All I can do is try

capitolo 1

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  1. Lady1990
     
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    Raphael sbadigliò e si rigirò nel letto, disturbato dalle risate e dagli schiamazzi provenienti dal piano di sotto. Con gli occhi cisposi e impastati di sonno scrutò la camera con aria vacua e intontita, prima di rendersi conto che il posto accanto al suo era vuoto e freddo. Emise un mugugno confuso e sbatté le palpebre una decina di volte. Guardò la sveglia e, dopo aver preso nota che erano solo le dieci del mattino, grugnì infastidito. Era mai possibile che neppure di domenica potesse dormire come si deve? Si alzava tutti i giorni alle sei per andare a lavoro, compreso il sabato, perciò non credeva di essere nel torto quando pretendeva di restarsene a poltrire indisturbato fino all’ora di pranzo almeno una mattina a settimana. Ma evidentemente le due pesti che vivevano sotto il suo stesso tetto non erano del medesimo avviso.
    Scostò le coperte con un gesto brusco e si alzò, infilò i piedi nudi nelle pantofole e scese le scale in pigiama per andare a controllare che i suoi adorati uragani non stessero combinando qualche disastro, perché non sarebbe certo stata cosa nuova. Anzi, si poteva dire che qualche bicchiere o piatto rotto, qualche mobile rigato, qualche telecomando mangiucchiato e qualche sostanza più o meno identificabile sparsa sul pavimento rientrassero nell’ordinaria amministrazione.
    Dalla cucina proveniva un inquietante spentolio e un cozzare continuo di posate, nonché un profumino che gli fece gorgogliare lo stomaco in modo imbarazzante. Un grido spezzò improvvisamente l’aria e l’uomo affrettò il passo, caracollando giù per le scale e rischiando di rompersi l’osso del collo quando evitò per un pelo di inciampare in un angolo della moquette che spuntava da sotto il cassettone antico dell’ingresso, regalo di nozze dei suoi genitori. Per l’ennesima volta si ripromise di chiamare qualcuno per far incollare quel maledetto pezzo di stoffa, prima che lui o la sua famiglia ci rimettesse le penne.
    Giunse in cucina e ciò che vide gli fece venire voglia di aggrapparsi con due mani allo stipite della porta e sbattere ripetutamente il cranio sulla superficie fredda e delicata dell’intonaco.
    “Oh, buongiorno, amore!” lo salutò una donna con un caschetto di capelli neri e un sorrisone a trentadue denti. Questa si pulì le mani sporche sul grembiule, che, giusto a titolo d'informazione, riportava l’immagine riprodotta nei minimi particolari di un bel torace maschile e al livello del pube una scritta che recitava “Ma dove guardi? Non ti vergogni?” in rosso, e gli venne incontro giuliva.
    Lo baciò con trasporto e dopo un paio di secondi un gridolino molto simile a quello che Raphael aveva udito dianzi gli perforò i timpani, stordendolo.
    “Bleah! Che schifo!” fece la bambina in piedi su uno sgabello dietro il tavolo da pranzo, paonazza in volto e con una smorfia che esprimeva disgusto.
    La donna ridacchiò e si staccò, per poi tornare a dedicarsi all’impasto abbandonato sul tagliere.
    Ora che l’uomo ci faceva caso, sua moglie aveva la faccia impiastricciata qua e là di farina e la bimba, invece, tutto il pigiamino con i coniglietti sporco di quello che sembrava albume d’uovo.
    “Che diavolo sta succedendo?” esalò con un rantolio, non tanto convinto di volerlo veramente sapere.
    “Prepariamo la pizza!” esplose la piccola, raccogliendo una manciata di farina e tirandola in aria.
    La nube bianca colpì in pieno Raphael, il cui incarnato divenne bianco come cerone. Il suo amato pigiama di flanella, costato fra l'altro un occhio della testa, fece purtroppo la stessa fine. Inspirò profondamente per mantenere la calma e l’autocontrollo, mentre le due femmine rimanevano in silenzio aspettando una sua reazione.
    Si stropicciò gli occhi e scosse i capelli, sollevando altre nuvole bianche che ricaddero come polvere sulla moquette blu scuro. Per un singolo istante si chiese se con l’aspirapolvere sarebbe riuscito ad arginare il danno. Poi squadrò con cipiglio minaccioso la figlia e la consorte, si avvicinò al tavolo, immerse la mano nel sacco di farina e ne lanciò il contenuto su quelle due cuoche mancate, che scoppiarono a ridere.
    “Alicia, insomma, Ramona è venuta soltanto due giorni fa! E' forse chiedere troppo che la casa resti pulita fino a venerdì prossimo?” rimproverò sbuffando.
    “Dai, tesoro, non essere così rigido, puliremo noi!” lo blandì la donna, tirandogli una guancia con fare giocoso.
    Lui la scansò fingendosi arrabbiato. “Vuoi dire che io pulirò. Stranamente, quando c’è da fare le pulizie, voi due avete la brutta abitudine di volatilizzarvi con scuse poco credibili, lasciando a me l’onere di mettermi a lavorare come una massaia.”
    “Ma tu sei una massaia, caro. Lo sei dentro.” replicò candidamente Alicia, e se non fosse stata sposata con lui, l’uomo le avrebbe volentieri spalmato quel dannato impasto per la pizza sulla faccia.
    “E poi, cosa intendi per scuse poco credibili?” aggiunse la moglie.
    “Pensi che io sia stupido?”
    “No, caro.”
    “Allora perché ti aspetti che ti creda, quando mi vomiti addosso con una velocità assurda e crescente nervosismo, come un bambino che è stato beccato a compiere una marachella, che devi uscire urgentemente per accompagnare Maggy alla scuola guida, se ha solo quattro anni?”
    Alicia scoppiò nuovamente a ridere, imitata dalla bambina. “Forza, smettila di fare il brontolone e aiutaci a preparare il pranzo.”
    “Tesoro, luce dei miei occhi e mio splendido fiore, sono le dieci del mattino.” chiocciò con un sorriso tirato e voce flautata.
    “E allora?” chiese lei, sfoggiando l’espressione tonta che usava solo quando non voleva ascoltare le ‘giuste’ argomentazioni del marito nei casi in cui cercava di farle notare quanto fosse irrazionale, stupida e inopportuna qualche sua azione.
    “Alicia…” sospirò stancamente Raphael, appoggiandosi al tavolo e osservando la figlia che pasticciava con la salsa di pomodoro.
    “Beh, prima si comincia a preparare, prima si mangia!” sentenziò Alicia con gli occhi azzurri sgranati e l’aria convinta, come di chi ha appena proferito una sacrosanta verità.
    “Vuoi pranzare alle undici?” domandò sconvolto e perplesso.
    “Pizza!” urlò Margareth.
    “Pizza!” le fece eco la madre e ripresero a lavorare come se lui non ci fosse.
    Raphael si arrese e sventolò una virtuale bandierina bianca. Era inutile anche solo tentare di avere un scambio proficuo di opinioni con quelle due quando si coalizzavano, e a lui non restava che partecipare attivamente alla loro follia o relegare la sua persona ordinata e severa in un angolino, pur sempre vigilando su quelle due insopportabili, implacabili e rumorose esponenti del sesso opposto e badando che non distruggessero l’abitazione.
    A un tratto, Margareth tirò un po’ di salsa di pomodoro in viso alla madre, la quale ridacchiò e fece lo stesso. La loro faccia si ricoprì della sostanza rossa, ma essa divenne pian piano più scura e densa. Colava dalla testa in continue gocce scarlatte e finiva ad amalgamarsi nell’impasto che Alicia stava maneggiando con maestria. Il liquido si espanse sul tavolo in una pozza sempre più grande e l’uomo impallidì, incapace di elaborare un pensiero coerente.
    “Alicia…” chiamò e l’interpellata si girò verso di lui.
    Il suo volto era ricoperto di quello che sembrava sangue, ma lei pareva non accorgersi di ciò che stava accadendo. Lo guardava con curiosità, le sopracciglia fini arcuate in quell’espressione spaesata e innocente che amava tanto. La piccola rideva, il pigiamino completamente imbrattato e zuppo e gli occhi spenti e privi di vita.
    “Maggy…” sussurrò con voce strozzata, protendendo una mano nella loro direzione.
    “Cosa c’è, papà?”
    Il sangue ora ricopriva tutta la superficie del tavolo e l’attimo seguente entrambe lo fissarono. La donna ora aveva lo sguardo corrucciato e triste, come se fosse sull’orlo delle lacrime.
    “Amore… perdonami. Avrai un sacco da pulire.”
    “Alicia!”
    E come se venisse risucchiato da una forza misteriosa e potente, vide sua moglie e sua figlia allontanarsi sempre di più, fino a venire inglobate in un pozzo di tenebre senza fondo.


    Raphael aprì gli occhi all’improvviso. Li spalancò nel buio, il respiro affannato, il volto pallido, le membra tremanti e ricoperte da un sottile strato di sudore. Si sentiva scoppiare dalla tristezza e una familiare contrazione dello stomaco accompagnata da una fitta lancinante al cuore gli fece salire un’irrefrenabile desiderio di piangere. Ma non lo avrebbe fatto.
    Represse un singulto.
    Non lo avrebbe fatto.
    E poi, ormai era convinto di aver esaurito tutte le lacrime. Se da una parte era sollevato di non avvertire più gli occhi bruciare e gonfiarsi, il naso prudere e il petto dolere, dall’altra odiava non essere più in grado di versare una sola stilla salata, perché in questo modo la sofferenza che permeava tutto il suo essere si ingigantiva e condensava senza trovare alcuno sfogo, alcuna falla nella diga spessa e robusta che aveva eretto a fatica durante i primi tempi, quando cercava di arginare il fiume impetuoso della disperazione e dello sconforto. Ma ora avrebbe solo voluto distruggere tutto quello che aveva costruito, fuori e dentro di sé, fare piazza pulita fino a ritrovarsi in mezzo a un deserto grigio e immobile, impermeabile ai suoni e ai pensieri.
    Le aveva sognate di nuovo: le uniche due donne che aveva mai amato in tutti i suoi trentaquattro anni di vita. Le aveva sognate ancora e i ricordi si erano innescati da soli, in maniera autonoma, come se una forza esterna avesse premuto il tasto 'play' senza il suo permesso. Di nuovo.
    Si sollevò a sedere, piegò le gambe al petto e ci nascose il viso stanco ed emaciato. Quanto era passato dall’ultimo, vero pasto che aveva mangiato? Quanto era passato dall’ultimo bel sogno che aveva fatto? Quanto era passato dall’ultima volta che aveva sorriso?
    Gli sembrava un’eternità. Gli sembrava ieri.
    Si sentiva come se stesse naufragando nell’oblio, alla deriva di un universo ovattato, in cui niente riusciva a scuoterlo se non vecchie e nostalgiche reminescenze. Le memorie dei tempi trascorsi erano le uniche cose che gli rimanevano, che lo tenevano ancorato ad una realtà estranea che, seppur dolorosa, gli dava conforto. Il resto, presto, sicuramente un giorno, in futuro, si sarebbe ridotto in cenere.
    Tre anni.
    Tre anni di domande senza risposta, tre anni di solitudine.
    Tre anni da quel giorno, il giorno in cui gli venne strappato via tutto ciò che aveva di più caro.
    Tutto quanto.
    Durante il primo aveva deciso di segregarsi in casa, rifiutandosi di uscire o prendere parte a qualsivoglia specie di interazione sociale. Il secondo aveva trovato lavoro e il terzo lo aveva occupato a tenersi ben stretto quel lavoro.
    Era sopravvissuto, quando in realtà avrebbe dovuto essere lui a morire. Questo aveva sempre pensato.
    Ma non loro… non loro. Loro non se lo meritavano!
    Loro erano il sole, erano la luce, i colori, i profumi, le spezie della sua mediocre esistenza. Se loro gli erano vicine, cessava di sentirsi un uomo inetto e inadeguato, veniva contagiato dai loro sorrisi e un piacevole calore si propagava nella sua anima. In quei momenti si era spesso sentito onnipotente, la persona più felice e fortunata dell’intero globo terrestre, e tali emozioni gli mancavano immensamente.
    Volse lo sguardo spento fuori dalla finestra. Stava piovendo, ma sapeva che avrebbe smesso entro poco: i temporali estivi non duravano mai a lungo.
    Non si accorse di avere tra le mani una fotografia. Probabilmente si era addormentato stringendola, cosa che gli era già capitata molte altre volte, in passato.
    Con un sospiro la rimise al suo posto sul comodino, nella sua bella cornice d’acciaio freddo e impersonale. In quel gelido recinto opaco era racchiusa tutta la sua vita. La vita che non avrebbe mai più potuto avere indietro.
    Perché non era morto lui al loro posto? Perché Dio aveva scelto loro?
    Ignorò l’ennesimo nodo allo stomaco e serrò la bocca con forza in una linea sottile, il viso una maschera irriconoscibile di tormento.
    Tempo prima, poco dopo il funerale, stimolato dall’avvicinarsi inesorabile del baratro abissale che lo stava chiamando con voce suadente e ammaliante, era andato a parlare con il prete, confessandogli tutto quello che pensava su Dio, sull’umanità, sul senso di vivere. Era stato il momento in cui aveva rischiato di toccare il fondo, di commettere un’azione estrema, l’unica a cui il suo spirito anelava e alla quale si tendeva spasmodicamente, ma quel vecchio parroco lo aveva salvato. Non gli aveva rivolto parole vuote, come un attore che recita a memoria un copione, come un disco rotto. Gli aveva detto qualcosa che aveva riacceso la speranza in lui, gli aveva dato qualcosa a cui aggrapparsi, ancora per un po’, una timida fiammella in grado di diradare le tenebre.
    “Non so dirti se esista un paradiso dopo la morte, Raphael. Non so dirti se le anime trovano finalmente la pace, una volta trapassate. Ti sembrerà strano, perché il mio compito è guidare le pecore smarrite verso la luce del Signore, eppure è la verità, perché anch’io sono un uomo e mi capita di dubitare. Non possiedo alcuna certezza sulla vita nell’aldilà, anche se crederci allevia la mia paura e confidare nell'idea di un'esistenza ultraterrena è un dono che solo la fede può dare. Ma di una cosa sono sicuro: se i defunti sono stati molto amati in vita, essi aspetteranno chi li ha amati per sempre, da qualche parte. Arriverà un giorno in cui le rivedrai, Raphael, arriverà sicuramente. Ma non adesso. Non ancora.”
    Non ancora. Non ancora. Non ancora.
    “Non ancora.” ripeté con voce stentorea, nel buio. “Non ancora.” sussurrò, passandosi le mani sulla faccia.
    Si alzò con un sinistro scricchiolio di ossa dalla posizione in cui ormai si era pietrificato da circa un’ora e si recò al piano di sotto, in cucina. Tutto era insopportabilmente silenzioso, se non per i tuoni che venivano giù dal cielo. Tutto ciò che lo circondava rispecchiava come si sentiva, in uno stato di abbandono.
    L’anima poteva impolverarsi?
    Ancora dopo tre anni faticava ad abituarsi a tutto quello, alla solitudine, quel senso di totale impotenza che lo pervadeva non appena varcava la soglia di casa nel tardo pomeriggio e che lo perseguitava come uno spettro molesto, petulante e fastidiosamente insistente fino al mattino successivo; quell’abbattimento che lo svuotava di ogni parvenza di volontà, riducendolo in uno stato di catatonia per ore, fermo nella medesima postura, senza muovere un muscolo. Al buio, immerso nel mutismo, con lo sguardo fisso in un punto a caso, senza vedere niente.
    Questo era ciò che Raphael era diventato, dopo quel giorno, quando Dio decise di riprendersi due dei suoi angeli, quelli che misericordiosamente, in principio, gli aveva donato e che lo avevano reso un uomo completo. Ma forse lo capiva: impossibile non essere gelosi di quelle deliziose e meravigliose creature. Di sicuro le aveva rivolute con sé, per godere in prima persona delle loro risate argentine, dei loro sorrisi e dei loro baci.
    Fissò il frigo chiuso, sul quale era attaccato un foglio con un magnete a forma di maiale viola, anche se la vecchia proprietaria di quell’oggetto orrendo, reperito in una confezione di Happy Meal di McDonald’s, aveva sempre cercato di convincerlo strenuamente che non era un maiale ma un ippopotamo. Quel foglio ritraeva in modo assai stilizzato tre figure, due più alte e una più piccola.
    Partendo da destra, v'era quella che pareva una donna, con i capelli neri e corti, occhi azzurri e un vestito rosso. Lui se lo ricordava più che bene, quel vestito, perché lei l’aveva indossato il giorno in cui erano stati presentati da amici comuni. Sopra la sua testa c’era scritto, con una calligrafia che lui definiva a zampe di gallina, la parola ‘Mamma’.
    Al centro stava invece una bambina con i capelli castani e gli occhi azzurri, con indosso una gonnellina blu e una maglietta verde pisello. Sopra la sua testa campeggiava la scritta ‘Io’.
    Infine, a sinistra, un uomo con i capelli di un giallo canarino inguardabile, gli occhi azzurri coperti da un paio di occhiali più grandi della faccia e un impermeabile marrone.
    ‘Papà’.
    Accarezzò la figura al centro come aveva preso a fare ogni mattina, un semplice rituale che per qualche misero istante riusciva a stemperare la pena, il rimpianto e la mancanza.
    Tutti e tre si tenevano per mano su un prato fiorito, mentre il sole splendeva nel cielo terso e privo di nubi.
    Il classico disegno di un bambino di quattro anni.
    Studiò nuovamente quell’opera d’arte di dubbio gusto estetico con un groppo in gola, incapace di distogliere lo sguardo. Sollevò un braccio, con l’intenzione di posare delicatamente ancora la mano su quella reliquia che non aveva osato togliere dal posto in cui era stata appesa dall’autrice. Protese le dita, ma arrestò il movimento a pochi centimetri dal foglio, per poi andare a toccarsi le guance.
    Osservò stranito i polpastrelli bagnati, chiedendosi perché mai lo fossero. Stava forse piangendo? Aggrottò le sopracciglia. Impossibile, non si ricordava più l’ultima volta che lo aveva fatto.
    Sorrise mesto e sconfitto. Quelle lacrime stavano a significare che continuava a esistere e non era precipitato in un limbo eterno e infinito.
    Respirava, il suo cuore batteva, il suo spirito veniva dilaniato e fatto quotidianamente a brandelli dalla sofferenza, i rimorsi non gli davano tregua. In poche parole, era vivo.
    Strinse il pugno lungo il fianco. Non ancora.
    Tornò ad osservare il disegno e stavolta una leggera scintilla calda, dalla luce tenue e appena accennata, si accese dentro di lui.
    Sua figlia Margareth non aveva ereditato, purtroppo, il talento di sua moglie Alicia, pittrice di professione. Certo, aveva solo quattro anni, però quel disegno non si poteva guardare da alcuna prospettiva: i soggetti ritratti sembravano tutti dei mostri antropomorfi, sproporzionatissimi e con qualche falange in più nelle mani. Il collo, poi, era troppo lungo. Margareth pensava forse che fossero dei brontosauri?
    Con un sorriso triste, anche a distanza di tre anni, mormorò: “E’ davvero brutto.”
    Eppure, Alicia, alla luce di tutte le sue critiche, aveva avuto il coraggio di obiettare con cipiglio orgoglioso che la piccolina era la reincarnazione di Picasso e l’aveva fatta volteggiare in aria in un tripudio di risate e gridolini isterici. Per un attimo gli parve di udire le loro voci dietro di sé, ma quando si girò si scontrò con il nulla.
    Guardò poi l’ora sul display del microonde e si decise a preparare il dannato caffè per cui era sceso in cucina. Un’altra giornata di lavoro lo attendeva e l’umore era sceso sotto le suole delle pantofole. Gli serviva la carica giusta e non c’era niente che riuscisse a dargliela se non un intero termos di caffè nero, la sua droga personale. Sempre meglio dell’alcool, del fumo o delle pasticche. Quando la bevanda fu bollente, afferrò due tazze dalla credenza e le mise una accanto all’altra, versandoci dentro una cospicua dose di liquido scuro, ben sapendo che quella di sinistra, con raffigurata sopra una mucca stilizzata, sarebbe rimasta intoccata.
    Dopo mezzora era pronto, vestito di tutto punto, con la borsa di pelle a tracolla, regalo che Alicia gli aveva fatto per il suo trentunesimo compleanno, e l’aria sbattuta di chi non ha chiuso occhio.
    Prima di aprire la porta di casa e uscire, rimirò un’ultima volta il suo aspetto allo specchio dell’ingresso.
    I capelli biondi avevano conosciuto periodi più felici, gli occhi azzurri erano spenti e appena arrossati, gli occhiali dalla montatura quadrata inforcati sul naso coprivano a malapena le occhiaie e gli angoli della bocca erano piegati all’ingiù nella loro posizione naturale, imbronciata.
    Era stanco di fingere che andasse tutto bene, ma non poteva fare altro se non voleva trovarsi fra i piedi quegli scocciatori dei suoi amici. Per carità, gli erano rimasti accanto nei momenti più difficili, ed era sinceramente grato di questo, ma il loro atteggiamento da mamma chioccia non lo aiutava a superare i suoi problemi. Spesso riuscivano a diventare soffocanti e tutta quell’allegria forzata non faceva altro che inquinare i loro rapporti. Che male c’era, insomma, a desiderare giusto un po’ di relax nel silenzio delle mura domestiche? Era forse un reato?
    Fece un respiro profondo e si costrinse a sorridere alla sua immagine. Il risultato fu abbastanza soddisfacente, ormai ci aveva fatto il callo, e non era più un’impresa così ardua ed estenuante portare avanti la recita senza destare sospetti. Quel sorriso sembrava in tutto e per tutto vero, affatto fasullo, e rischiarava l’animo degli amici preoccupati, sollevandoli dal senso di responsabilità che provavano verso di lui.
    Non c’è niente di più efficace di un sorriso per rallegrare e per ingannare. Era stata Alicia ad insegnarglielo.
    Estrasse le chiavi dalla tasca dei pantaloni, uscì e si chiuse la porta alle spalle il più delicatamente possibile, abitudine che gli era rimasta da quando quei due demoni femmina rumorosi e ridanciani vivevano lì con lui. Lo faceva per non svegliarle, dato che doveva recarsi a lavoro prestissimo.
    Salì in macchina e si diresse alla volta della biblioteca comunale, dove aveva ottenuto un posto come segretario. Prima faceva l’architetto, ma dopo la morte della sua famiglia aveva deciso di lasciare tutto, perché non si sentiva più in grado di continuare a gestire la sua routine allo stesso modo.
    Con un ultimo sospiro stanco abbandonò l’aria lugubre che si trascinava dietro come una personale coperta di Linus e indossò la sua consueta maschera.
    Varcò la soglia dell’edificio in perfetto orario, come sempre, si tolse il cappotto e posò la borsa dietro la scrivania davanti al grande ingresso. Quando si sedeva sulla sedia imbottita aveva una perfetta visuale dell’atrio e delle persone che entravano e uscivano come tante formiche operaie.
    Accese il computer e digitò la password.
    All’improvviso gli arrivò una poderosa pacca sulla spalla, accompagnata da una risata grassa e roca.
    Il signor Anthony Jills, sessantasette anni, suo stimato collega di colore, nonché inserviente con tanto di tuta bluastra, torcia e mazzo di chiavi appeso alla cintola, soleva salutarlo così da quando era stato assunto e, se dapprincipio aveva trovato la cosa oltremodo fastidiosa ed eccessivamente confidenziale, alla fine l’aveva accettato e non gli dispiaceva più così tanto. Era uno di quei rituali che facevano parte della sua nuova routine, dopotutto, e lo aiutava a distaccarsi, almeno per qualche misero istante, dagli strascichi malinconici del passato.
    “Mastro Raphael!” gli si appellò con un gran sorrisone. “Come vi coricaste? Ah!” distolse lo sguardo senza concedergli il tempo di rispondere. “In codesto gaio dì veggo appropinquarsi in quel dell’atrio messer Delovre. Da cospicuo tempore dileguossi.”
    Un altro aspetto di Anthony era che gli piaceva parlare con un vocabolario antiquato, peculiarità che da subito Raphael non aveva potuto fare a meno di trovare spassosa. Il signor Delovre era un anziano professore di letteratura inglese, in pensione da circa una decina d’anni, da classico vecchietto abitudinario, passava tutte le mattine in biblioteca per consultare le opere di alcuni scrittori e critici che non possedeva nella sua più che fornita libreria domestica. Però era mancato al suo appuntamento quotidiano per quasi due settimane, in effetti.
    “Buongiorno, signor Delovre.” lo salutò cordialmente. “Come sta?” gli chiese mentre passava la tessera del socio sull’apposito dispositivo di riconoscimento.
    “Ora sto meglio, grazie. Ho avuto l’influenza e mia moglie mi ha confinato a letto con spaventose minacce circa la mia sorte nell’aldilà. Ho dovuto obbedire.” spiegò, a metà tra lo sconsolato e il divertito.
    “Capisco.” annuì il biondo e restituì la tessera, mascherando al meglio la fitta dolorosa allo sterno e interrompendo sul nascere la valanga di ricordi. “Buona lettura, signor Delovre.”
    “Grazie.”
    Gli avventori, via via che i minuti trascorrevano, aumentavano, ma Anthony, a quanto sembrava, aveva deciso di restare appollaiato alle sue spalle come un avvoltoio.
    “Signor Jills, la prego di mettersi al lavoro, altrimenti la signorina Parrot la sgriderà ancora.”
    La signorina Elizabeth Parrot era la direttrice della biblioteca e, nonostante la sua giovane età, era una donna molto severa e ligia alle regole, quasi ingessata nel suo modo rigido di comportarsi e di indole poco flessibile. Inoltre, non sopportava chi se ne stava a fissare il vuoto durante le ore lavorative ed Anthony, invece, pareva essere venuto al mondo per fare soltanto quello, possedeva un talento naturale.
    “Mastro Raphael, avete forse l’ignominiosa intenzione di lasciarmi alla di lei mercede?” fece fintamente offeso e assunse un'aria sgomenta.
    “No, signor Jills.” sorrise. “Ma non riesco a concentrarmi e a svolgere le mie mansioni, se mi sento osservato così da vicino.”
    “Ah, me misero! La mia umile persona è destinata a decedere sotto l’ira dell’arpia…”
    Raphael ridacchiò. “Se svolgerà il suo lavoro, la signorina Parrot non la ucciderà. Vada ora, forza.” lo incoraggiò in tono gentile e pacato.
    Anthony se ne andò via borbottando e sventolando in maniera teatrale uno straccio sporco.
    Il biondo sospirò e si aggiustò gli occhiali sul naso. Si mise sfogliare alcuni documenti, che presto lo assorbirono completamente, mentre il resto della giornata volava via, ora dopo ora.

