”
    “Tu?”
    “Cercare di vendere qualsiasi cosa mi capiti sotto mano, persino una cannuccia. È la mia vocazione.”
    “E’ una fissa.”
    “No, è il sogno di una vita. Pensa, fare montagne di soldi vendendo cannucce. Le puoi usare per moltissime cose: per bere bibite gassate, il brodino quando hai la febbre, per scaccolarti, per mordicchiarla come antistress, per infilartene un paio su per il naso e fare lo scemo con gli amici o per inserirla nella serratura di una porta e spiare i genitori o il tuo migliore amico che si scopa la ragazza.”
    “Il tuo sogno è vendere cannucce, insomma.”
    “Sono già sul mercato. Dovrò inventarmi qualcosa di nuovo, innovativo, geniale.” guarda lontano, come se fosse già proiettato verso il futuro.
    “Che ne dici di cannucce per le crocchette di pollo?” butto lì.
    “Cioè?”
    “Beh, alle volte scoccia sporcarsi le mani, soprattutto quando sei di fretta o i cassieri non ti servono i tovaglioli di carta. Per evitare inutile stress, ecco delle cannucce per mangiare senza fastidi e con raffinatezza la spazzatura dei fastfood.”
    “Ti voglio come socio in affari.”
    Mi schermisco lusingato: “No, no, sono soltanto un cameriere.”
    “Cosa c’entra? Prendi Hitler. Faceva il muratore ed è diventato il capo di una nazione.”
    “Mi stai paragonando a un tiranno?”
    “No, volevo solo farti capire che il mondo è pieno di possibilità, di ricchezza, di idee che aspettano soltanto di essere messe in commercio. Oggi sei un cameriere, domani il dirigente di un’azienda con succursali in tutti i continenti. La prima tappa sarà la Cina.”
    “Perché?”
    “E’ un ottimo trampolino di lancio, perché la popolazione consta di milioni e milioni di persone e la manodopera è economica.”
    “Hai già pensato a tutto, eh?”
    “Sono lanciato verso l’avvenire. Il marketing è il presente e l’avvenire. Il mondo gira intorno ai soldi.”
    “Se i Greci ci sentissero, si rivolterebbero nella tomba. Loro, che si vantavano facendo i filosofi a destra e a manca, inneggiando a distaccarsi dai beni materiali e a prediligere la riflessione, proprio come i santi del cristianesimo. Anche gli Ebrei, dove la vogliamo mettere la parola di Gesù?”
    “Grand’uomo, ma non ha tenuto conto dell’immenso potere del marketing. Da che mondo è mondo, la gente baratta i propri averi con altri di cui necessita maggiormente, fin dall’era primitiva. Poi è arrivata la moneta, ma è comunque una forma di baratto. All’epoca si parlava di clave, adesso tutti hanno una televisione.”
    “Sì, d’accordo, ma il concetto di ‘commercio’ è venuto molto dopo.” sorseggio il mio bicchiere di cocacola.
    “Magari sì, però l’idea c’è sempre stata. Gli uomini vivono di scambi, senza quelli non ci sarebbe la società. Per esempio, se ti venisse data la possibilità di incontrare il fondatore di una multinazionale, a chi penseresti?”
    “Al creatore dei pavesini.”
    Mi fissa perplesso.
    “Vuoi mettere la valanga di soldi che ha quello? Gli usciranno anche dal culo.”
    “Perché proprio i pavesini?”
    “E’ sempre l’ora di pavesini.” dichiaro solenne. “Comunque, tirando le somme, il sunto di tutto il discorso è che viviamo in un mondo di merda.”
    “Già, ma preferirei il termine ‘escrementi’.”
    “Boyscout del piffero.”