    Un pugno gli arrivò dritto nello stomaco, mozzandogli il respiro. Boccheggiò per qualche secondo, piegato in due sulle ginocchia. Digrignò i denti e sentì il sapore ferroso del sangue sulla lingua: se l’era morsa, ma non sembrava grave.
    Dopo qualche secondo, Alan tornò ad alzare lo sguardo verde bosco su Dylan, che ridacchiava e lo fissava pieno di boria.
    Non gliel’avrebbe data vinta, per nulla al mondo. Non doveva pensare che, siccome era basso e gracilino, non possedeva la forza per tenere testa a uno stupido bifolco col cervello di un lombrico, con tutto il rispetto parlando. Ghignò di rimando e si scagliò su di lui, sferrandogli un calcio sugli stinchi.
    Dylan ringhiò di dolore e indietreggiò, mentre i due tirapiedi che si portava sempre appresso come cagnolini lo incitavano a dargliene di santa ragione.
    Le lezioni erano terminate da meno di mezzora, ma non avevano perso tempo e, acciuffatolo proprio sul cancello, lo avevano trascinato nel cortile sul retro della scuola.
    Non sapeva perché ce l’avessero tanto con lui. Insomma, non avevo fatto loro nulla di male, a parte renderli ridicoli davanti al professore di chimica con qualche battutina sagace e tagliente fin dai primi giorni dell’anno scolastico. E ora, dopo otto mesi, ancora lo perseguitavano peggio della peste. E per citare un detto, "scuola che vai, bulli che trovi". E avendo cambiato già tre istituti, non si stupiva più di nulla.
    “Schifoso frocetto…” mugugnò Dylan, massaggiandosi la zona lesa.
    Ah, giusto. Era gay dichiarato. Questo era un altro motivo per cui nella vita aveva sempre avuto problemi di pestaggio. Ma aveva imparato a cavarsela e aveva preso lezioni di judo, che pian piano si erano dimostrate utili, palesando i loro appaganti frutti.
    “Checca repressa del cazzo.” lo apostrofò Alan con lo stesso tono colmo di disgusto.
    Dylan scattò di nuovo e fece per afferrargli la maglietta, ma lui si scansò all’ultimo secondo e gli tirò un altro calcio nelle terga, facendolo finire con la faccia spalmata sul cemento. Quello era il momento migliore per fuggire e andare a rintanarsi da qualche parte, non era così stupido da ingaggiare una rissa tre contro uno.
    Raccolse le forze e partì a razzo, lo zaino che gli sbatteva ritmicamente sui fianchi e l’adrenalina che gli scorreva come fuoco vivo nel corpo. Svelto, scelse di dirigersi nell’unico posto in cui sapeva sarebbe stato al sicuro: la biblioteca comunale. Andava spesso lì quando non voleva tornare a casa e non certo per studiare. Odiava studiare, odiava la scuola, odiava i suoi compagni di classe, odiava i professori. Ma nel complesso se la cavava, non aveva mai avuto problemi con i voti, che erano sempre stati nella media.
    Odiava anche i ‘froci’ come lui. Ce n’era infatti qualche d’uno a scuola, che, al contrario, si lasciava picchiare senza il coraggio di fare niente. Erano quelli che disprezzava di più. Lui non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno. Era arrogante, sfrontato, presuntuoso, maleducato, irritante, rumoroso e perennemente pronto a fare a botte. Ovvio, non tutti potevano essere come lui, forti e determinati, non tutti sapevano lottare come lui, non tutti possedevano la medesima grinta e forza di volontà. E di questo se ne rammaricava.
    Ma di sicuro non era mai stato un buon samaritano e non aveva mai alzato una sola falange per difendere dai soprusi di quei primati le povere vittime prese di mira.
    Così andava la vita, in natura vigeva la legge del più forte, e chi non aveva abbastanza fegato per sopravvivere non era nemmeno degno di essere aiutato. Questa era la sua filosofia di vita. E poi, ciò che non ti uccide ti fortifica.
    L’unica eccezione era il suo migliore amico Jason, ma si trattava di una situazione completamente diversa.
    La biblioteca era silenziosa, grande e labirintica, e nessuno lo veniva mai ad importunare: un luogo perfetto per mettersi ad ascoltare la musica, tassativamente a basso volume, e disegnare. Sì, il disegno era il suo hobby ed era anche piuttosto bravo. Dopo il diploma, avrebbe voluto iscriversi in un istituto d’arte per imparare meglio le tecniche e diventare un famoso pittore. Il suo sogno era riuscire ad aprire una galleria tutta sua, dove esporre i suoi lavori.
    Alan giunse a destinazione dopo una decina di minuti e, dopo aver ritirato la tessera di socio, si inoltrò nei meandri dell’edificio storico, situato in pieno centro città. Dopo un po’ di girovagare, scovò un angolino deserto al secondo piano, vicino alla ringhiera che aggettava direttamente sul pian terreno. Ci si appollaiò in santa pace ed estrasse tutto l’occorrente. Da quella postazione strategica poteva avere al contempo anche una visuale completa del salone di lettura principale, costituito da grandi tavoli bianchi posti in fila e alti scaffali ricolmi di libri per la consultazione.
    Però era un’altra la ragione per cui aveva cominciato a recarsi in biblioteca e questa ragione aveva il nome di Raphael Hopkins. Era l’addetto alla segreteria e se ne stava trincerato dietro la sua scrivania alla reception dalla mattina alla sera, senza mai alzare il culo dalla sedia, se non per andare in bagno.
    Era un uomo sulla trentina, con disordinati capelli biondo cenere che gli accarezzavano il collo e stupendi occhi azzurri, spesso celati da un paio di occhiali dalla montatura quadrata.
    Ciò che lo aveva colpito in lui la prima volta che lo aveva visto, oltre alla sua bellezza gentile, era stato il suo sorriso. Non aveva mai conosciuto qualcuno in grado di sfoggiarne per ore uno falso come quello, doveva sicuramente richiedere un’esperienza e una resistenza inimmaginabili. Ricordava come era rimasto esterrefatto a fissarlo per qualche secondo di troppo quando gli aveva domandato la tessera, chiedendosi come diavolo facesse. E la cosa che lo aveva lasciato veramente attonito era che quel sorriso era così ben costruito da poter passare inconfutabilmente per vero. Aveva pensato subito che possedesse un talento innato e sbalorditivo per la recitazione.
    Non gli disse nulla, né quella volta né quelle a venire, ma da allora, ed erano già passati due anni, non aveva smesso mai di osservare Raphael di nascosto, memorizzando tutti i suoi tic, il suo timbro di voce e i molteplici riflessi che i suoi capelli assumevano a seconda del cambiamento di luce. Con il passare dei giorni, delle settimane, delle stagioni, il batticuore si era fatto più intenso e il desiderio di baciarlo e imprimere su di lui un marchio, come una matita su un foglio, sempre più insopprimibile.
    Fatto fu che gli bastarono sette mesi per innamorarsene.
    Era cotto a puntino.
    Ma qualcosa lo aveva sempre fermato dal farsi avanti e gli unici scambi che erano avvenuti tra loro riguardavano la consegna della tessera all’entrata e un breve cenno del capo alla chiusura.
    C’era una sorta di muro di formale cortesia costruito intorno al biondo che teneva a distanza le persone, quella misurata e affettata cordialità che ti impedisce di insistere e avvicinarti più del dovuto senza passare per un maleducato o un impiccione. Non sapeva però spiegarselo meglio, non riusciva a leggerlo come avrebbe voluto.
    Così lo disegnava. Rannicchiato sulla sedia di legno, con le ginocchia al petto e il blocco su di esse, lo ritraeva nelle pose più varie, che poi rimirava a casa per tentare di carpire da quegli schizzi un frammento della sua anima. I suoi sforzi, fino a quel momento, si erano sempre rivelati vani e ciò alimentava la sua frustrazione, oltre che l’ossessione. Infatti, tecnicamente i ritratti apparivano perfetti, le linee marcate e precise, la proporzione giusta, la prospettiva corretta, ma un aspetto comune a tutti era l'assenza degli occhi. Sì, perché Alan riusciva a tracciare la forma del viso, delle labbra, del naso, ma mai i suoi occhi. E questo lo faceva letteralmente imbestialire, non capiva cosa ci fosse che non andava.
    Ma era un tipo testardo e detestava arrendersi, perciò avrebbe continuato a disegnare quell’uomo mite e schivo tutte le volte che sarebbero state necessarie.
    Giunse la sera e a malincuore dovette riporre il blocco nella cartella e prepararsi a tornare a casa. Prima di lasciarsi alla spalle ancora una volta la biblioteca, voltò la testa verso Raphael e lo beccò ad armeggiare al computer con quell’odioso sorrisetto pacifico e fasullo stampato sulle labbra. In un primo momento fu travolto dalla rabbia e dalla voglia di picchiarlo, di farlo reagire, di dipingergli in faccia un’espressione vera, ma immediatamente dopo venne assalito dalla malinconia.
    Non soffriva perché l’uomo che amava lo trattava come se fosse invisibile, come se fosse uguale a tutti gli altri, ma perché ogni volta che scrutava con attenzione la sua figura china dietro la scrivania, essa gli trasmetteva un’inspiegabile sensazione di infinita tristezza e solitudine, come se un enorme peso gli gravasse addosso. Non sapeva che vita conducesse al di fuori dell’orario di lavoro, se avesse qualcuno ad aspettarlo a casa, se uscisse con gli amici, ma qualcosa gli diceva che era una persona profondamente sola.
    La sua non era compassione o pena, ma empatia. Avrebbe tanto desiderato abbracciarlo e accarezzarlo come si fa con un cucciolo ferito. Avrebbe voluto prendersi cura di lui. Avrebbe voluto entrare a far parte della sua vita.
    E un giorno ci sarebbe riuscito, lo sentiva.
    Ma non ancora.
    Non ancora.
    Arricciò avvilito un angolo della bocca. Per l'ennesima volta si lasciò alle spalle l’edificio e un Raphael barricato dietro il banco dell’accettazione.

    Edited by Lady1990 - 7/5/2014, 16:58
     
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  2. cimini89
     
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    Ciao Lady!Io ho letto questa storia su EFP e devo dire che è veramente bella..complimenti!!
    Sarà un piacere leggerla di nuovo! ;)
     
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    quanto ho amato questa storia.
    Graz per averla pubblicata anche quì. la rileggerò con immenso piacere. :D
     
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  4. Lady1990
     
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    grazie!!! felicissima di ritrovarvi! un bacione grandissimo! :)
     
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    LDY HO SPOSTATO IN QUESTO TOPIC I CAPITOLI DELLA TUA LONG IN MODO CHE LA LETTURA SIA CONTINUA E PER PERMETTERE AI TUOI LETTORI DI TROVARLA SUBITO.
    PER FAVORE IL PROSEGUO DELLA STORIA CONTINUA A POSTARLO IN QUESTO STESSO TOPIC COSì CHE POTREMO LEGGERLA DI SEGUITO.



    “Alan, passami quel vaso peonie, per favore.”
    “Subito.” il giovane posò l’annaffiatoio e si chinò per prendere ciò che gli era stato chiesto.
    Come di consueto, il weekend Alan aiutava sua madre al negozio di fiori, facendo da commesso e occupandosi delle consegne. Per lui non era affatto un peso, si divertiva a immergersi in quel mondo colorato e profumato, gli metteva addosso allegria e spensieratezza, tanto che spesso, mentre innaffiava le piante, cominciava a fischiettare o a canticchiare fra sé e sé. Fin da quando era bambino trascorreva molti pomeriggi in quel piccolo locale verdeggiante e ormai aveva imparato quasi tutto quello che c’era da sapere sui fiori. Era diventato anche molto bravo con i bouquet e spesso la donna glieli lasciava preparare dandogli carta bianca, così che Alan potesse dare sfogo a tutto il suo estro creativo. Prediligeva i colori accesi, pieni di vita, e li combinava insieme in un uno sgargiante arcobaleno profumato tenuto unito da un nastro di raso di tonalità diversa ogni volta.
    Daisy Bell era una bella donna sulla quarantina, con dei fluenti capelli rosso fuoco e due grandi occhi verdi bosco, tratti che il figlio aveva ereditato in toto, insieme ad una capigliatura ribelle che gli dava un’aria sbarazzina e bambinesca. Il marito di Daisy era morto da molti anni di cancro e da allora si era rimboccata le maniche e, con la sua proverbiale determinazione, aveva mandato avanti il negozio con le sue sole forze. All’inizio era stata male, ma poi aveva trovato in sé il coraggio di andare avanti e grazie al figlio era riuscita a riemergere dal vortice di dolore causato dalla perdita del compagno. Ora aveva l’aspetto di una persona serena e sorridente, sempre in attività e impegnata in qualcosa che amava e che la faceva sentire realizzata, ed Alan non poteva che esserne felice.
    Voleva bene alla sua mamma, cercava di non deluderla mai o renderla triste, e farle percepire materialmente la sua presenza al suo fianco era un modo per aiutarla e per non lasciarla sola.
    Mentre ripensava a queste cose, notò una persona dai lineamenti familiari camminare avanti e indietro sul marciapiede dall’altro lato della strada. Era un uomo sulla cinquantina, un po’ stempiato, ma dall’aria gentile e timida, che tutti i weekend, da ormai quasi un anno, a pomeriggio inoltrato, veniva in negozio ad acquistare qualche nuova piantina; e, a meno che non vivesse in un super appartamento o villino di cinquecento metri quadrati, il ragazzo non riusciva proprio a immaginare dove se le infilasse: perché comprare due vasi, grandi o piccoli che fossero, alla settimana, se uno non avesse disposto di un considerevole spazio, avrebbe trasformato una casa normale in una giungla. Però la sua aria distinta, il completo giacca e cravatta sempre in ordine, i capelli scuri appena brizzolati pettinati con accortezza e le mani dalle unghie curate e pulite, tutti questi elementi davano l’impressione che fosse un individuo più che benestante. Anche se Alan non era il genere di persona che giudica in base all’aspetto, magari era solo una facciata e in realtà era un poveraccio che si faceva bello solo per venire a trovare Daisy e che disponeva di un solo completo elegante in tutto l’armadio, invaso da tute, jeans e camice a quadrettoni.
    Il giovane ghignò divertito, distraendosi ad osservare il tipo che, piantato ora in mezzo al marciapiede, fissava assorto il negozio di fiori. Lo vide grattarsi la nuca in un gesto nervoso, risistemarsi la chioma, aggiustarsi la cravatta e deglutire, un lieve rossore che gli colorava le guance. Alan lo trovava uno spasso.
    “Cosa sorridi?” gli chiese la madre, insospettita dalla sua espressione.
    “Il signor Corvey è arrivato.” dichiarò sghignazzando sotto i baffi.
    La donna sussultò e prese a borbottare imbarazzata, mettendosi a pulire il bancone dai residui di foglie, rametti, petali e steli con solerzia, come se volesse dare a intendere al figlio che la questione la lasciava del tutto indifferente. Ma il rosso aveva già capito che quei due erano attratti l’uno dall’altra e si divertiva a guardarli interagire impacciati come dodicenni alla prima cotta. Era contento che Daisy avesse riaperto il suo cuore, per troppi anni era rimasta sola, lavorando e basta, solo per badare a lui. E il signor Corvey ad Alan piaceva.
    Il sopraccitato girò la testa prima a destra e poi a sinistra per controllare che non passassero macchine. Alla fine si decise ad attraversare e pochi attimi più tardi il campanello della porta tintinnò.
    “Ehm, buon pomeriggio.” salutò con un sorriso, cercando di apparire disinvolto.
    Al ragazzo non sfuggì l’occhiata adorante che questi lanciò a Daisy, mascherata subito da un tempestivo e simulato attacco di tosse.
    “Buon pomeriggio a lei, signor Corvey.” rispose l’altra, portandosi una ciocca di capelli vermigli dietro l’orecchio in una mossa calcolata e la contempo inconscia. “Sta bene?” domandò poi, riferendosi alla tosse dell’uomo.
    “Oh… sì sì, benone! E lei come sta, signora Bell?”
    “Bene, grazie.”
    Trascorsero qualche secondo a osservarsi imbarazzati, tempo che Alan impiegò ad esercitare sui suoi muscoli facciali una certa pressione affinché non tradissero la sua straripante ilarità.
    Dopodichè, il signor Corvey si rivolse a lui. “Buon pomeriggio anche a te, Alan.”
    Un aspetto che apprezzava di lui era che non lo appellava mai con epiteti quali “giovanotto”, “campione”, “ragazzo”, ma lo chiamava sempre per nome.
    “Salve, signore.” ricambiò digrignando i denti e cercando, per questo, di non apparire scortese. Se fosse scoppiato a ridergli in faccia, non ci avrebbe fatto una figura intelligente.
    “Come va la scuola?”
    “Al solito, signore.”
    “Bene… bene. Ehm…” tornò a grattarsi la nuca e spaziò con gli occhi per tutto il negozio, alla ricerca di qualcosa da acquistare, senza sapere che madre e figlio fossero più che coscienti che quello era solo un pretesto per giustificare la sua presenza lì. “Vorrei quella.” indicò un vaso di orchidee bianche.
    Daisy seguì la direzione del dito del cliente e, appena si avvide di cosa l’uomo desiderasse, divenne paonazza. Perché le orchidee significavano passione e la certezza di un amore corrisposto, come una confessione di rispetto e venerazione. Forse il signor Corvey non era a conoscenza del linguaggio dei fiori, ma lei sì; e nonostante ci fosse la possibilità che la scelta dell’altro potesse essere attribuibile ad una mera casualità, alla donna piacque credere che invece fosse stata ponderata. Come un messaggio occulto e subliminale che solo lei poteva cogliere. Il momento successivo, tuttavia, si rabbuiò e il suo entusiasmo venne mitigato, se non addirittura soffocato, dal pensiero che forse quelle orchidee erano per un’altra donna. D’altronde, perché mai un uomo affascinante come il signor Corvey avrebbe dovuto essere single? Magari aveva già una compagna, una persona speciale che voleva conquistare o alla quale voleva ribadire il suo amore.
    Circondò il vaso di coccio con le dita bagnate d’acqua e sporche di terriccio e lo depose sul banco, vicino alla cassa.
    “Vuole che glielo impacchetti?” chiese senza guardarlo negli occhi, il cuore che le batteva forte nel petto, delusione ed euforia che ancora guerreggiavano selvaggiamente dentro di lei per ottenere la supremazia l’una sull’altra.
    “Faccia come al solito, mi fido del suo buon gusto.”
    “Come desidera.”
    Infilò il vaso in un sacchetto con stampate sopra delle coccinelle e lo infiocchettò con un nastro lilla bucherellato.
    “Ecco a lei.” batté lo scontrino e l’uomo pagò in contanti.
    Al momento di porgerle i soldi, i suoi polpastrelli sfiorarono inavvertitamente quelli di Daisy, che avvampò e ritrasse la mano come scottata. Gli fece il resto ma non glielo depose nel palmo, appoggiandoglielo invece sulla superficie fredda del banco.
    “Grazie. Beh… allora arrivederci, signora Bell. Alan.” fece un rapido cenno del capo al ragazzo.
    “Arrivederci, signor Corvey.” lo salutò la donna con un sorriso mesto.
    Il campanello tintinnò di nuovo e il signor Corvey se ne andò.
    Alan fulminò la madre con un’occhiataccia sconsolata, rimproverandola in silenzio.
    “Che c’è?”
    Sbuffò. “Niente…” esitò, le parole già sul piede di partenza in gola che attendevano solamente che lui aprisse la bocca, anche di poco, per uscire. “Niente.”
    “Se hai qualcosa da dire, dilla.” Daisy puntò le mani sui fianchi e lo squadrò con cipiglio irritato.
    “Vuoi che ti dica quello che penso?” arcuò un sopracciglio.
    “Sì.”
    “Sei un’idiota.”
    “Hey! Modera i termini, sono tua madre!”
    “Ciò non toglie che sei un’idiota.” ribadì perentorio, dandole la schiena per continuare ad innaffiare.
    L’altra scosse la testa con arrendevolezza e tornò ad occuparsi dei bouquet. Dopo un paio di minuti, durante i quali non volò una mosca, Daisy domandò: “e perché secondo te sarei un’idiota?”
    “Perché ha scelto le orchidee.”
    “Non ti seguo.”
    “Sei anche cieca? Gli piaci, mamma!” sbottò spazientito, brandendo con enfasi l’innaffiatoio per aria e rischiando di fare una doccia a entrambi.
    “Ah! Che sciocchezze!” obiettò seccamente. Poi “cosa te lo fa pensare?” indagò con apparente disinteresse.
    “Ti stupra con gli occhi.”
    “Alan!” esclamò sconvolta.
    “Beh, è vero…” bofonchiò con un’alzata di spalle.
    “No, non lo è!”
    “Sì, invece! Scommetto che a casa sua ha una tua foto piazzata sopra al comodino, circondata da tutti i fiori che compra qui e qualche candela, modello altarino. Fa anche rima.”
    “Alan, smettila subito.”
    Il giovane sbuffò ancora, chiedendosi di cosa avesse paura sua madre, che cosa la frenasse dal raccogliere le avance del signor Corvey. Ma alla fin fine non erano affari suoi, spettava a lei districarsi e gestire come più le pareva la propria vita sentimentale e lui non voleva metterci il naso più di tanto. Diamine, quello le sbavava dietro da quasi un anno, anche i passanti abituali della via se n’erano accorti, era palese. Perché quindi Daisy si ostinava a nascondere la testa sottoterra come uno struzzo?
    Bah, roba da donne.
    Guardò l’ora sull’orologio d’antiquariato appeso alla parete, orologio che la madre aveva scovato su una bancarella del mercatino delle pulci, e si accorse che erano già le sei e mezza. Era in ritardo per l’appuntamento con Jason e Dio solo sapeva quante gliene avrebbe dette circa il suo inesistente senso della puntualità e l’insopportabile vizio di avere costantemente la testa fra le nuvole.
    Finì di affogare le piante e si tolse il grembiule sporco di terra, riponendolo sull’attaccapanni in un angolo del negozio.
    “Mamma, io vado da J.J.!” le disse urlando.
    “Alan, siamo giusto a un metro di distanza, puoi anche evitare di sfondarmi i timpani ogni volta che apri la tua boccuccia di rosa, sai?” gli rispose con un sorriso a metà tra lo scocciato e il divertito, già dimentica della loro piccola discussione.
    “Questo è il mio naturale tono di voce!” replicò compunto, spettinandosi con una mano la zazzera rossa.
    “Che fortuna…” borbottò sarcastica la donna. “Vai, non farlo aspettare. Torni per cena?”
    “Sì! Anzi, non lo so. Ti mando un messaggio.”
    Alan afferrò la borsa, se la mise a tracolla e uscì di fretta, inforcò la bici e pedalò a ritmo sostenuto fino in periferia, dove abitava Jason. Questi aveva un anno meno di lui, cioè diciassette, e viveva da solo in un monolocale malconcio situato in un quartiere non proprio famoso per la sicurezza delle strade. I suoi genitori, padre operaio e madre casalinga, lo avevano cacciato di casa non appena avevano scoperto la sua omosessualità e da allora Jason aveva dovuto cavarsela da solo. Prima che Alan lo conoscesse, era un giovane marchettaro di appena quattordici anni, praticamente veniva abbordato dai pedofili, ma si avvide presto che quella vita non faceva al caso suo, perché, ingenuo e remissivo com’era, lasciava che i clienti lo usassero senza poi pagargli la cifra pattuita. Inoltre, molti lo costringevano a intrattenere rapporti sessuali non protetti e lui non aveva il coraggio di dire di no, troppo il timore di restare senza nemmeno i soldi per mangiare. Per sua immensa fortuna non prese mai alcuna malattia, ma era comunque rischioso, nonché pericoloso. Per giunta, in quel periodo dormiva in un ricovero per poveri e barboni, poiché non guadagnava abbastanza denaro per affittare neppure una capanna, perciò anche le condizioni igieniche non erano delle migliori. E, sebbene ne avesse sempre denigrato l’uso, stava cominciando pure ad avvicinarsi per disperazione al mondo della droga, come unica via di fuga dall’inferno che viveva ogni giorni, dall’incubo che era costretto a sopportare per la fame.
    Alla fine, in un giorno grigio d’autunno, aveva incontrato Alan, in sella alla sua bici, con il bauletto traboccante di fiori profumati e colorati. Era accaduto tre anni prima. Quel solare ragazzo con un improponibile cespuglio di capelli rossi e ribelli stava passando da quelle parti per effettuare una consegna a domicilio. Così, per caso, lo aveva notato seduto sul marciapiede e gli aveva regalato un fiore con una spontaneità disarmante, sorridendogli come mai nessuno aveva fatto e facendogli nascere un piacevole calore nel petto a cui successivamente riuscì a dare il nome di ‘speranza’. E di tempo ne era trascorso davvero poco prima che Alan, appreso il suo stile di vita, gli si attaccasse come una cozza allo scoglio e lo aiutasse a cercarsi un lavoro onesto e più remunerativo. Ora Jason lavorava come cameriere in un bar frequentato da gente non proprio raccomandabile, e la paga era una miseria, ma almeno era sicuro di ricevere dei soldi a fine mese, abbastanza per pagare l’affitto del suo squallido monolocale e per nutrirsi.
    Alan gli aveva letteralmente cambiato la vita, gli aveva afferrato la mano con un gesto brusco e lo aveva tirato su dal baratro in cui stava cadendo, sollevandolo dal fango e dall’infelicità. Da allora erano diventati migliori amici e si vedevano quasi ogni giorno, godendo della reciproca compagnia come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non avessero mai fatto altro da quando erano nati. La sintonia e la complicità che li univano erano sorprendenti e inusuali, ma loro non si erano mai fatti troppe domande.
    Le ruote sottili di gomma tagliarono in due una pozzanghera sull’asfalto, fecero lo slalom tra cartacce, cocci di vetro e bottiglie di alcolici abbandonati lungo la strada e si lasciarono pian piano alle spalle lo scenario di degrado che regnava sovrano in quella parte della città, per giungere in una zona famosa per i traffici di droga e le lotte clandestine: lì abitava Jason. Alan frenò davanti ad un edificio quasi in rovina e abbassò il capo per rovistare nella borsa in cerca delle chiavi dell’appartamento. L’amico gliene aveva fornite una copia per qualunque evenienza e ormai il rosso era diventato di casa in quel tugurio impregnato del fetore delle fogne, che proveniva sottoforma di effluvi tossici dai tombini.
    Alzò il viso trionfante con il mazzo di chiavi in mano, quando scorse una sagoma familiare dietro la porta di vetro opaco del fatiscente condominio. Smontò dalla bici imprecando a bassa voce, si coprì la testa con il cappuccio della felpa leggera di cotone e si appiattì contro il muro dall’intonaco sudicio e scrostato, accovacciandosi e fingendo di essere uno dei tanti derelitti che popolavano quelle vie.
    Un ragazzo ben piazzato, che dimostrava tra i venticinque e i trent’anni, con i capelli neri a spazzola, un piercing in mezzo al labbro inferiore e gli occhi leggermente a palla scuri come la pece, uscì dopo un paio di secondi, si aggiustò il giubbotto di pelle nera e si allontanò nella direzione opposta senza accorgersi di Alan. Questi digrignò i denti, le mani che prudevano dalla voglia di scagliarsi su quell’individuo abietto e cambiargli i connotati a forza di botte, ma si costrinse a rimanere piegato sulle ginocchia finché l’altro non scomparve in una stradina laterale. A quel punto si alzò di scatto, recuperò la bici, abbandonandola poi sul pianerottolo dell’edificio e legandola con catene e lucchetto, e si precipitò su per le scale, il cuore che batteva impazzito nel torace e il sangue che lentamente defluiva dal volto. Prese a sudare freddo, l’adrenalina e la paura offuscavano la fatica e le fitte di dolore che gli trasmetteva la milza, mentre arrancava sugli scalini come un forsennato per arrivare al quinto piano.
    Gli furono necessari quattro tentativi per infilare la chiave nella serratura, poiché, data l’agitazione che gli scorreva impetuosa nelle vene, i palmi erano sudati e le dita tremanti. Quasi ruppe i cardini dalla foga con cui irruppe nel monolocale e immediatamente scandagliò con occhi sgranati l’ambiente. In un primo momento pareva tutto a posto, se non fosse stato per una figura raggomitolata su una brandina dalle molle rotte, coperta a malapena con un lenzuolo azzurro sgualcito.
    “J.J.!” esclamò, raggiungendo come un razzo il capezzale dell’amico, inginocchiandosi sul pavimento con aria apprensiva. “J.J…” sussurrò meno convinto.
    Jason non voleva evidentemente la minima intenzione di riemergere dal bozzolo di coperte e Alan lo scrutò corrucciato.
    “Cosa ti ha fatto, J.J.?” gli pose delicatamente una mano su quella che suppose fosse una spalla e gliela accarezzò. “Ho visto Charles uscire.”
    Ancora nessuna risposta.
    “Ti ha messo di nuovo le mani addosso? Avanti, fatti vedere.” lo incoraggiò in tono gentile e pacato.
    Alle orecchie gli giunse un pigolio lamentoso e il lenzuolo si mosse un poco, giusto quel tanto che bastava per rendere quella prigione di tessuto ancora più inespugnabile.
    “Jason, per favore. Non fare così, ci sono io adesso.” lo pregò, continuando ad accarezzarlo.
    Gli ci vollero molti minuti per convincere l’amico a venire fuori e quando lo fece, ad Alan occorse tutta la sua pazienza, non molta in realtà, per non ringhiare o imprecare.
    Fissò contrito il livido bluastro sullo zigomo sinistro, il taglio ancora rosso e incrostato di sangue sul labbro superiore, i piccoli ematomi tondeggianti sul collo niveo e il nulla riflesso nelle iridi azzurre dell’altro. Il cuore gli si compresse in una morsa dolorosa, ma inghiottì l’amaro che gli era salito repentinamente in gola e non proferì parola, limitandosi a stringere Jason in un abbraccio confortevole e caldo. Avvertiva gli occhi e il naso pizzicare, ma cacciò indietro le lacrime, non era quello di cui l’altro aveva bisogno, in quel momento.
    “Vieni, andiamo in bagno, ti aiuto a darti una sciacquata.”
    Lo prese in braccio avvolto ancora nel lenzuolo e lo scaricò nella vasca, delle cui condizioni igieniche Alan aveva sempre dubitato, a causa delle chiazze marroncine intorno allo scarico e sui bordi. Riuscì a strappare all’altro la sua corazza di cotone, gettandosela poi alle spalle con noncuranza, e con l’espressione più impassibile del suo repertorio aprì il getto dell’acqua, regolando la temperatura. Jason si rannicchiò in posizione fetale, forse con l’intenzione di trasformarsi in una particella minuscola, e i capelli lisci e neri, lunghi fino alle spalle e tagliati a caschetto, andarono a coprirgli il viso come le due ali di una tenda.
    Il diciottenne lo ignorò e con la spugna iniziò a strofinare la pelle chiara dell’amico, stando attento a non premere sui lividi o sulle escoriazioni disseminate ovunque. Serrò le labbra così forte da farle impallidire, gli occhi verdi divennero laghi di pena e dispiacere e l’impulso di abbracciare Jason fino ad inglobarlo dentro di sé lo pervase con la violenza di uno schiaffo.
    Il suo corpo magro e spigoloso, con le vertebre della schiena, quelle più vicine al collo, sporgenti, così come le costole in evidenza e le dita delle mani scheletriche, quasi tutto in lui gridava ‘fragilità’. E tale fragilità non riguardava soltanto la sfera fisica, ma anche e soprattutto quella emotiva. Bastava osservare i suoi occhi grandi e azzurri per rendersene conto. E Alan detestava chi se ne prendeva gioco, chi se ne approfittava, chi usava l’insulsa prevaricazione per sottomettere sia nel corpo che nell’anima una persona già prostrata dalla crudeltà della vita, una persona che chiede solo un po’ d’amore.
    Spremette il tubetto di shampoo e gli tirò piano i capelli indietro, cominciando a insaponarglieli con dolcezza. Jason aveva le palpebre chiuse e le guance bagnate per via delle lacrime che ancora scendevano silenziose. Gli fece appoggiare la nuca sul bordo della vasca e gli massaggiò la cute, piegandosi poi per depositare un bacio sulla sua fronte distesa.
    “Io ci sarò sempre, J.J. Sempre. Capito?” gli bisbigliò a pochi centimetri dal viso e in quell’istante l’amico aprì gli occhi, spalancandoli su di lui. Due pozzi azzurro cielo, spauriti e sofferenti, liquidi e puri come quelli di un bambino. Jason guardò Alan come si guarda la propria madre, con assoluta devozione, con una muta richiesta di affetto, con incondizionata gratitudine. Dopodichè gli circondò il collo con le braccia senza un filo di muscoli e lo attirò a sé, cercando le labbra del maggiore per un bacio, che non gli fu negato. Fu un tenero sfiorarsi, un leggero contatto che nascondeva un significato ben più profondo di quello che traspariva.
    Alan aveva sempre considerato Jason il compagno della sua anima, l’unico individuo esistente al mondo con cui il suo spirito era mai entrato in risonanza, quasi fosse un prolungamento del suo corpo, di se stesso. Era amore anche quello, ma era diverso dal tipo che invece lo legava a Raphael, più inerente al cuore, alla passione, al desiderio. L’amore che provava per il coetaneo era differente, ma non per questo meno importante o indispensabile, era altrettanto travolgente e unico e li fondeva in un solo essere vivo e pulsante, in un universo in cui i sensi erano ovattati, un universo fatto di calore e pace che li faceva sentire entrambi leggeri e liberi di ridere.
    Alan gli accarezzò lievemente una guancia e sulla bocca si disegnò un sorriso, a cui l’altro rispose, seppur non con la medesima espansività.
    “Resti con me?” chiese Jason con voce arrochita.
    “Sì. Fino a quando ne avrai bisogno.” gli diede un buffetto e gli sciacquò i capelli, poi lo fece alzare e lo coprì con un asciugamano pulito. Lo aiutò a stendersi sul letto e quello gli fece spazio per permettergli di sdraiarsi al suo fianco. Il più piccolo si accoccolò su di lui, la faccia affondata nell’incavo fra il collo e la spalla e le braccia raccolte al petto.
    “Grazie, Al.” mormorò.
    “Di nulla.”
    “E scusa.”
    “Per cosa?”
    “Ogni volta che mi faccio scoprire da te in queste condizioni, sento di farti un torto. Perché tu non fai altro che dirmi che dovrei diventare più forte, ribellarmi, tirare fuori i denti e non subire senza emettere un fiato ed io ti rispondo sempre che lo farò, che ci proverò. Invece, quasi ogni volta che varchi quella soglia, mi trovi così…” singhiozzò e gli si strinse di più addosso. “Scusa…”
    Alan sospirò stanco e lo cullò ad occhi chiusi. “Ti dico quelle cose perché voglio che tu sia felice, JJ. Ma la felicità arriva soltanto a chi sa ricercarla con tutto se stesso, non a chi si lascia sballottare qua e là dal flusso degli eventi. Per questo motivo vorrei che diventassi forte, vorrei che imparassi ad alzarti da solo e a correre con le tue gambe. Io ci sarò sempre per te, ma forse la mia presenza non ti aiuta a crescere e a trovare quella forza necessaria per-”
    “Vuoi abbandonarmi?!” sbottò angosciato.
    “No! No, non lo farò mai, è una promessa.”
    “Scusami. Lo so che hai ragione, ma… ho troppa paura di Charlie. E poi, lui mi ama, a modo suo.”
    “Non ti ama, J.J. Se ti amasse veramente, non ti farebbe del male. Perché amore vuol dire desiderare soltanto la felicità della persona amata, starle accanto nei momenti di difficoltà e non lasciarla mai. Lui, invece, ti usa e basta. Ti scopa, ti picchia e infine ti abbandona come se tu fossi una puttana. Certo, lo sei stato, ma ora non più, quel capitolo della tua vita è chiuso, non ti riguarda adesso. E lui non deve permettersi di trattarti in quel modo inumano, neanche fosse un animale.”
    “Perché fai così, Al?”
    “Così come?”
    “Ti scaldi sempre quando si parla di Charlie.”
    “Perché mi preoccupo per te, cazzo! Non mi va di arrivare qui, un giorno, e trovarti morto, va bene? Buttalo fuori dalla tua vita, J.J., ti prego.”
    Jason rimase in silenzio per un po’, l’aria assorta e al contempo intrisa di tristezza.
    “Tu mi ami, Al?”
    “Sì, ti amo.”
    L’altro sorrise. “Anch’io.” strofinò il naso sulla pelle del suo collo, come un cucciolo. “Ti amo tantissimo.”
    “Chiamo il tuo capo e gli dico che stasera non lavori?”
    “Mh, per favore.” biascicò, già in dormiveglia.
    “Ok”
    Fece la telefonata e, quando riattaccò, Jason si era addormentato come un sasso. Al diciottenne non sfuggirono le occhiaie marcate, il pallore del suo viso deturpato dai segni della violenza di quel bruto di Charles, la rassegnazione che emanava tutto il suo essere, e non gli piaceva affatto. Per tre anni aveva tentato di insegnare all’amico a combattere, ad affrontare le proprie debolezze; gli aveva teso parecchie volte la mano, gli aveva trovato un lavoro, lo aveva aiutato con le prime spese per la casa, si era preso cura di lui quando gli incubi dei suoi giorni da prostituto lo tormentavano durante la notte; gli era rimasto accanto sempre e comunque, a dispetto delle liti, delle incomprensioni, accettando quel ragazzino per chi era, ma ora stava per raggiungere il limite di sopportazione. Non voleva vedere Jason ridursi in quello stato, non voleva assistere impotente mentre cercava di autodistruggersi. E probabilmente era stato Alan a trasformarlo nel ragazzino fragile che era. Aveva risolto troppi problemi al suo posto, si era fatto carico di troppe responsabilità, alleggerendo con sincero spirito altruistico il peso che il moro si portava sulle gracili spalle. E questo suo comportamento aveva negato al giovane l’opportunità di crescere, di fortificarsi, di reagire alle avversità, di rapportarsi alle difficoltà con sempre maggior maturità e risolutezza. Di conseguenza, Jason era rimasto un bambino, un docile e tenero infante che si affida completamente e con cieca fiducia alle sue cure, perché sa che non verrà mai deluso. In sostanza, Alan lo aveva viziato e ora era un’impresa ardua provare a distaccarsi almeno un po’, per interporre fra loro la distanza perfetta per far sì che l’amico diventasse un uomo.
    Però, dall’altra parte, non se la sentiva di rompere l’equilibrio che si era creato nel corso degli anni, temeva un crollo psicologico del compagno, già instabile, e se gli fosse accaduto qualcosa in sua assenza non se lo sarebbe mai perdonato.
    Inoltre, quello stesso giorno era stata colpa sua se il diciassettenne era stato violentato per l’ennesima volta da quello che Jason chiamava ingenuamente “il mio ragazzo”. Se solo non fosse arrivato in ritardo, forse Charles non si sarebbe fatto vedere. Era colpa sua, stava a lui chiedere scusa, in verità. E quando il moro si fosse svegliato glielo avrebbe detto. Anche se, più di ogni altra cosa, voleva comprendere cosa spingeva il minore fra le braccia di quel drogato, cosa ci trovava in lui di così irresistibile, tanto da non osare e non desiderare affatto di opporsi. Era soltanto paura oppure c'era qualcosa di più? Per esempio, una sorta di sindrome di Stoccolma o qualcosa del genere. Sospirò abbattuto.
    Lo abbracciò stretto a sé, inalando la fragranza dolce dello shampoo.
    Non avrebbe mai permesso che si disintegrasse con le sue stesse mani, lo avrebbe protetto al meglio delle proprie possibilità. E, prima di cadere anche lui nel sonno, sbuffò divertito, realizzando quanto fosse difficile il mestiere del genitore e percependo un concreto sentimento di empatia per sua madre: proteggere e allo stesso tempo rendere indipendenti. Tanto valeva prefissarsi l’obiettivo di eliminare la fame nel mondo. Anzi, quest’ultimo sarebbe stato assai più facile da portare a termine. Forse.