    Stiamo passeggiando sul marciapiede, mano nella mano, e non mi sono mai sentito così leggero, al posto giusto nel momento giusto. E con la persona giusta.
    Sento che è lui.
    Stavolta l’ho trovato.
    Parlandoci, ho scoperto che siamo tutti e due dei nevrotici di tutto rispetto, io per certe cose, lui per altre.
    Gli piace vivere nel pulito, nell’ordine, circondato dalla materialità e dai manuali di economia aziendale. Gli piace fare sport per tenersi in forma, poiché un aspetto tonico e sano è il primo biglietto da visita, a quanto dice. Gli piacciono gli animali, ma non ne ha mai avuto uno. Gli piacerebbe conoscere Ugo.
    Gli ho risposto che non se ne parla. Conoscere Ugo è la naturale conseguenza del conoscere mia madre. No. Assolutamente no.
    Preferirei della cicuta nell’orecchio.
    Ora mi ha passato un braccio intorno ai fianchi.
    Il mio cuore si sta cimentando in una personale interpretazione della danza maori. Per l’eccitazione mi metterei pure a ballarla in mezzo alla strada.
    La serata promette bene, non vedo l’ora di giungere sul portone di casa.
    “Ti va se ci sediamo?” gli chiedo. Voglio stargli appiccicato come si deve, voglio spalmarmi come Dio comanda sui suoi pettorali scolpiti e avvertirne il calore attraverso la stoffa dei vestiti.
    Acconsente e ci appropriamo di una panchina al margine del parchetto che stavamo costeggiando.
    Mi approprio del suo braccio destro e di metà del suo corpo.
    Lui si appropria delle mie labbra.
    Non ci sarà bisogno di aspettare la scena del portone.
    Ah, che meraviglia... bacia divinamente.
    Le nostre lingue ruotano, lottano, si rincorrono senza tregua e mi sembra di essere in paradiso. È sempre stato così che volevo essere baciato, con ferocia, desiderio, passione, ingordigia, come se fossi una bambola di pezza. Inoltre, cosa assai apprezzabile, non sbava.
    Caspita, certe volte mi è capitato di baciare ragazzi che parevano la reincarnazione di un cammello. Schifo.
    Ma torniamo a noi, a me, a lui, a quella panchina testimone delle nostre effusioni senza controllo. Chissenefrega se siamo in pubblico.
    Lui, però, si stacca e mi scruta intensamente, gli occhi luccicanti di promesse e sesso sfrenato e selvaggio.
    Colgo la palla al balzo.
    “Andiamo da me, Ermy? Ci siamo già conosciuti abbastanza.”
    Mi sorride e non serve altro, davvero non serve. “Con molto piacere, Ven.”