    QUESTO è IL TERZO CAPITOLO SEMPRE SCRITTO DALLA NOSTRA LADY 1990 E CHE MI SONO LIMITATA A TRASFERIRE IN QUESTO TOPIC.

    Il weekend metteva sempre Raphael a dura prova. Non poteva distrarsi con il lavoro e non poteva dedicarsi ad alcun hobby che gli permettesse di svuotare completamente il cervello, non avendone più uno. Prima, trascorreva due giorni in compagnia della sua famiglia, poiché erano gli unici momenti in cui finalmente gli era concesso di volgere lo sguardo solo e soltanto sulla moglie e la figlia, per osservarle ridere, ascoltare i loro cicalecci, guardarle dipingere o semplicemente entrare nella loro bolla di luce per venirne a sua volta inglobato. Dopo l’accaduto, invece, aveva perduto persino la voglia di muoversi o di respirare. Niente riusciva più a risvegliare il suo interesse, a scuoterlo nell’anima.
    Passava tutta la giornata a gironzolare per casa, faceva le pulizie, il bucato e guardava il telegiornale, ma quando il programma terminava, quando non c’era più nulla da lavare e tutto era ormai lindo e splendente, si metteva seduto sul divano a fissare un punto a caso. Non rispondeva al telefono e non andava ad aprire se suonavano il campanello. Restava immobile come una statua, lo sguardo spento e il volto pallido e stanco. Come un guscio vuoto.
    In quel momento stava spolverando gli scaffali pieni di cianfrusaglie varie nella cameretta di sua figlia. Non aveva toccato niente, in quei tre anni. Tutto era come lei lo aveva lasciato. Il pigiama piegato sul cuscino, opera di Alicia; un libro di fiabe abbandonato sul pavimento, aperto sulla storia della Sirenetta; la scatola delle bambole in mezzo alla stanza, con tutti i vestitini che traboccavano da essa; il camion di Barbie vicino al letto.
    Guardando quest’ultimo, un sorriso malinconico si aprì sul suo volto, illuminandolo per pochi secondi.

    “Papà! Papà!” quei richiami esagitati, che raggiungevano un livello spropositato di decibel, ferirono come coltellate i timpani delicati dell’interpellato, svegliatosi soltanto da mezzora e seduto al tavolo, con ancora le cispe incastrate nelle ciglia, a fare colazione e leggere le notizie sul giornale come ogni domenica mattina.
    “Mh.” grugnì intontito.
    “Papà, lo sai che il papà di Melinda ha comprato a Melinda il… il…” Margareth lanciò un’occhiata alla madre in cerca di aiuto. “Mamma!” si lagnò.
    “Camion…” le suggerì Alicia con un sorriso divertito.
    “Sì, il camion di Barbie?”
    “Ah…”
    “Lo sai?” insistette la piccola.
    “No…”
    “Lo compri anche a me?” gli chiese, aggrappandosi come un koala alla maglia del pigiama di Raphael.
    “Mh…” mugugnò questi assorto, continuando imperterrito a sfogliare le pagine e a bere distrattamente il caffè fumante dalla tazza. Ci soffiò appena sopra.
    “Papà!”
    “Che c’è, Maggy?” sbuffò monocorde.
    Margareth mise il broncio. Si arrampicò sulle gambe del padre, si intrufolò sotto il giornale e afferrò con le manine paffute le guance del genitore, indirizzandogli il viso verso di lei e facendo in modo che la guardasse negli occhi. Lo osservò con cipiglio serio e arrabbiato, persino un po’ agguerrito.
    “Papà! Voglio il camion di Barbie.”
    “No.” le rispose lapidario.
    La bambina esplose. “Ma perché?!” la sua vocina stridula riecheggiò per tutta la cucina e gli occhi le si fecero lucidi per il rifiuto ricevuto.
    “Piuttosto ti compro un bellissimo libro.”
    “Maggy non sa leggere, tesoro. E poi che genere di libro? Un trattato specialistico sull’oscillazione di origine sismica e i danni che essa può causare alle infrastrutture con pannelli catarifrangenti all’avanguardia?”
    “Esiste una cosa simile? Devo correre a comprarlo…”
    “No! Io voglio il camion!” si intromise Maggy, battagliera e decisa più che mai a vincere la sfida.
    Raphael fissò in tralice la moglie. “E aiutami, Cristo!” le sibilò infastidito.
    Alicia, con i capelli neri pieni di nodi e sparati nei quattro punti cardinali, gli occhi ancora appannati dal sonno e l’aria sbattuta, fece spallucce e riprese ad inzuppare i biscotti nel caffelatte.
    “Tch!” il marito la scrutò risentito.
    “Voglio il camion! Voglio il camion! Il camion!”
    “Ma tu guarda se quelli, pur di vendere le loro insulse bambole platinate, si vanno a inventare pure una Barbie camionista! Non è per niente femminile.” borbottò, cercando di staccare la figlia, il giornale ormai irrimediabilmente spiegazzato.
    La piccola assunse un’espressione interrogativa: non sapeva cosa fosse una ‘camionista’.
    “Io lo voglio lo stesso!” esclamò, strattonando con energia la stoffa del pigiama del padre e rischiando di strappare anche qualche bottone.
    “Va bene, va bene.” si arrese per finta Raphael, tanto per calmarla e scollarsela di dosso.
    “Allora me lo compri?” domandò nuovamente speranzosa.
    “Sì sì.”
    “Sìììììììì!” urlò felice e abbracciò l’uomo, che sbuffò e percepì un minuscolo e quasi insignificante senso di colpa serpeggiare nei meandri della sua anima. “Ti voglio bene, papà!”
    “Mh, anch’io te ne voglio, pulcino. Sei la mia figlia femmina preferita.” le sorrise, spettinandole con una mano i capelli.
    Margareth rise, ma subito dopo tornò seria. “Perché, quante ne hai?”
    Ad Alicia andò di traverso il caffelatte e cominciò a tossire, dandosi poi piccoli colpi sul petto con la speranza di riguadagnare presto l’ossigeno.
    “Eh, sapessi…” ghignò Raphael, tirandole un buffetto giocoso sulla guancia.
    “Mamma!” chiamò lamentosa, sporgendosi verso la donna.
    “Non badare a quello che dice, Maggy.” altro colpo di tosse. “Scherza.”
    Il biondo stese le labbra in un sorriso enigmatico e trangugiò il caffè.
    “E lo sai chi è la mamma?” le bisbigliò in tono complice all’orecchio.
    “No, chi è?”
    “E’ la mia moglie preferita. E chi è la tua mamma preferita?”
    La bambina ridacchiò, proferì un rapido “Lei!” e scese dalle ginocchia del padre per correre ad abbracciare la madre.

    Alla fine le aveva comprato il camion che desiderava tanto, anche se la settimana successiva se n’era uscita dicendo che il padre della sua amica Melinda le aveva acquistato la nuovissima villa con piscina con tanto di ascensore e armadio-guardaroba di Barbie, appena lanciato sul mercato, e che lo voleva anche lei per non rimanere indietro.
    Scosse il capo e uscì dalla camera. Mancava soltanto di dare l’aspirapolvere e le pulizie settimanali potevano considerarsi concluse. Ed erano soltanto le undici di domenica mattina. Per fortuna lavorava anche il sabato, così non era costretto a passare più di un giorno intero a casa.
    Alle tre del pomeriggio era già seduto sul divano color panna davanti alla televisione, stavano trasmettendo una fiction poliziesca che a Raphael non interessava minimamente, perché lui apparteneva all’elitaria categoria di quelli che credono fermamente che il colpevole sia sempre e comunque del maggiordomo. Ergo, tutte quelle supposizioni assurde e contorte campate in aria e quelle analisi scientifiche portate avanti da un’equipe di finti professionisti cervelloni non scalfivano neanche di striscio le sue ferree convinzioni in materia di gialli.
    Le tapparelle erano abbassate e, nonostante fuori fosse una giornata tiepida e soleggiata, pochissimi raggi di luce filtravano attraverso di esse, illuminando appena il salotto immerso nella penombra.
    A Raphael piaceva così. Si sentiva al sicuro, al riparo, nemmeno lui sapeva da cosa. Il divano si trovava in mezzo alla stanza e la televisione davanti alla portafinestra che dava direttamente su un piccolo giardino interno di sua proprietà. Però ormai da tempo nessuno ci metteva più piede, quindi le erbacce erano cresciute talmente tanto da dare l’impressione di trovarsi in una selva. Alle sue spalle, sul treppiedi posto accanto alla parete soleva trovarsi un vaso di fiori freschi, così come sul tavolo di cucina e sul quello tra il divano e lo schermo, ma anche sulle mensole della libreria della sala e sui balconi delle finestre. Alicia amava i fiori, ma soprattutto adorava i colori vivaci, e sembrava possedesse pure un eccellente pollice verde.
    Adesso, invece, la casa appariva spoglia e priva di quel non-so-che tipico delle dimore vissute, quel tocco speciale che riflette la personalità del padrone. O meglio, l’assenza di ciò era essa stessa simbolo rivelatore dell’indole di Raphael, perché l’ambiente che lo circondava e in cui lui amava rifugiarsi rispecchiava il suo stato d’animo alla perfezione.
    Detta in parole povere: una grande tristezza.
    Ma lui si ostinava a dire che andava tutto bene, che stava bene e che sarebbe stato bene. Lo diceva sorridendo, con quell’espressione mite e gentile che tanto lo caratterizzava, tant’è che gli amici che talvolta lo andavano a trovare restavano spiazzati e indecisi fra il credergli o il fingere di farlo.
    Comportandosi in tal modo, tuttavia, non faceva altro che allontanare le persone care, frapponendo tra sé e loro un muro invalicabile fatto di dolore e solitudine, nonché orgoglio. Poiché spesso Raphael si crogiolava inconsciamente nell’idea che nessuno era in grado di capirlo, nessuno poteva neanche immaginare cosa stesse provando e cosa aveva passato. Ci sguazzava dentro, in questi pensieri, e nel suo scivolare verso le profondità del baratro, al contempo si elevava autonomamente ad un livello superiore rispetto ad amici e conoscenti, sempliciotti che non sapevano neanche lontanamente cosa fosse la vera disperazione. E in seguito si sentiva in colpa per aver solo formulato tali riflessioni malsane e velenose nei confronti di qualcuno che lo amava. Il tutto in un susseguirsi ripetitivo di ossessivi percorsi mentali, a volte privi di logica, dettati soltanto dall’angoscia e da quel tarlo molesto e soffocante chiamato ‘rimpianto’.
    Le ore trascorsero lente, scandite dal ticchettio dell’orologio che indossava al polso e dai programmi trasmessi in televisione. Alle sei e un quarto, inaspettatamente, il campanello suonò, facendolo sobbalzare e provocandogli un principio di infarto. Assunse un’aria perplessa e si alzò per andare ad aprire, affatto contento di quell’interruzione che aveva squarciato brutalmente la placidità e il silenzio a cui era tanto affezionato. E non era per niente preparato alla visita di quella persona.
    “Raphael! Quanto tempo! Vieni, fatti dare un bacio.”
    Una donna sulla quarantina, alta, elegante, con i capelli scuri, folti e mossi, raccolti in un coda bassa e due occhi simili a pozzi d’inchiostro, gli saltò al collo e gli stampò due sonori baci sulle guance, senza preoccuparsi di macchiarlo col rossetto di una sfumatura sanguigna.
    “Glenda… che ci fai qui?” balbettò smarrito, pulendosi la faccia con il dorso di una mano e rifiutandosi di cedere il passo all’ospite.
    “Ma come, non mi fai entrare? Sono più di quattro mesi che non ci vediamo e non rispondi mai alle mie telefonate. Quindi, eccomi qui! Ho deciso di farti un’improvvisata.” gli rivolse un sorriso caldo e sincero, da pubblicità di un dentifricio, e lo scostò senza troppe cerimonie.
    Posò la borsa sul cassettone nell’ingresso e si lisciò il vestito attillato di cotone beige, che si sposava divinamente con la sua carnagione olivastra e la silhouette da modella.
    “Glenda, non è il momento.” tentò di dissuaderla, invano.
    “Oh, Raphael, fosse per te non sarebbe mai il momento! E vedo che la situazione, qui, non è cambiata di una virgola…” lo apostrofò sconsolata e avanzò in equilibrio sui tacchi a spillo in salotto, fermandosi davanti alle finestre.
    Aprì i vetri e tirò su le tapparelle, inondando della luce aranciata del tardo pomeriggio ogni anfratto della stanza.
    “Che stai facendo?” le chiese, infastidito da tutta quella confidenza inopportuna e dal quel suo modo di fare impulsivo e, a suo avviso, maleducato. Insomma, non è cortese invadere senza permesso gli spazi altrui e Raphael era molto geloso dei suoi.
    “Non lo vedi da te? Tutto questo buio non ti fa bene alla salute.” lo liquidò la donna con un gesto secco della mano. Poi tornò a prendere la borsa, ne estrasse una scatola recante la scritta di una famosa pasticceria e gliela porse.
    “E guarda cosa ti ho portato! Un regalino! È una sciocchezza, caro, non ringraziarmi.” gli accarezzò brevemente una spalla e gli appioppò con malagrazia la confezione di cioccolatini fra le braccia.
    “Lo sai che odio i dolci.”
    “Non è mai troppo tardi per cambiare idea, tesoro.”
    “Io non voglio cambiare idea, Glenda! Non puoi manipolare i gusti della gente!”
    “Sono a capo di un’agenzia di moda, è il mio lavoro. Detto io le regole e decido io cosa piace e cosa non piace. Perciò, tu mangerai quei cioccolatini, perché non esiste nulla al mondo più squisito del cacao.”
    Raphael scrollò la testa e posò la scatola in cucina.
    “Posso offrirti qualcosa?”
    “Una tisana, grazie.” gli rispose, mentre si accomodava tranquillamente sul divano e cominciava a fare zapping con il telecomando.
    “Ho solo del caffè.”
    “Ah, il caffè! C’è stato un periodo in cui me lo sognavo la notte, esattamente quando il mio terapista mi consigliò di darci un taglio. Tu non immagini cosa sia la crisi di astinenza. Volevo iniettarmelo in vena. Pensa che anche il sesso passò in secondo piano! Ma no, non cederò alla tentazione, altrimenti sento che tutti i soldi che ho sborsato per quelle fottute sedute avrei anche potuto gettarli nel cesso. Per non parlare di Roger, è già schizzato per conto suo, non serve che mi ci metta anche io.”
    L’uomo ascoltò gli sproloqui della sua ospite con un sopracciglio inarcato, ma lasciò cadere il discorso bevande.
    “Comunque,” continuò Glenda, “questa casa fa schifo.”
    “Grazie, sei sempre gentile.”
    “No, intendo… insomma, manca un tocco femminile.”
    “Glenda, smettila.”
    “Lo so che sei ancora attaccato a mia sorella, lo capisco, e Dio solo sa quanto ancora piango se penso a lei. Però, Raphael, sono passati tre anni. Secondo me è giunto il momento di-”
    “Smettila!” tuonò l’altro, fulminandola con lo sguardo. “Smettila. Tu non sai niente.” le sibilò incattivito. “E non apprezzo le tue visite, né le telefonate assillanti con cui mi bombardi trenta volte a settimana.”
    “Oh, certo! Perché tu sai tutto!” Glenda incrociò le braccia sul petto e girò il viso dalla parte opposta, offesa per le parole crude di Raphael.
    Questi sospirò e si sforzò di restare calmo.
    “Perché sei qui? Cosa vuoi?”
    “Diavolo, Raphael!” sbottò alzandosi e raggiungendolo inferocita. “Non posso preoccuparmi per te? È forse peccato essere in apprensione per il marito della tua defunta sorella? Sei tu che non capisci!” strepitò piccata.
    Si avvicinò e gli sfiorò la guancia, ma il biondo si ritrasse come scottato. La donna non demorse e prese a gesticolare.
    “Condividiamo lo stesso dolore, la stessa perdita. Alicia è insostituibile, ha lasciato un vuoto incolmabile, ma… bisogna andare avanti. Non ci guadagni nulla a rimanertene chiuso in casa, con l’insulsa convinzione che queste quattro mura possano proteggerti dal mondo che c’è là fuori, dalla realtà.”
    “Mi stai forse facendo una lezioncina? Vuoi insegnarmi come vivere la mia vita? Proprio tu, che ne vivi una disastrosa, con un marito adultero e due figli che tra poco non riconoscono più la loro madre, dato che questa passa la maggior parte del tempo in un ufficio a parlare di vestiti o in compagnia di uno strizzacervelli…”
    Lo schiaffo arrivò inatteso e violento come una secchiata d’acqua gelida. Raphael avvertì la guancia destra pizzicare e un lieve bruciore gli si diffuse sulla pelle. Serrò le labbra e distolse gli occhi da quelli lucidi di Glenda.
    “Sei uno stronzo.” gli disse con voce strozzata. “Sei un grande, emerito stronzo.” scandì gelida. Si voltò e camminò in tondo per un po’, cercando di fermare l’ondata di lacrime che minacciavano di sbavarle il trucco.
    L’uomo comprese di aver esagerato, accecato com’era da un immotivato rancore e dall’irritazione per aver accolto in casa un uragano che profumava di Chanel n.5. Eppure, non riusciva a chiedere scusa, le parole erano bloccate in gola.
    “Cazzo… io…” singhiozzò la mora, respirando a fondo per placare il battito del suo cuore. “Io vengo qui, con l’intenzione di tirarti un po’ su di morale, e guarda come vengo trattata… Neanche fossi io la causa della morte di Alicia.”
    “Glenda…” mormorò incerto.
    “No, niente Glenda!” esclamò fronteggiandolo nuovamente. “Io cerco di essere disponibile, carina, gentile, simpatica, energica, e puntualmente mi viene sbattuta la porta in faccia! Credi che standotene qui a commiserarti e a frignare sui ricordi ti arricchisca dentro? Io almeno faccio qualcosa per risolvere i miei problemi, io ci provo. Pensi che mi piaccia farmi analizzare? Pensi che gioisca nel sapere che mio marito mi tradisce? E che non c’è nulla che io possa fare per tornare nelle sue grazie? Ho provato con il sesso, con i weekend al mare e tanto sesso, con le cene, tutto, cazzo! Ma lui no, lui corre dall’amante accampando scuse come riunioni di lavoro e simili!”
    “Glenda…”
    “Sta’ zitto!” gridò stridula, puntandogli contro un dito completo di unghia smaltata di fresco dall’estetista. “Secondo te provo felicità nel notare che i miei figli non mi cercano più per leggere loro una fiaba prima di andare a letto, che stanno fissi davanti allo schermo del computer, che preferiscono stare da amici piuttosto che a casa loro, con la loro madre?” si tamponò le lacrime con i polpastrelli, stando attenta a non fare danni. “Ma a te non frega niente, vero? Io ho scelto di andare in terapia perché mi sono resa conto da sola che la mia vita fa schifo, grazie tante per avermelo ricordato!”
    Raphael sospirò e si grattò il collo, a disagio.
    “Io almeno ho preso in mano questo schifo di vita e mi sto facendo in quattro per non crollare. Non prendo antidepressivi o qualunque altro cazzo di farmaco, non affogo i miei problemi nell’alcool e non mi chiudo in casa a fare l’eremita e ad abbrutirmi di fronte a qualche fottuta soap opera. Ho un lavoro che mi permette di avere uno stipendio da capogiro e attualmente è l’unica cosa che mi realizza. Ma questo non significa che la vita che conduco sia tutta rose e fiori. Anch’io soffro, anch’io molto spesso mi sento infelice e disperata. Mi domando che ne è stato della Glenda agguerrita e piena di sogni e voglia di vivere che al liceo spopolava così tanto da far cadere ai suoi piedi ogni esponente di sesso maschile e così perfetta e raggiante da provocare invidia e ammirazione nelle donne. Cosa direbbero, se vedessero come mi sono ridotta?” si massaggiò la fronte. “Ciò che voglio sapere, Raphael, è di cosa sei geloso. Perché ti sto antipatica?”
    “Io… ecco…” bofonchiò impacciato, vagando con sguardo febbrile da un soprammobile all’altro.
    “Che cosa stai facendo? Tua moglie è morta. Tua figlia pure. È stato un incidente e tu non potevi farci niente.”
    “Ti sbagli.” i suoi occhi si indurirono.
    “Eh?”
    “Dovevo esserci io, su quell’auto. Con Maggy.”
    “Che vuoi dire?” chiese confusa.
    “Quel pomeriggio Maggy partecipava ad una merenda organizzata dalla scuola. Festeggiavano il compleanno della sua amica Melinda. Spettava a me andare a prenderla all’ora prestabilita, invece mi si presentò un problema al lavoro, un cliente non era soddisfatto del mio progetto, così dovetti trattenermi in studio per discutere con lui al telefono. Scrissi un messaggio ad Alicia e mandai lei a prendere nostra figlia.” i muscoli del viso si contrassero in un istante e un’espressione addolorata lo prese d’assedio. “Avrei dovuto esserci io al volante. Invece… Alicia…”
    “Allora immagina come si sarebbe sentita Alicia, se ora fosse stata al tuo posto. Come credi che l’avrebbe presa? L’avresti lasciata sola.”
    Il biondo andò a sedersi sul divano e si nascose la faccia fra le mani.
    Glenda, sebbene contrita e dispiaciuta, poiché non aveva mai considerato che l’altro potesse nutrire questi logoranti sensi di colpa, si accomodò accanto a lui e gli cinse le spalle.
    “So che è difficile, ma ci devi provare. Ti voglio bene, sei una brava persona. Sei onesto, affettuoso, intelligente, pacato e anche bello. Non ti manca niente, solo un po’ di forza di volontà.”
    “La cosa più importante, in sostanza.” soffiò afflitto.
    “Naaa!” sorrise lei, strizzandolo per qualche secondo. “Prendi me!”
    “Cioè, mi stai implicitamente consigliando di farmi psicanalizzare?”
    “Potrebbe essere un’idea! Oppure potresti alzare la cornetta, una volta ogni tanto, e chiamarmi. Anche Harvey è preoccupato. Mi ha riferito che ti ha letteralmente intasato la segreteria telefonica, ma non hai mai risposto neanche a lui. E sai quanto ci tiene a te.” lo rimproverò bonariamente.
    “Lo so.”
    “Che diamine, allora chiamalo!”
    “E’ che…”
    “Che?”
    “Non lo so… voglio restare solo ancora per un po’.”
    “Raphael, sono tre anni che stai solo.” puntualizzò ironica.
    “Sì, però…”
    “Ahhh! Basta, mi sono stufata di starti ad ascoltare. In certe occasioni sai dimostrarti davvero noioso ed esasperante. Tira fuori un po’ di grinta! Siamo ancora giovani, nonostante le rughe e i primi capelli bianchi!”
    “Hey, parla per te!”
    Quella scattò in piedi ignorandolo e si diresse verso la borsa firmata. “Ora devo andare, sono in ritardo. Ho promesso a Rose e Jack che avrei preparato le patate al forno con la panna per cena, il loro piatto preferito. Ad ogni buon conto, il numero del mio analista te lo invio per e-mail nei prossimi giorni, non sia mai che tu possa averne bisogno davvero. E mangia quei dannati cioccolatini! Mi sono costati un occhio della testa.”
    Il biondo, suo malgrado, ridacchiò divertito e incrociò il suo sguardo. Negli occhi azzurri brillava una scintilla di gratitudine e Glenda seppe afferrare il messaggio.
    “Buonanotte, Raphael. Stammi bene.”
    “Anche tu.”
    La porta si chiuse con un tonfo e la casa ripiombò nel silenzio ovattato e a tratti assordante.
    Su una questione, la sorella maggiore di Alicia, aveva ragione: ossia la gelosia di Raphael. Egli era geloso della famiglia della mora, ma non per il fatto che fosse perfetta - era anzi un disastro su tutta la linea - quanto perché lei ce l’aveva, una famiglia. E non si rendeva conto dell’immenso dono, dell'enorme privilegio che gli era stato concesso. Per questo motivo, quando la incontrava, la rabbia cominciava a ribollire. Lui aveva perso tutto e, perdendolo, aveva compreso quanto fosse veramente importante. Glenda, al contrario, stava perdendo tutto e si affannava a cercare aiuti esterni quando in realtà tutto quello di cui necessitava era già dentro di lei, nel suo naturale amore materno. Questo per quanto concerneva i figli. Il marito Roger era un’altra storia.
    Erano le undici, quando iniziò a ponderare seriamente l’idea di alzarsi, anche se il suo corpo non pareva condividerla. Sul tavolino di vetro plastificato davanti alla televisione, una confezione di cioccolatini vuota e abbandonata faceva bella mostra di sé, mentre un uomo con un’aria stanca, stravaccato sul divano, percepiva i primi crampi allo stomaco dovuti al troppo cioccolato ingerito.
    Sarebbe stata una lunga nottata. E lo sconforto crebbe quando realizzò che l’indomani avrebbe dovuto ripresentarsi sul posto di lavoro.
    I dolci lo tramutavano in una creatura estremamente pigra e sonnacchiosa, per questo non li mangiava mai.

    “Buon dì, mastro Raphael.” lo salutò cordialmente Anthony non appena varcò la soglia della biblioteca, ancora chiusa.
    “Buongiorno a lei, signor Jills.” gli sorrise affettato e si trincerò subito dietro la scrivania della reception.
    “Qualcosa vi turba, mastro Raphael?”
    Il biondo restò interdetto per un attimo. “No… no, signor Jills, va tutto bene. Grazie.”
    “Non sono persuaso…”
    “Per favore, si metta al lavoro.”
    “Bah…” Anthony biascicò qualcosa di indefinito e riprese a dare il cencio sul pavimento di marmo bianco.
    Aveva riflettuto tutta la notte sul litigio avuto con Glenda e non poteva esimersi dal sentirsi amareggiato e avvilito. Non era mai stato egocentrico o maleducato, la sua condotta integerrima gli aveva sempre aperto molte strade, gli aveva procurato molti amici e persino l’amore. Adesso non si riconosceva più.
    Sempre in pace con se stesso e il mondo intero, pur essendo introverso e timido, non aveva mai assunto atteggiamenti scostanti, freddi, che potevano arrecare dolore o fastidio nel prossimo. Non era nella sua natura. Tuttavia, doveva ammettere che negli ultimi anni era cambiato, e in peggio. Non si piaceva, ma non riusciva più a contemplare un diverso modo di essere, come se la persona che era stata prima non fosse che un fosco ricordo di qualcuno che non era mai esistito.
    Gli venne da domandarsi il perché.
    La giornata passò e Raphael svolse i suoi compiti in maniera impeccabile, come al solito. Soltanto un paio d’ore prima della chiusura serale si permise di distrarsi, per pochi minuti, sia chiaro.
    Quando una familiare testa rossa e scarmigliata fece il suo ingresso dalla porta a vetri scorrevole dell’atrio, i suoi occhi ruotarono dallo schermo del computer a quel ragazzino che vestiva abiti sgargianti come un pugno in un occhio. Aveva un qualcosa di selvatico, come un felino non addomesticato, complice lo sguardo penetrante verde bosco, così raro da vedere. Ogni volta che quell’adolescente lo fissava come se volesse sondarlo e mettere a nudo la sua anima, si sentiva terribilmente a disagio, vulnerabile, trasparente. E detestava queste emozioni.
    Era consapevole di non avere il diritto e nemmeno una ragione logica per provare dell’astio nei suoi confronti, però, sul serio, gli veniva naturale. Come un meccanismo inconscio di rifiuto atto a fungere da difesa contro eventuali attacchi. Ma fino ad allora, per due anni, il ragazzino non aveva mai fatto niente, a malapena gli aveva rivolto la parola.
    Raphael lo trovava eccentrico, fuori dagli schemi, curioso. E non capiva perché lo scrutasse in quel modo, profanando la sua maschera di normalità come il più crudele degli stupratori. Perché la crudeltà del rossino risiedeva nell’essere probabilmente ignaro del potere dei suoi occhi, nella totale innocenza e candore delle sue occhiate violente. E al contempo si dispiaceva nel pensar male di un individuo che non conosceva, dato che non era un tipo che si faceva trasportare e fuorviare dai pregiudizi o dalle apparenze.
    Passò la tessera del giovane sul dispositivo e, appena questo si illuminò di verde, gliela porse indietro facendogli un rapido cenno del capo.
    L’altro lo squadrò intensamente un’ultima volta, prima di dileguarsi nei corridoi della biblioteca. E, come ogni volta, Raphael piegò leggermente la testa nella sua direzione, inspirando di nascosto a pieni polmoni: il ragazzo profumava sempre di fiori, pareva ammantato perennemente da una fragranza unica e inebriante.
    L’uomo si morse il labbro inferiore con i denti e si costrinse ad archiviare tutte le immagini che il suo cervello gli stava proponendo, compresa quella di una donna con un caschetto nero che annusava deliziata delle rose gialle da un vaso di porcellana, un dolce sorriso sulle labbra carnose.
    Alan Becker. Così si chiamava quello che da due anni ormai era diventato un habitué, lì in biblioteca. Diciotto anni. Residente in città.
    D’altronde, era stato lui stesso a stampargli la tessera e a fargli compilare i moduli per l’iscrizione come socio.
    Ma non si spiegava come mai proprio lui avesse attirato il suo interesse. Il biondo, da quando era stato assunto, aveva imparato ad intrattenersi studiando puntigliosamente tutte le persone che venivano più di frequente, memorizzando quanti più dettagli poteva per abbozzare uno stilizzato quadro psicologico di ognuno.
    C’era ‘Mister sono cieco come una talpa, ma non voglio portare gli occhiali’, ‘Mrs maglioni di lana di pecora’, ‘Mister mi piace accarezzarmi la pappagorgia’, ‘Mister sono qui per evitare di stare a casa con mia moglie’, ‘Miss secchiona con tanti sogni e poco sesso’, ‘Mister professore di lettere antiche fallito’, e così via.
    Alan era ‘Adolescente problematico e orribilmente colorato’. Non aveva idea di cosa venisse a farci in biblioteca, perché non aveva l’aria di qualcuno a cui piace leggere. Una volta entrato, spariva chissà dove, per poi ripalesarsi pochi minuti prima della chiusura. Non che gli interessasse, intendiamoci, solo che si sentiva svantaggiato, in un certo qual modo. Alan pareva riuscire a scorgere il suo io al di là della sua corazza, mentre per lui risultava ancora un’impresa, e tale fatto lo poneva ad un livello inferiore. Non poteva accettarlo.
    “Mastro Raphael, permette una parola?”
    La voce lievemente gracchiante di Anthony, sicuramente causata da una gola e dei polmoni messi a dura prova dal fumo, lo riportò con i piedi per terra e lo schianto fu metaforicamente fragoroso.
    “S-sì?” fece stralunato.
    “Giacché nell’odierna serata dovrei far ritorno alla mia vetusta dimora anticipatamente, mi fareste la grazia di virar le luci dabbasso, allorché sprangate i battenti?”
    “Certo, signor Jills, nessun problema.”
    “Ve ne sono grato. Sapete, la mia adorata e insopportabile consorte mi intimò al mattino d’esser lesto nel redire, la cagione m’è ignota.”
    “Non si preoccupi, vada pure a casa. Ci penso io.”
    “Buonanotte, mastro Raphael.”
    “Buonanotte.”
    Picchiettò con le dita sulla tastiera, le labbra strette in una linea retta e gli occhi che prudevano dietro le lenti degli occhiali. Non ricordava più cosa si prova ad avere una moglie che ti aspetta a casa per la cena.
    Non se lo ricordava. Ed era straziante.
     