    Le sue dita percorrono il mio corpo come artigli incandescenti, mi accendono i sensi e abbattono ogni mia inibizione. Non mi sono mai sentito così voglioso di un corpo, così smanioso di essere posseduto, rigirato come un calzino.
    Le sue labbra scorrono roventi sulla mia pelle imperlata di sudore, provocandomi mille brividi di piacere e aspettativa.
    Non c’è pudore, non c’è vergogna.
    Siamo soltanto io e lui. Venceslao ed Ermenegildo. Fabio e Luca.
    I vestiti giacciono abbandonati come cadaveri sul pavimento, ci siamo disfatti presto delle nostre corazze, per finire avvinghiati sul mio letto in un intreccio di mani, gambe e lingue.
    Accarezzo il suo torace, così virile, forte, possente e mi sento andare a fuoco. Scendo sui fianchi, ne saggio la consistenza, li modello, sono impaziente di vederli ondeggiare fra le mie cosce. Scivolo ancora e circondo il suo membro eretto con le dita, cominciando subito a massaggiarlo.
    Ermy è sopra di me, mi guarda, osserva ogni minimo cambiamento espressivo sul mio viso.
    Mi sento venerato.
    Il suo respiro si fa ansante e il suo bacino inizia a muoversi per venire incontro ai miei tocchi esperti, preda dell’euforia e della frenesia che l’odore del sesso risveglia nelle cellule e nelle fibre di un uomo. È un istinto animale, primitivo, indomabile, imprevedibile, brutale, senza alcun sentimento.
    Mi bacia, mi morde, mi lecca il collo, le clavicole, i capezzoli turgidi e i nostri gemiti si mischiano come una melodia antica quanto il mondo.
    Il contatto non è mai sufficiente, le nostre pelli sfregano l’una sull’altra affamate e bramose e ormai manca poco prima di giungere al limite di sopportazione, al culmine a cui la nostra anima anela.
    Affondo le mani nei suoi capelli color bronzo lunghi fino alle spalle, mi immergo nei suoi occhi azzurro vivo, saggio la morbidezza delle sue labbra carnose e il desiderio cresce esponenzialmente.
    Maledico l’oscurità della camera, vorrei avere più luce per scoprire ogni dettaglio.
    Mentre vezzeggia il mio sesso con una mano, sposta l'altra un po' più giù e infila due falangi dentro di me, preparandomi, rilassandomi e allargandomi per l’intrusione che presto avverrà.
    Non mi importa del fastidio, del bruciore, dei miei muscoli interni non più abituati a un simile trattamento, tutto passa in secondo piano quando mi bacia, facendomi sentire bello, appetibile e al sicuro.
    Mi fido di lui, anche se ci conosciamo da poco; mi fido e gli permetto di dominarmi, di piegarmi al suo volere e alla sua voglia.
    Gemo, sussulto, ansimo e lui sorride.
    Gli passo un preservativo, i preliminari sono durati abbastanza e ora è tempo che le nostre carni si fondano in una sola, in un vortice di sensazioni e tremiti accaldati. Lo indossa velocemente, mi solleva le gambe e comincia a spingere.
    Reprimo un grido di dolore, ma non voglio che si fermi, che vada piano, che mi tratti con i guanti. Non sono una femminuccia lacrimevole e delicata e, per quanto mi lusinghino queste sue attenzioni, non ne ho bisogno. Sono un uomo anch’io e comprendo benissimo, meglio di chiunque altro, il suo desiderio di affondare completamente, con impeto nel mio corpo.
    Lui afferra il messaggio, un rapido scambio di sguardi lussuriosi, e prende a muoversi e a oscillare i fianchi con vigore, con forza, con violenza, facendomi vedere le stelle dal male che mi sta infliggendo.
    Sono un uomo e sono omosessuale. So che il piacere arriverà, prima o poi, so come stimolarmi e stimolare lui, so cosa fa andare fuori di testa un maschio.
    Stringo l’ano e lo sento emettere un ringhio roco. Inizio a farmi una sega e recupero la distanza che ci separa, cavalcando insieme a lui le onde dell’euforia e dell’istinto primordiale. Scaccia la mia mano, sostituendo la sua nel massaggio convulso che mi stavo regalando, e aumenta il ritmo della spinte, deflorandomi con virile compiacimento e la dolcezza di un amante.
    Con poche ultime stoccate dirette unicamente alla mia prostata riversiamo all’unisono i nostri semi, lui dentro di me ed io sul suo ventre piatto, scossi da infiniti brividi e stille di sudore. Finalmente sazi e appagati.
    Esce, si sfila il profilattico e si stende su di me, coprendomi con la sua mole imponente. Mi accarezza gentilmente i capelli, mi stampa un bacio umido sulle labbra e mi sorride ancora.
    Sento che mi sono innamorato del suo sorriso. Voglio vederlo tutti i giorni, per sempre, quando vado a dormire e quando mi sveglio al mattino.
    È tutto perfetto. Per la prima volta è tutto magicamente perfetto.
    Spero non se ne vada prima del sorgere del sole.

    “Fabio! Quei primi vanno al tavolo 2!”
    “Sì, padrona.” imito la voce di uno schiavetto nero.
    Il ristorante è pieno come al solito e per l’ennesima volta mi chiedo cosa ci faccio qui, oggi, durante questo particolare allineamento di pianeti.
    Durante l’ora di punta.
    E quando incrocio il suo sguardo accecante e il suo sorriso dal tavolo 8 smetto di farmi inutili domande.
    Servo la coppietta del tavolo 2 e mi avvicino con disinvoltura al mio Ermy. Sì, mio, perché dopo aver fatto cinque o sei sogni a luci rosse con lui come protagonista e averci scopato svariate volte ho acquisito il diritto divino e incontestabile di considerarlo come una mia esclusiva proprietà.
    Adesso sono io il suo ragazzo e quasi non riesco a credere che siano passati due anni.
    Alla fine, gli ho fatto conoscere Ugo, con tutto ciò che questo comporta.
    “Ciao, Ermy.”
    “Ciao, Ven.”
    “Cosa prendi?”
    “Non so, in verità sono rimasto alquanto deluso.”
    “Potrei saperne il motivo?”
    “Tu non ci sei, sul menù.”
    Ghigno e gli ammicco con fare seducente. Mi piego e accosto la bocca al suo orecchio. Poi gli sussurro: “Provvederò al più presto. D’altronde, il cliente ha sempre ragione.”
    E va bene così.


    Edited by Lady1990 - 24/10/2013, 12:38
     
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  2. cimini89
     
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    Brava Lady!!Mi piace proprio questa storia!

    Tonia
     
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  3. Lady1990
     
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    Grazie! Sono felice che ti sia piaciuta! :) <3
     
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2 replies since 24/10/2013, 08:42   95 views
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