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  6. Lady1990
     
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    Come aveva promesso a Glenda, Raphael, dopo molti tentennamenti e tentativi andati a vuoto, si decise a chiamare il suo migliore amico. Sedeva su una sedia davanti al tavolo di cucina e fissava con crescente preoccupazione il telefono che rigirava nervoso fra le mani, come se bruciasse.
    Così, una settimana e quarantotto messaggi dopo, aveva convenuto che era meglio contattarlo, se voleva concedere un attimo di tregua alla segreteria. Fece un respiro profondo e si preparò psicologicamente ad affrontare Harvey. Quel tipo sapeva essere petulante e insistente come una mosca e l’unico modo per tenerlo buono era dargli un contentino. O almeno, Raphael sperò di non doversi sorbire un monologo su quanto l’amico fosse stato in ansia, su quanto volesse rivederlo e che sarebbe stato piacevole uscire insieme una sera a divertirsi. Al solo pensarlo si sentiva già stanco.
    Digitò il numero e si portò il telefono all’orecchio, tamburellando le dita sul ginocchio e occhieggiando l’ora sul forno a microonde.
    Harvey rispose al quarto squillo e la sua voce squillante, ma non per questo effeminata, perforò i timpani del biondo, che allontanò tempestivamente la cornetta.
    “Raphy! Amore, come stai? Perché non mi hai mai richiamato? Lo sai quanti messaggi ti ho lasciato? Dio, ero preoccupatissimo, non immagini neanche quanto! Pensa che mi sono pure abbassato a rivolgermi a Glenda, quella vipera!, e tra una damigiana di caffè e l’altra - ma lo sai che adesso si fa le tisane? Che schifo, sembra mia nonna! - l’ho dovuta supplicare in ginocchio di dirmi cosa ti era successo! Ah, l’umiliazione… e vedessi lei, con quel ghignetto sornione e vincitore sulle labbra coperte di rossetto, non sai quanto desideravo sbavarglielo sulla faccia!, che godeva della mia disfatta. Avevo l’orgoglio sotto le suole e tutto per colpa tua! Ma adesso dimmi, come te la passi? È un secolo che non ci vediamo, perché non usciamo una di queste sere? Conosco un locale veramente fantastico, potremmo andare a divertirci come ai vecchi tempi, eh? Cosa te ne pare?”
    Raphael sbatté più volte le palpebre frastornato, poi sospirò.
    “Ciao, Harvey.”
    “Ciao! Allora?”
    “Tutto come al solito, nessuna novità.”
    “Che palle! Come fai a vivere in quella monotonia, giorno dopo giorno, senza mai staccare un po’? Dai, usciamo!”
    “Tu come stai?”
    La strategia migliore da adottare con Harvey era ignorare la sua diarrea verbale e sforzarsi di portare avanti una conversazione civile, senza lasciarsi trascinare dal suo dilagante entusiasmo congenito. Perché, se malauguratamente abbassavi la guardia, rischiava di provocarti una crisi di nervi coi controfiocchi e disturbi ossessivo-compulsivi da stress.
    “Benone! Ora che sta arrivando l’estate c’è un sacco di lavoro da fare. In pratica lavoro quasi tutte le sere, a parte il mercoledì, che è il mio giorno libero. C’è sempre casino e- Hey! Quello è il mio eye-liner, mollalo subito! No… no! Sì, ok, mettila lì! Scusa, Raphy, sono al locale e mi sto preparando, c’è un casino bestia e- Merda, Gil, fatti i cazzi tuoi! … un amico… e non rompere! Fila a cambiarti! Dicevo, ti scoccia se ti richiamo dopo?”
    Il biondo udiva degli strani rumori di sottofondo misti a una voce maschile che blaterava di continuo e ridacchiava. Dedusse che l’amico si trovava nei camerini e in effetti mancavano dieci minuti a mezzanotte, tra poco sarebbe cominciato il suo abituale spettacolo.
    “Scherzi, io vado a dormire, devo alzarmi alle sei! E guai a te se mi telefoni durante la notte! Se lo fai, ti disconosco.”
    “Ok, afferrato. Però ci risentiamo domani? Ho tanta tanta tanta tanta voglia di vederti, amore mio! Mi manchi!”
    “Anche tu, stupido frocio.” sorrise. “A domani.”
    “Ah ah. Senti chi parla. Gil, porca di quella… lascia i miei boxer, ho detto la-”
    La chiamata si interruppe bruscamente e Raphael chiuse gli occhi esausto, accasciandosi sulla sedia privo di energie.

    “Gil, torna subito qui! Ma chi diavolo me l’ha fatto fare, di dividere questo bugigattolo con uno stupido primate come te?” sbraitò Harvey, rincorrendo il collega che saltellava giulivo per il camerino.
    Gil sbandierò per aria i boxer con gli strass argentati, si arrampicò sul mobilino nero dove venivano abitualmente riposti gli abiti da scena e ridacchiò.
    “Chi era al telefono?”
    “Nessuno. Ridammi i miei fottuti boxer, se non vuoi ritrovarti con due incisivi in meno e la faccia tumefatta!” lo minacciò il compagno, afferrandogli una caviglia per sbilanciarlo.
    “Era il famoso Raphael? Era lui, vero?” cantilenò sornione.
    “Fatti i cazzi tuoi.”
    “Lo sapevo!”
    “Gil, ora ti ammazzo. E smetti di sghignazzare come una donnicciola!”
    Gil scoppiò a ridere sinceramente divertito. “Sembri un gorilla isterico, dovresti vederti.”
    “Perché non vai a sventolare il culo piatto che ti ritrovi da un’altra parte, eh?” saltò un paio di volte, protendendo le braccia verso quel pezzo di biancheria che doveva indossare per lo show.
    “Io non ho il culo piatto!” ribatté offeso il collega, mentre quello che doveva essere un tenero broncio, ma che di tenero non aveva niente, era solo ridicolo, gli increspava le labbra sottili.
    “E’ vero, di piatto hai qualcos’altro.” concordò Harvey.
    “Cosa?”
    “L’encefalogramma! E ora scendi di lì.”
    La porta del camerino si spalancò di botto e una ragazza con i rasta e il viso ricoperto quasi interamente di piercing si affacciò, per poi squadrarli con cipiglio da ‘non voglio sapere cosa state facendo’. Si limitò a fissare lo sguardo penetrante sui boxer, sui due colleghi nudi come mamma li aveva fatti e sulle condizioni disastrose in cui versava quella stanzetta due metri per tre.
    “Ragazzi, tra due minuti entrate in scena. Ricomponetevi.” disse in tono neutro e se ne andò.
    Harvey si rimpadronì del bottino ed emise un verso stizzito.
    “Vaffanculo, Gil.”
    “Oh dai! Scherzavo!” si schermì lui, alzando le mani in segno di resa.
    “Beh, non è divertente.” replicò, cominciando a vestirsi.
    “Quanto sei permaloso…”
    “Piantala e sta’ zitto.”
    La sala venne avvolta dal buio. Il rumore andò via via sfumando, trasformandosi per qualche secondo in brusio e infine lasciando spazio ad un silenzio denso di elettricità. Due luci bluastre si accesero all’improvviso e sul palcoscenico apparvero due ragazzi, più o meno della stessa altezza, travestiti da poliziotti. Uno aveva i capelli lunghi un po’ più di metà schiena, castani e lisci, mentre l’altro sfoggiava una capigliatura nera, corta e lucida di gel. Entrambi erano ben piazzati, e nonostante la divisa, la muscolatura era più che evidente. Il pubblico in sala, composto per la maggior parte da donne, fremeva per vedere ciò per cui aveva profumatamente pagato.
    Il Maiden’s Blossom era un rinomato locale di spogliarellisti, dove si poteva entrare solo attraverso la prenotazione e vantava oltretutto una clientela scelta, con un portafoglio pesante e ben nutrito. E spesso vi venivano festeggiati addii ai nubilati o compleanni, pur tuttavia, questi ultimi, sempre commissionati dal gentil sesso. Era stupefacente come costoro, in tali serate, sfoderassero le più segrete perversioni e desideri, l’esaltazione e l’euforia scatenate da un ambiente intimo e osé, con l’illuminazione ridotta al minimo e fiumi di alcol che i camerieri, anch’essi ballerini all’occorrenza, servivano senza sosta ai tavoli con un sorriso ammaliatore e carico di false promesse.
    Dalle casse sotto il palco partì la canzone “Scandalous” di Mis-Teeq e i due poliziotti si voltarono per fronteggiare quella bolgia di femmine arrapate che avrebbero fruttato una cospicua quantità di bigliettoni. Rigorosamente infilati nelle mutande, ovvio.
    Iniziarono a muoversi con movimenti lenti, ondeggiando il bacino e lanciando occhiate provocanti verso la sala immersa nella penombra. I passi erano ogni volta gli stessi, la coreografia la solita, il risultato il medesimo.
    Prima il capello, poi la giacca. Il torso nudo esposto all’aria viziata del locale, riscaldata dalle luci al neon puntate impietosamente sul corpo, ora imperlato di goccioline di sudore che lo rendevano quasi brillante. Harvey amava quella sensazione, la consapevolezza di avere quegli sguardi lascivi e voraci che scivolavano come lava ardente sulla sua pelle chiara, sui suoi muscoli guizzanti e tonici, divorando ogni più piccola stilla di anima. Il giovane in quei frangenti si sentiva vulnerabile, in balia di una belva feroce e affamata che avrebbe potuto saltargli addosso con impaziente facilità, ma che invece si tratteneva unicamente per osservarlo ballare, sculettare e ammiccare con malcelata cupidigia. Si sentiva onnipotente, un dio, una creatura nettamente superiore alla massa che lo fissava con ammirazione, gelosia, desiderio, amore e odio.
    E la sintonia che aveva con Gil non aveva pari, perché questi sapeva prevedere le sue mosse e adattarvisi senza problemi, con scioltezza e bravura.
    Dopo un abbondante quarto d’ora, durante il quale “Beware of the dog” di Jamelia e “Peacock” di Katy Perry avevano fatto da sottofondo, tutti gli indumenti erano stati fiondati tra la folla in delirio, gridolini isterici ed eccitati giungevano alle orecchie di due soddisfatti spogliarellisti, che si sorrisero e diedero nuovamente le spalle al pubblico urlante. In una sincronia eccellente si abbassarono i boxer, offrendo alle donne estasiate una perfetta visuale del loro lato B, e infine i riflettori si spensero, causando un boato di disappunto con conseguente risata da parte dei ballerini.
    “Allora, come mai il tuo Raphael ti ha chiamato, prima?” esordì Gil una volta tornati nel camerino, osservandolo con lo sguardo acceso di curiosità.
    “Ma che te ne frega?” Harvey si ravviò i lunghi capelli con un gesto brusco della mano e roteò gli occhi esasperato.
    “Beh, è da quando ti conosco, circa…” mosse impercettibilmente le labbra e contò le dita, “sei anni, che non fai che parlare di lui. Ne sei innamorato, vero?” non lo disse con l’intenzione di schernire, anzi. Con disinvoltura, non badando alla propria integrale nudità, si sedette su uno sgabello accavallando le gambe depilate, accanto all’amico che in quel momento si stava passando un batuffolo di cotone sul viso per togliersi il trucco, e appoggiò un gomito sul ripiano davanti allo specchio. “Allora?”
    “Non sono affari tuoi.” rispose distaccato.
    “E’ un sì.” sospirò Gil melodrammatico. “Mai pensato di dichiararti?”
    “Lui non è interessato.”
    “Chi te lo dice?”
    “Me l’ha fatto capire. Insomma, non è che non ci abbia mai provato. Quando lo abbordai…”
    “Lo abbordasti?” chiese il corvino incredulo e partecipe.
    “Ah-ha. Dicevo, quando lo abbordai, stavo palesemente flirtando con lui, ma Raphael, ingenuo e tardo com’è, non afferrò il messaggio e mi spiazzò con il suo candore, anche se aveva otto anni più di me.”
    “Otto anni? Quindi ora ne ha…”
    “Trentaquattro.”
    “Sì, ma dai! E il flirt è finito lì?”
    “Direi di sì. Non ha mai raccolto le mie avance, sembrava cieco di fronte al mio interesse, che cercavo di dimostrare ad ogni occasione. Vive in un altro mondo, quel tipo. E poi, un bel giorno… boom! Vengo a sapere che ha conosciuto una donna e che si è innamorato. Si sono sposati presto e altrettanto presto hanno avuto una figlia. Ma alla fine, tre anni fa, sono morte tutte e due in un incidente. Lui è ancora distrutto, anche se vuole nasconderlo.”
    “Ah. Ti sei innamorato di un etero. Un cliché.” decretò Gil con aria solenne e comprensiva.
    “No, Raphael non è etero.” obiettò Harvey, girandosi a guardare il collega, gli occhi color ambra che brillavano di sicurezza.
    “Ma non hai appena detto che…?”
    “Raphael è gay. L’ho incontrato la prima volta ad una festa in un locale per omosessuali. E lui stesso me lo confermò.”
    “E allora perché…?”
    Il castano sbuffò e scosse la testa, alcune ciocche gli ricaddero sulle spalle. “Non lo so. Ancora non riesco a farmene una ragione. Amore, credo.”
    “Della serie, l’amore è cieco?”
    “Proprio così. Alicia è stata la prima ed unica esponente del sesso opposto con cui Raphael sia mai stato. Però, che sia frocio è un dato di fatto inconfutabile.”
    “Mh.” Gil prese il tubetto di un mascara abbandonato fuori dalla trousse e se lo rigirò tra le mani, pensieroso. “Quindi? Cosa hai in mente di fare?”
    “Niente.”
    “Niente?!” l’espressione stranita che alterò i suoi lineamenti provocò nell’altro un improvviso attacco di ilarità. “Hey, cos’hai da ridere?”
    “Ah ah ah! Nulla, nulla. Fatti i cazzi tuoi, Gil.” ridacchiò e, dopo aver recuperato un elastico, raccolse i capelli in una coda bassa.
    “Oddio, quanto sei volgare…” arricciò teatralmente il naso e incrociò le braccia sul torace scolpito da estenuanti e coatte ore in palestra.
    “Mi scusi, signorino, purtroppo non sono il rampollo di una famiglia aristocratica. Se lo fossi, a quest’ora non sarei qui.”
    “Non dire stronzate, a te piace questo lavoro.”
    “Ah! Chi è che parlava di finezza verbale?”
    “Quando ci vuole, ci vuole. Almeno io non ho sempre il cazzo in bocca.” borbottò compunto il moretto.
    “E chi è che ho pizzicato a fare un pompino al capo, nel suo ufficio, qualche settimana fa? Un clone? Un tuo ologramma? Un tuo sosia?”
    “Tch. Non sono affari tuoi.”
    “Oohh, ho toccato un tasto dolente!”
    “Non è vero.”
    “Tra voi due c’è qualcosa?”
    “Forse…”
    “Gil?”
    “Mh?”
    “Ma vai a farti fottere, va’.”
    “Ma…! Ti pare il modo di trattare qualcuno che si è pazientemente prodigato ad ascoltare la storia del tuo amore segreto e non corrisposto?”
    “Non sei il mio strizzacervelli e neanche il rappresentante di un’agenzia matrimoniale. Pensa ai tuoi, di amori. Oppure ti piace così tanto ficcanasare nella vita privata altrui perché la tua è completamente inesistente?” un ghigno ferino e beffardo, che nell’opinione del moro avrebbe dovuto essere classificato come illegale, si dipinse sulle labbra carnose e ben disegnate dello spogliarellista.
    “Vaffanculo, Harvey. Uno cerca di essere disponibile… bah! Sei davvero un ingrato.” si alzò e si diresse nel bagno attiguo al camerino per farsi una doccia.
    Harvey, finalmente solo, si coprì la faccia con le mani e si massaggiò stancamente le palpebre. Si lisciò i capelli indietro e fissò impassibile la sua immagine riflessa allo specchio: non c’era niente da fare, da qualunque angolazione si studiasse, non poteva fare a meno di sentirsi estremamente sexy e di constatare il suo innato fascino. Ma, nonostante questo, Raphael non l’aveva mai calcolato in quel senso. Erano buoni amici, ma nulla di più. Non era mai accaduto niente, fra loro. Mai un bacio, mai un’occhiata satura di desiderio, neppure l’ombra di un preliminare. E dire che il giovane ci aveva pure provato, nei cessi di una discoteca, anni prima, a strappargli una sega e un succhiotto, ma il biondo lo aveva rifiutato con una carezza innocente sulla testa e un buffetto sulla guancia, come si fa con i bambini troppo esuberanti ma in fondo adorabili. E Harvey non se l’era sentita di approfittare di un amico, una persona buona e onesta, mentre era ubriaco.
    Così, quella malsana ed ossessiva attrazione era rimasta unilaterale e destinata a non venire mai appagata. Tuttavia, a conti fatti, ad Harvey andava bene così, perché al cuor non si comanda, anche se si era rivelato necessario sigillarlo con delle pesanti e resistenti catene per tutto il resto della vita. Amava Raphael, incondizionatamente e da così tanto tempo che ormai gli appariva naturale, come una realtà oggettiva e assodata a cui la sua anima e il suo corpo si erano assuefatti. E, sebbene il pensiero di non essere minimamente ricambiato lo avviliva e lo svuotava, al contempo era felice di essere riuscito a ritagliarsi un posticino d’onore nel cuore dell’altro, e tanto gli doveva bastare.
    “Hey, finocchio! Hai finito in bagno? O ti sei affogato nel box?” esclamò a un tratto, rompendo il silenzio che era sceso nella stanza.
    “Che palle! Sto uscendo adesso, perché nel frattempo che mi asciugo non ti metti a sniffare camomilla? Potrebbe farti bene!” urlò di rimando Gil, la voce resa ovattata dalla porta chiusa.
    Il ragazzo sbuffò divertito e scrollò la testa per scacciare i pensieri cupi che l’avevano presa d’assalto. Sorrise triste al se stesso dentro lo specchio e prese una decisione, anche se gli fosse costata un occhio nero, dato che un biondino di sua conoscenza sapeva usare molto bene le mani quando c’era di mezzo la vendetta. Già pregustava i suoi strepiti da suora di clausura strappata con violenza alla sua vita ritirata. Ma d’altronde, un po’ di svago non aveva mai fatto male a nessuno.
    La tizia rasta che era venuta precedentemente a chiamarlo si riaffacciò all’improvviso nel camerino, fulminandolo con gli occhi di ossidiana.
    “Dana! Cristo santo, mi farai venire un infarto!” imprecò il giovane, portandosi una mano sul cuore.
    La ragazza, indifferente allo spettacolo di attributi maschili al vento, fece una smorfia a metà tra il perplesso e l’irritato.
    “C’è un pacco per te.” proferì neutra, assottigliando lo sguardo.
    “Eh? Da chi?” domandò sorpreso.
    “Greg ha detto che è da parte di un uomo.”
    “Oh-ho! Una nuova conquista, signor Simmons!” cantilenò Gil, appoggiato allo stipite della porta del bagno, un asciugamano legato in vita e la faccia da schiaffi.
    “Cos’è?”
    Dana si chinò di lato e gli depose poco gentilmente tra le braccia un mazzo di fiori.
    “Non c’è biglietto.” aggiunse.
    “Cavolo, Harvey! Ma possibile che te li becchi tutti te!” il moro si avvicinò scocciato all’amico e annusò i fiori.
    “Sai descrivermelo?” fece il ballerino, ignorando Gil che nel frattempo aveva preso in consegna il ‘pacco’.
    “Greg ha solo detto che dovevo portartelo e che te lo manda un uomo, nient’altro.”
    “Un misterioso spasimante!” chiocciò Gil, zittito subito dopo da un’occhiataccia del compagno.
    “Grazie, Dana.”
    Quella sollevò appena le spalle e si dileguò.
    “Chissà chi è?” mormorò assorto il moretto, scrutando sognante il mazzo di rose che aveva posato davanti allo specchio.
    “Se vuoi, puoi tenerli tu.”
    “Vorrai scherzare! Sono stati regalati a te. Ammetto che sono invidioso.” piegò la bocca in un broncio sconsolato e sospirò.
    “A me non interessano. Inoltre, a casa non ho vasi.”
    “E’ il pensiero che conta, scemo. Il tipo deve essere davvero cotto a puntino…”
    “Sarà…”
    “Dai… dillo che sei lusingato.” lo pungolò.
    “Affatto. E poi non si è nemmeno firmato. È solo un codardo.”
    “Ahh, giusto… il tuo cuore appartiene già a qualcun altro.”
    “Finiamola qui, sono le due e sto morendo di sonno. Adesso voglio solo tornarmene a casa e buttarmi sul mio lettone.”
    “Allora chiederò a Greg se per caso dispone di un contenitore sufficientemente grande da prestarmi, così te li posiziono accanto allo specchio.”
    “Fa’ un po’ come ti pare.” esalò disinteressato.
    Harvey terminò di vestirsi, controllò di avere nelle tasche del giubbotto le chiavi di casa, il cellulare e il portafoglio e salutò Gil con un cenno del capo.

    “Ti odio.”
    La sentenza arrivò dritta e chiara, in maniera esplicita, senza fronzoli o giri di parole. Poteva essere interpretata come una constatazione, una rivelazione mistica o semplicemente un’esternazione concisa di un sentimento temporaneo e passeggero.
    Tuttavia, Harvey incassò il colpo e si grattò la nuca a disagio.
    “Dai, non è certo la fine del mondo…” sdrammatizzò con un sorriso poco convinto e assestò una pacca sulle spalle a un Raphael affatto felice di trovarsi in quel posto.
    “Ti odio.” ripeté.
    “Non è vero, lo so che sotto sotto mi adori.” scherzò. “Forza, entriamo.”
    “Non ci penso neanche.” dichiarò severo il biondo.
    “Oh, andiamo! Ti fa bene prendere una boccata d’aria, ogni tanto. È sabato sera, non puoi sempre restartene tappato in casa!”
    “Decido io come vivere la mia vita, non tu.”
    “Ma sono tuo amico e permettimi di preoccuparmi per la tua salute mentale.”
    “Sto bene così, grazie.”
    “Uffa, quanto sei rigido! Comunque non accetto obiezioni, tu ora entri con me e cerchi di divertirti, intesi?”
    “No.”
    “Su, non fare il bambino.” lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro al locale, sorpassando il buttafuori, che, appena lo riconobbe, gli fece un cenno d’assenso.
    La musica inghiottì le lamentele di Raphael, catapultandolo in un vortice di corpi, percussioni e sudore. La discoteca era gremita di uomini, la maggioranza già mezzi nudi, che si strusciavano senza pudore gli uni sugli altri, ebbri di alcol, fumo e odore di sesso. Erano anni che non entrava in un locale gay e l’atmosfera che respirò lo riportò con la mente ad antichi ricordi che credeva ormai sepolti, memorie di un passato turbolento e adolescenziale.
    Harvey lo accompagnò al bar e ordinò due cocktail, mentre l’amico si guardava intorno spaesato e intontito. A malapena riusciva a scorgere i volti delle persone che ballavano e una lieve sensazione di malessere cominciò a serpeggiare nelle sue vene. Non era più abituato a tutto quello e lo stomaco gli si era chiuso appena aveva varcato la soglia.
    “Senti, non credo che sia una buona idea!” urlò all’orecchio del castano per farsi sentire.
    “Rilassati, va tutto bene! Ci sono io con te, farò la guardia!”
    “Non so se è meglio avere più paura di te che di un estraneo!”
    “Cattivo!”
    Il barman servì loro le bibite e si misero a sorseggiarle lentamente, scandagliando la pista. La musica era assordante e rimbombava nella cassa toracica di Raphael come un violento tamburo, accentuando il disagio. Intercettò alcuni sguardi famelici e un ragazzo con i capelli di un’improbabile sfumatura turchina, che non doveva avere più di venticinque anni, lo invitò con un gesto sensuale della mano.
    “Quello vuole te! Perché non vai?” lo incoraggiò Harvey, dandogli una lieve spinta.
    “Ma sei pazzo?! E poi non avevi detto che avresti fatto la guardia?”
    “Giusto! Allora concedimi di fare una cosa. Non ti arrabbiare…”
    “Co…”
    Il giovane accarezzò la nuca del biondo e premette le labbra sulle sue. Il contatto durò pochi secondi, alla fine dei quali Raphael si staccò incredulo. “Che diavolo fai?!”
    “Ti proteggo! Se capiscono che sei mio, non si avvicineranno.” gli spiegò accondiscendente.
    “Ma…!”
    “Ora andiamo a ballare!”
    “Non ho ancora finito il mio drink…” protestò blandamente il più grande, ma l’altro finse di non aver udito a causa del volume della musica.
    Si fecero largo nel muro di corpi maschili e bollenti e si fermarono in mezzo alla pista. Harvey appoggiò le mani sui fianchi di Raphael e prese a ondeggiare, gli occhi gialli che parevano oro fuso e un sorriso seducente.
    “Non mi piace, Harvey.”
    “Rilassati…” reiterò con un sussurro nell’orecchio. Poi gli lambì il lobo con la bocca e lo succhiò, mentre i pantaloni iniziavano a farsi stretti.
    Dio, era come un sogno che si avverava, un’utopia. Il biondo non gli aveva mai permesso di avvicinarsi così tanto e, dato che non era ubriaco, si reputava autorizzato a rischiare di più. Aderì col petto a quello dell’altro, che lo superava in altezza di qualche centimetro, si baloccò con una ciocca bionda e gli baciò teneramente la guancia. La sua non era una vera e propria danza di seduzione, quanto un tentativo di elargire coccole e baci a tradimento, una mezza tortura che però alleviava il costante e sordo dolore al cuore che lo accompagnava da anni.
    “Harvey, non mi sento bene…”
    “Tranquillo, sei troppo agitato. Calmati e guardami. Guarda me, solo me.”
    Raphael obbedì, stranamente docile, e i suoi occhi azzurro cielo affogarono in due laghi dorati. Per l’occasione il più giovane gli aveva fatto mettere le lenti, perciò non vi era l’ostacolo degli occhiali ad impedire ai loro volti di incontrarsi a metà strada, così come le loro labbra per un secondo bacio casto. Il maggiore si aggrappò al collo dell’amico, posò la testa su una sua spalla e chiuse le palpebre, lasciandosi trasportare dal ritmo ipnotico dei movimenti dell’altro.
    Harvey era commosso, era impossibile descrivere la sua gioia a parole. La persona che amava da tempo immemorabile era lì tra le sue braccia, abbandonata e inerme, bellissima. Raphael aveva sempre posseduto una bellezza conturbante, gentile, ma anche aggressiva nei momenti giusti. Era una creatura rara, perfetta, affascinante, di un livello superiore al resto dell’umanità, questo era ciò che aveva sempre pensato. Somigliava al personaggio di un dipinto rinascimentale, un eros adulto, innocente e provocante insieme, che emanava sesso da ogni poro con un candore incredibilmente infantile. E una volta, prima che incontrasse Alicia, egli era quasi assimilabile a un principe: quando faceva il suo ingresso in un locale, tutti gli occhi venivano irrimediabilmente calamitati dalla sua figura magnetica e inconsapevole, un angelo tentatore sceso all’inferno per godere dei piaceri della carne.
    Non erano in molti a potersi vantare di aver condiviso il letto con lui, perché Raphael non era mai stato un tipo facile, anzi. Sceglieva le sue prede con cura e naturalezza e quelle gli si concedevano senza remore, come se gli fosse dovuto.
    Harvey rivoleva indietro quel Raphael, non la patetica ombra in cui si era tramutato dopo la morte di Alicia. Quel ragazzo biondo dai lineamenti femminei e allo stesso tempo assolutamente virili, in grado di sottomettere anche il più coriaceo dei predatori. Desiderava essere preso da quell’adone biondo, desiderava essere suo e diventare così il compagno di un angelo capace di dispensare solo amore.
    Stimolato da tali fantasie, mise due dita sotto il mento dell’amico e lo sollevò ponendolo davanti al suo viso. Un attimo più tardi aveva infilato la lingua nella sua bocca, violandola senza riguardo alcuno, cieco alla resistenza che Raphael stava opponendo. Affondò in quella cavità calda e squisita quasi che si stesse abbeverando ad una fonte di ambrosia, dimenticandosi di respirare e abbandonandosi con trasporto a quel bacio che aveva sognato per innumerevoli notti, anche se quei sogni non erano affatto paragonabili alla realtà.
    Era un’emozione di sublime appagamento e completezza, non esisteva niente di più giusto, e grazie ai muscoli sviluppati dei bicipiti bloccò il corpo solido e longilineo dell’altro e se lo spalmò addosso.
    Un morso lo riportò con i piedi per terra e si ritrasse di scatto. Si coprì il labbro inferiore con una mano, sulla quale si depositò una goccia di sangue. Con il cuore che batteva impazzito nello sterno, si azzardò a ricambiare lo sguardo del più grande e quello che vide gli spezzò qualcosa dentro. C’era rabbia, confusione, dolore.
    Tradimento.
    Raphael gli diede le spalle e si allontanò, lasciandolo solo sulla pista con un’espressione costernata e sofferente.
    Il trentaquattrenne fece lo slalom, impaziente di uscire da quella bolgia infernale che lo stava soffocando, ma proprio quando scorse i divanetti addossati alla parete, si sentì afferrare la mano e tirare indietro, di nuovo dentro l’oceano di corpi sconosciuti. Infastidito, credendo che fosse Harvey, si girò con una battuta severa sulla lingua, ma dovette ricacciarla in gola quando si avvide che la persona che lo teneva avvinghiato era un uomo palestrato, moro, con un leggero strato di barba sul mento e un luce pericolosa e pregna di lussuria negli occhi neri.
    La cerniera dei suoi pantaloni venne aperta e un altro ragazzo aderì alla sua schiena, impedendogli qualunque movimento o rimostranza fisica. Il complice che gli stava di fronte, invece, lo costrinse ad aprire le labbra serrate attraverso una pressione decisa sulla mascella e profanò la sua bocca, mentre una mano audace si infilava nella sua biancheria e cominciava a toccarlo. Raphael prese a sudare freddo e occhieggiò intorno a sé per intercettare lo sguardo di qualcuno, invano. Pareva che a nessuno interessasse ciò che stava succedendo e lui si sentì morire.
    In quell’istante avrebbe dato tutto l’oro del mondo per avere Harvey vicino, era stato uno stupido.
     
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  7. Lady1990
     
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    La musica a tutto volume gli rimbombava nel cervello, provocandogli un leggero stordimento, ma in fondo non lo infastidiva mai quanto le attenzioni indesiderate che stava ricevendo dai due uomini senza dubbio al di sotto della trentina. Quell’ambiente promiscuo, nel quale un tempo soleva destreggiarsi come un veterano, non era più di suo gradimento e il malessere che provava a livello dello stomaco si fece più intenso.
    Data la forza con cui le sue braccia e il busto erano stati bloccati, ritenne un inutile spreco di energie cercare di divincolarsi e nel suo intimo sapeva bene che esisteva soltanto un modo per volgere l’intera faccenda a suo favore. L’idea non lo entusiasmava affatto, ma se voleva uscirne illeso era l’unica strada.
    Rilassò i muscoli e ricambiò il bacio che il tizio davanti gli aveva inizialmente imposto, per poi cominciare a strusciare al ritmo delle percussioni il sedere fasciato dai pantaloni sul bacino di quello alle sue spalle. Come volevasi dimostrare, i movimenti bruschi dei suoi assalitori si fecero improvvisamente più lenti, mentre quelli di Raphael ostentavano un irresistibile fascino e sensualità. La carica erotica che pareva emettere da ogni poro era quasi sorprendente, e i due giovani non ci misero molto ad infilare le mani sotto la camicia per tastare i muscoli tonici e definiti del torace. La presa sulle braccia si era allentata, cosicché il biondo ebbe la possibilità di muoversi liberamente, pur rimanendo schiacciato fra loro, che a quanto sembrava non avevano la ben che minima intenzione di lasciarlo fuggire, dato il modo in cui lo placcavano.
    I neuroni lavoravano a velocità folle, ma la situazione stava degenerando in fretta. Avvertì delle dita callose farsi strada sulle sue natiche nude, al di sotto della biancheria, per andare a premere sul suo ano. Non c’era più tempo, doveva agire se non desiderava essere concupito nel bel mezzo della pista. Iniziò, dunque, a ondeggiare i fianchi e a dondolarsi, in una danza con cui sperava di distrarre quella coppia di arrapati e rallentare i loro gesti. Ci riuscì, poiché sentì la mano molesta che veniva ritratta per stringersi sulla sua coscia destra in una carezza lasciva. Il tutto divenne presto uno strusciarsi eccitato, con labbra e lingue che percorrevano come impazzite il collo di Raphael, mordendolo e marchiandolo. I baci si fecero infuocati, i tocchi sempre più roventi, e il biondo ci mise poco ad accorgersi di due erezioni che premevano una sulle proprie terga e l’altra sul proprio inguine.
    Gli sfuggì un sospiro sconsolato e una smorfia impercettibile di irritazione. Piegò la testa all’indietro fino ad appoggiare la nuca in prossimità della spalla del ragazzo appiccicato alla sua schiena e lo coinvolse in un bollente scambio di saliva. Dopodiché gli succhiò il lobo dell’orecchio e passò la lingua sul padiglione, sussurrando con voce ai limiti dell’osceno: “Ho la gola secca. Vorrei bere qualcosa.”
    Quello annuì appena e fece un cenno eloquente al compagno, che era passato a vezzeggiare i capezzoli, ora inspiegabilmente scoperti, di Raphael con i polpastrelli.
    Quello con la barba intrecciò insieme le loro dita e l’altro gli circondò possessivo i fianchi, indirizzando occhiate omicide a chiunque si azzardasse a far scivolare impunemente lo sguardo sulla sua bionda e succulenta preda. Insieme si fecero strada verso il bancone del bar e si ritagliarono a fatica un posto per ordinare.
    Raphael chiese un drink, i suoi accompagnatori invece continuarono a palpeggiarlo senza pudore per incalcolabili minuti, finché il barman gli pose davanti il bicchiere. A quel punto, gli fu sufficiente alzare una mano e i due giovani si fermarono, lasciandolo sorseggiare in pace la bevanda al gusto di fragola e vodka. In realtà, stava prendendo tempo per elaborare una strategia di fuga e al contempo recuperare Harvey, disperso chissà dove nella bolgia. Ma pareva impossibile, al momento. Innanzitutto doveva trovare la maniera per scollarsi di dosso le due piattole in calore, poi avrebbe pensato al resto.
    “Io sono Ryan e lui è Nick.” gli disse quello con la barba, accennando un sorrisetto sghembo.
    Raphael inarcò un sopracciglio e annuì, indifferente.
    “Che ne dici di andare in un posto più tranquillo?” lo invitò quello, sfiorandogli la nuca.
    Tergiversò per qualche secondo, indeciso sulla risposta. Il bacio di Harvey gli bruciava ancora, quasi lo avesse pugnalato a tradimento. Lo aveva trascinato lì per farlo divertire, per distrarlo, quindi perché non accontentarlo?
    Scosse impercettibilmente la testa, dandosi del cretino. Non voleva cadere così in basso da concedersi al primo che passava solo per ripicca, non era un bambino. Ma se anche si fosse appartato con quei due, cosa aveva da perdere? Erano tre anni che non faceva sesso, eccetto masturbarsi sporadicamente e giusto per ovviare al bisogno fisico. In effetti gli mancava il contatto umano, delle mani vogliose sul suo corpo ardenti di desiderio per lui, e ciò lo riportò con la memoria ai giorni della sua adolescenza, quando era abituato a rimorchiare uomini belli e piacenti unicamente per il gusto di sentirsi venerato come un dio. All’epoca era infantile, egoista e spensierato, ma le cose erano cambiate drasticamente e il Raphael che era un tempo ormai non esisteva più.
    Harvey voleva ‘ridestarlo dal suo sonno’? Ebbene, se una parte di sé considerava rivoltante tornare a degradarsi in quel modo che in principio riteneva normale amministrazione, l’altra, quella istintiva, smaniava per ottenere di nuovo un piacere carnale completo, non dettato dalle proprie mani. In questo caso, Alicia non sarebbe stata per niente fiera di lui.
    E l’alcool che ingerì successivamente lo aiutò a compiere la scelta.
    Sospiri pesanti mischiati a lievi mugolii echeggiavano sulle pareti del bagno, in una melodia erotica e stimolante. Raphael era stato appiccicato al muro, dentro uno dei cubicoli. Si era semplicemente abbandonato, passivo, ai tocchi esperti delle sue conquiste. Ryan, in ginocchio sulle mattonelle umidicce, si stava prendendo cura dell’erezione del biondo con la bocca, mentre Nick divorava con bramosia le sue labbra e gli stuzzicava i capezzoli. L’abile lavoro di suzione sul proprio sesso condusse Raphael in un universo fatto di sensi ovattati ed estasi, un mondo a cui anni prima era avvezzo e di cui era assiduo frequentatore.
    Anche Alicia spesso gli aveva donato piacere così, ma farsi fare un pompino da un uomo era un’esperienza mistica, che lo precipitava nell’oblio e gli appannava la ragione. Non c’era dolcezza, in quei gesti, solo eccitazione e lussuria. Intraprese un movimento ondulatorio col bacino, in modo da penetrare la cavità orale del moro con più forza e velocità. Poi fece scorrere la mano sul torace di Nick e gliela infilò sotto i boxer, impugnando il suo membro duro come la roccia con decisione e cominciando a sfregarlo su e giù. Il ragazzo emise un lamento appagato e scese sui suoi glutei con carezze frettolose e rudi. La bocca invece scovò il collo e si concentrò a leccarlo e morderlo con ringhi famelici.
    Raphael gli lasciò campo libero torcendo il capo di lato, le dita della mano sinistra fra i capelli corti di Ryan, che si contraevano e lo sospingevano verso di lui per fargli ingoiare tutta la lunghezza. Il moro si fece fottere remissivo, intervallando leggere lappate a violenti risucchi, mentre il biondo, scosso dai brividi, affondava con sempre maggior impeto, ormai prossimo all’orgasmo. Ma proprio quando sentiva di stare per svuotarsi, Nick staccò repentinamente il compagno e alle loro orecchie giunse uno schiocco bagnato misto a un mugugno infastidito. L’organo di Raphael era duro e impregnato di saliva, arrossato sulla punta e desideroso di uno sfogo. Il suddetto guardò truce il giovane alla sua destra e quello si voltò, calandosi i pantaloni ed esponendo le natiche sode. Il biondo comprese l’antifona e si posizionò dietro di lui, allargandogli la carne. Pose la punta dell’erezione sull’apertura contratta e spinse senza gentilezza, percependo lo strappo improvviso dei muscoli rigidi. Nick gemette di dolore, tuttavia portò una mano sul fianco di Raphael e lo incoraggiò a continuare. Nel frattempo, spalmò la faccia sulla parete fredda, tentando di rilassarsi.
    Ryan, a quella scena, iniziò a masturbarsi rapidamente, gli occhi neri offuscati dal piacere e le labbra dischiuse per lasciar uscire gli ansiti. Raphael spense gli ingranaggi della razionalità e prese a scopare quel buco stretto e asciutto quasi con furia animalesca, il rimorso e la disperazione sigillati nella parte più recondita della propria coscienza. Non voleva pensare, non voleva arrovellarsi sullo scopo dell’atto oggettivamente squallido in cui stava indugiando, sulla sua moralità o sulle conseguenze che avrebbe provocato alla sua salute mentale una volta concluso. Adesso c’era spazio solo per la ricerca dell’orgasmo e il suo corpo pareva muoversi da solo, in movimenti meccanici e appresi con una radicata esperienza.
    Non appena i peli pubici si strusciarono sul posteriore di Nick, gettò il viso all’indietro, permettendo ad una potente scarica di piacere e adrenalina di partire dai lombi e risalirgli fino al cervello inibito dall’alcool. Accelerò le spinte, beandosi dei gemiti compiaciuti del giovane che stava deflorando senza pietà, e rischiò seriamente di venire all’istante quando vide il tizio con la barba che gli apriva la bocca e lo costringeva a prendere la sua asta turgida in un solo colpo. I muscoli interni di Nick ebbero uno spasmo, dovuto all’improvvisa mancanza d’ossigeno, ma subito dopo si riprese e accolse tranquillamente il sesso dell’amico fino in gola. Raphael si morse il labbro inferiore, artigliò i fianchi dell’altro e aumentò la velocità.
    Bastò una manciata di minuti e tutti e tre raggiunsero l’apice, anche se non in perfetta sincronia. Il biondo si sfilò da Nick e si concesse qualche istante per riprendere fiato e ricomporsi. Non ricordava quanti drink aveva bevuto, ma ora questi si stavano ribellando nel suo stomaco dandogli l’impulso di vomitare. Soffocò i conati con una mano e respirò profondamente con il naso. Aprì la porta del cubicolo e, ignorando altre coppiette in atteggiamenti sconci a pochi metri da lui, aprì il rubinetto del lavandino e si sciacquò la faccia. Inutile negare l’evidenza, quella era un sbronza coi controfiocchi, sebbene fosse ancora abbastanza lucido da rendersene conto da solo. Barcollò fino all’uscita, ma in quell’attimo preciso la porta si spalancò, rivelando un Harvey stravolto e sudato. Raphael, che si reggeva in piedi per miracolo, all’impatto ruzzolò sul pavimento con un “ugh!” attutito.
    Il castano lo fissò incredulo. Poi notò la patta aperta, la camicia sbottonata, i capelli arruffati, le guance imporporate e gli occhi vacui.
    “Ma che cazzo…?”
    Sbuffò e se lo caricò celermente in spalla come una sacco, sfidando la folla per riuscire a riemergere all’aria notturna.
    Finalmente fuori, scaricò l’amico in un vicolo accanto al locale, osservandolo rotolarsi fino ad assumere una posizione prona.
    Si mise le mani nei capelli e imprecò.
    “Vaffanculo! Dove diavolo eri finito?! Hai idea di quanto mi sono preoccupato? Razza di imbecille! E cosa ci facevi nei cessi?!” strepitò arrabbiato.
    Raphael mugugnò. “Non sono cazzi tuoi…”
    “Sì che lo sono! Porca… non dirmi che…” strabuzzò gli occhi sconvolto e gli cadde la mascella.
    In realtà aveva capito immediatamente cosa era accaduto, era una storia vecchia, ma non voleva crederci. Era ovvio che aveva bevuto, e anche tanto, ma ciò che lo ferì fu la certezza che il trentaquattrenne si fosse divertito con qualcuno mentre lui si dimenava frustrato nel groviglio di corpi con l’ansia che gli attanagliava le viscere.
    “Vaffanculo” sferrò un pugno sul muro di mattoni.
    Perché Raphael permetteva a degli sconosciuti di approfittare della sua persona e a lui, che lo conosceva da anni, non concedeva neanche un vero bacio? Eppure sarebbe stato più che disponibile ad assecondare le sue voglie, se solo lo avesse chiesto.
    “Merda…”
    “Che c’è?” ansimò il biondo, provando ad alzarsi. “Non vorrai mica farmi una scenata da fidanzatina gelosa!” lo schernì. “O una predica da mamma chioccia!”
    Harvey assottigliò le labbra, non più in grado di mantenere una minima parvenza di controllo. Caricò un pugno e lo abbatté sulla guancia dell’altro, che finì di nuovo al suolo.
    “Sei uno stronzo! Ha ragione Glenda. Sei un bastardo… cosa cavolo ti è preso?” sbottò inviperito.
    “Volevo divertirmi… non mi hai portato qui per questo, tesoro?” lo provocò con una risatina ubriaca. “O forse volevi divertirti tu, con me?” insinuò cattivo, le pupille dilatate e vuote come pozzi senza fondo.
    Il giovane si trattenne dall’infierire ulteriormente, ma non replicò.
    “Oooooh! È così, allora?” continuò Raphael, ormai partito per la tangente. “E io che mi fidavo, che non ho mai sospettato niente! Da quanto la tua testolina elabora pensieri impuri su di me? Da quanto desideri sbattermi il cazzo nel culo, Harvey?” rise e si sdraiò sull’asfalto lercio. “Vorresti fottermi, eh? Perché non ti accomodi e sfoghi le tue brame? Io sono qui e, anche se mi sono già scopato un tizio, posso cominciare un altro round! Avanti, non è questo che vuoi?”
    “Smettila… non sei in te, non sai quello che dici. Ora ti porto a casa e ti fai una bella doccia.”
    “Vorresti montarmi come una puttana, vero?” sussurrò suadente. “Vuoi che te lo succhi? Vuoi venirmi in bocca?”
    “Ho detto piantala!” tuonò, gli occhi dorati freddi come il ghiaccio.
    “Ti sei sempre finto innocente, hai sempre fatto il bravo, ma avrei dovuto capire cosa ti ronzava nel cervello… Hai sempre avuto doppi fini, eh? Il bacio di prima ne è la prova inconfutabile!” gli puntò contro un dito accusatore. “Ammettilo, dietro la tua facciata da santarellino sei solo un pervertito che vuole sodomizzarmi selvaggiamente, che si prende gioco dei miei sentimenti per poi saltarmi addosso quando abbasso la guardia!”
    Harvey si inginocchiò e lo afferrò rudemente per il bavero della camicia. Contrasse la mascella e avvicinò il viso a pochi centimetri da quello dell’altro.
    “E’ vero, ti desidero. Ti voglio così tanto che è una tortura sapere che ti fai degli estranei e che non potrò mai assaporare il tocco delle tue mani, delle tue labbra, della tua lingua. Ma, se ciò accadesse, per me non sarebbe soltanto sesso, Raphael.” deglutì e lo guardò. “Io ti amo. È questo che provo per te. Da quando ci siamo conosciuti. Ma non te ne sei mai accorto. E vederti mentre ti dai via, mentre ti distruggi, ti consumi, ti punisci mi fa soffrire.”
    Il biondo sbatté ripetutamente le palpebre, le nozioni che gli erano appena state riversate addosso che faticavano a farsi strada nella sua mente in preda al caos. L’attimo dopo si piegò sulle ginocchia, incurante del sudicio che si sarebbe appiccicato ai pantaloni, e vomitò tutto ciò che aveva nello stomaco, arrivando a un certo punto ad assaporare sul palato il gusto della bile. Aveva le palpitazioni a mille e difficoltà a respirare.
    Harvey gli si avvicinò con la morte nel cuore, gli si mise dietro e gli sorresse la fronte con la mano fresca.
    “Andiamo, ti porto a casa.” mormorò mesto, facendo passare un braccio intorno ai fianchi di Raphael, che non oppose alcuna resistenza.
    Il tragitto in macchina fu silenzioso e altrettanto lo fu l’ingresso nella villetta del biondo, ridotto a uno straccio a causa della sbronza. Era evidente che il suo fisico, dopo anni a digiuno di alcol, non fosse più abituato.
    Il più giovane lo trasportò su per le scale e lo scaricò sul letto, esalando un grugnito spossato. Non sapeva come agire, cosa dire. Si era compromesso troppo e nel momento sbagliato, e ora temeva di aver rovinato tutto. Si grattò la nuca, pensieroso, e osservò quel bellissimo uomo di cui era follemente innamorato che rantolava nel buio della camera, la camera che fino a tre anni prima aveva condiviso con la moglie. Si sentiva a disagio, fuori luogo, un intruso. Forse Raphael, se fosse stato un pochino più lucido, non avrebbe apprezzato tale violazione dei suoi spazi privati, di quel ‘suolo sacro’ in cui erano racchiusi una miriade di ricordi dai quali Harvey era escluso. Però non voleva abbandonarlo proprio quando ne aveva bisogno, in fondo era pur sempre suo amico. In più, se gli avesse voltato le spalle adesso e avesse varcato la soglia di casa, uscendo, avrebbe provocato una rottura definitiva.
    Così si sedette sulla sponda del letto matrimoniale, lontano dall’altro, ma non così tanto da non fargli percepire la sua presenza. E l’attimo seguente Raphael scoppiò a piangere.
    Harvey sgranò gli occhi basito e lo guardò come se fosse una specie animale creduta ormai estinta. Non voleva credere a quello che stava vedendo, a ciò a cui stava assistendo da impotente spettatore, incerto se pensare di essere fortunato o terribilmente sfigato. Smarrito, protese un braccio con l’intento di consolare il biondo, ma la ritrasse all’ultimo istante. Chissà come o perché, gli occhi cominciarono a pizzicare anche a lui e strinse le labbra con forza per non lasciare che il fiume di pena che si agitava in lui straripasse senza controllo peggiorando la situazione già tragica di suo.
    Raphael non aveva mai pianto, in sua presenza.
    Raphael non piangeva.
    Raphael sorrideva sempre e, se soffriva, appariva giusto un po’ abbacchiato.
    Ma si chiese se la persona che conosceva lui fosse il vero Raphael o solo una maschera costruita ad arte. Si chiese se effettivamente aveva il diritto di affermare con sicurezza di conoscerlo, se davvero poteva metterci la mano sul fuoco.
    Si chiese chi fosse veramente l’uomo che dichiarava di amare più di se stesso e se l’individuo per cui batteva il suo cuore fosse reale o solo il frutto delle sue fantasie, un’invenzione scaturita dalla sua mente e inconsciamente idealizzata.
    Quell’uomo distrutto e consumato da un tarlo venefico, coriaceo e difficilmente sradicabile era il suo Raphael?
    “Raphy…” chiamò a bassa voce.
    In risposta i singulti aumentarono di volume e l’interpellato si rannicchiò in posizione fetale come un bambino.
    “Raphy” disse più deciso, sdraiandoglisi accanto.
    “Perché?” singhiozzò il biondo.
    “Perché cosa?”
    “Perché?!”
    “Raphael…”
    “Perché sono rimasto solo…? Perché?!” ringhiò disperato e nascose il viso tra le coltri.
    “Non sei solo…”
    “Sì, invece! Lo sono sempre, continuamente, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che loro non sono qui con me…”
    Dopo tre anni versava ancora in quello stato? Il castano stentava a capacitarsene. Gli sembrava che lo avesse superato, almeno in parte. Ma, al contrario, pareva che non fosse cambiato niente. Quindi, il suo migliore amico gli aveva mentito.
    “Ci sono io, con te.” tentò, consapevole che le sue parole avrebbero sbattuto contro un muro di indifferenza.
    “Tu non conti!” gridò Raphael e all’altro sembrò che il proprio corpo venisse avvolto dal ghiaccio e l’ossigeno gli venisse strappato via dai polmoni con brutalità inaudita.
    Una lacrima silenziosa spuntò dall’occhio sinistro e scese a rigargli la guancia, le membra pietrificate e prive di energia. Boccheggiò per un paio di secondi, poi ammutolì, pallido come un cadavere.
    “La mia vita è diventata un inferno da allora…” continuò il maggiore, senza accorgersi della reazione di Harvey. “E i ricordi mi tendono ripetuti agguati non appena mi distraggo. È straziante, sai?”
    Si girò e si mise a pancia in su, fissando un punto a caso sul soffitto.
    “La prima volta che presi Maggy tra le braccia… Dio, era minuscola. Alicia era a riposare in un’altra stanza, non lontano. L’infermiera me la appioppò con poco garbo e per poco non la feci cadere.” tirò su col naso. “Quando incontrai i suoi bellissimi occhi, così simili a quelli di sua madre, realizzai di trovarmi nel posto giusto. Era tutto perfetto, come non lo era mai stato. Tutto acquisì un senso e mi sentii rinascere. È qualcosa di sublime, che soltanto un genitore può comprendere appieno. È qualcosa che ti completa, come se tutte le tessere del puzzle andassero ad incastrarsi in maniera corretta, formando un disegno straordinario, dalle tinte accese. Maggy sembrava un angelo.” la sua voce si affievolì. “Mia figlia… sangue del mio sangue, carne della mia carne. Una parte di me e una parte di Alicia unite insieme all’interno di una creatura nuova, bellissima, unica. La mia piccolina.”
    Pianse ancora, l’avambraccio a coprirsi il volto.
    “Ogni genitore è fermamente convinto che verrà seppellito dai propri figli e che accada il contrario non è contemplato. Li guardi crescere, imparare a parlare, a camminare. Quando balbettano per la prima volta ‘papà’. Quando sorridono radiosi e il mondo sembra illuminarsi di colpo. Quando iniziano a esplorare e ogni scoperta equivale ad una vittoria.” prese fiato. “Non passa giorno in cui domandi, a me stesso e a Dio, per quale fottuto motivo non sono con loro adesso. Perché non posso stare con gli altri due terzi della mia anima? Perché devo invece svernare qui, da solo? C’è forse una legge che me lo impone?”
    Harvey lo ascoltava, inerte, al suo fianco, lo sguardo perso nel vuoto. Era rimasta soltanto una cosa, un singolo e infinitesimale barlume di vita dentro di lui, una domanda che doveva trovare risposta, prima di dissolversi per sempre come cenere.
    “Cosa sono io, per te?”
    Raphael cessò di singhiozzare per girarsi a scrutarlo confuso. “Cosa c’entra ora?”
    Un’altra crepa nel suo cuore.
    “Dimmelo.”
    “Mi spieghi cosa ti prende, all’improvviso?”
    L’ennesima crepa.
    “Ti prego…”
    “Beh… sei mio amico.” proferì secco, quasi si trattasse di una banalità.
    Il compagno deglutì e chiuse le palpebre, mentre cercava di rimettere a posto i pezzi.
    Era meglio così. Era la cosa migliore.
    Non erano mai esistite alternative o scappatoie di alcun genere.
    La verità, la cruda realtà era sempre stata davanti a lui, solo che aveva finto di non vederla, oppure l’aveva trasformata e modellata sulla base dei suoi sogni più segreti.
    Non poteva fare più nulla, a parte gettare la spugna e dichiararsi sconfitto, una volta per tutte. Non aveva mai avuto senso lottare, intestardirsi come un moccioso idiota, fare i capricci come una bimbetta viziata. La sua era una battaglia persa sin dal principio, come il Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento.
    Ora doveva solo salvare il salvabile. E infine dimenticare tutto, seppellirlo sotto innumerevoli strati di menzogne, e sarebbe andato bene.
    Si sentiva annientato, annichilito, prostrato da un amore impossibile e pur tuttavia maledettamente intenso e soverchiante.
    Il sipario doveva calare e lui doveva tornarsene al posto che gli spettava, ossia dietro le quinte.
    “Ti chiedo scusa” bisbigliò abbracciandolo lentamente. “Scusami.”
    Raphael rimase immobile, sorpreso, i singhiozzi soffocati nella maglietta dell’altro.
    “Ho esagerato… non volevo, credimi. Ti prego.”
    “Tu non sai…” la voce rotta del biondo ferì le orecchie di Harvey, stritolandogli nuovamente il cuore in una morsa. “Tu non sai cosa provo…”
    “E’ vero. Non lo so. E non posso neanche lontanamente immaginarlo. Cercavo solo di…” si bloccò. Stava per dire “aiutarti”, ma era una dannatissima bugia.
    Non aveva mai avuto intenzione di aiutare Raphael, soltanto se stesso. Perché essere innamorati con ogni fibra della propria anima di una persona di cui si è perfettamente coscienti che non ricambierà mai è doloroso quasi quanto aprirsi il petto con una lama seghettata e trafiggersi il cuore con centinaia di spilli con la punta a uncino, per poi tirare lentamente, osservando impotenti il sangue che stilla, senza che si possa fare niente per cauterizzare la ferita e arrestare l’emorragia; e quando avviene lo strappo definitivo, quello che ti squarcia con violenza, che ti spacca in milioni di minuscoli pezzettini, è come morire. È un po’ come essere già sotto terra. Il corpo comincia a imputridire, lo spirito diventa pietra e poi polvere, i pensieri si azzerano e semplicemente… non sei più.
    Questo provava Harvey, ma non poteva esplicitarlo a parole. Non poteva. Il suo unico compito, adesso, era restare accanto al suo amato, tenerlo stretto tra le braccia come se volesse fondersi con lui, sussurrargli all’orecchio frasi di conforto, gentili quanto false poiché non dettate dai sentimenti, e recitare la parte che gli era stata assegnata dal copione.
    Poggiò il mento sui capelli del più grande e guardò fuori dalla finestra, gli occhi lucidi per le lacrime stoicamente trattenute. Esse bruciavano più del fuoco, ma non le avrebbe versate. Forse più tardi, a casa, nella solitudine della sua stanza. Forse l’indomani, dopo una decina di ore di sonno ininterrotto. Forse mai. Perché all’interno rifulgevano le sue emozioni più pure, quelle che non aveva mai osato palesare, quelle più vere. Vi era tutto il suo amore, tutta la sua devozione, tutto il suo affetto, i suoi sogni adolescenziali, le sue fantasie di un futuro roseo, e farle emergere solo per fissarle cadere come gocce di pioggia invisibili avrebbe significato perdere tutto, per sempre. Se lo avesse fatto, avrebbe sicuramente cessato di esistere, sul serio.
    “Scusa… ho sbagliato, non avrei dovuto trascinarti in quel locale. Avrei dovuto ascoltarti e rendermi conto del tuo stato d’animo. Non mi sono comportato da vero amico. D’ora in avanti farò tutto quello che vuoi, promesso.” soffiò con un filo di voce. Aderì con la fronte a quella di Raphael, le palpebre chiuse onde evitare che questi scorgesse qualcosa di compromettente. “Mi basta che sorridi.” e dicendolo, le sue labbra si distesero in una smorfia amara e al contempo incoraggiante. “Ok?”
    “Non ne sono più capace, Harvey.”
    “Sì che lo sei. Devi solo provarci. Tutto andrà bene, vedrai.”
    “Non ci credo più, ormai.”
    “Perché tu non vuoi crederci. Tu sei ancora qui, Rapahel. Guardami.” gli prese il viso fra le mani e lo costrinse a incrociare il suo sguardo. Due pozzi azzurri come il cielo estivo si abbandonarono a lui, vulnerabili e finalmente trasparenti, non più velati da una patina opaca, come una corazza. “Tu sei ancora qui.” emise un verso gutturale e vibrante che doveva essere una semirisata. “Sei vivo!” mormorò con veemenza. “Sei qui, vivo, in questo mondo. Avrai tempo per pensare alla morte quando sarai un vecchiaccio scorbutico e decrepito, con l’artrosi, il parkinson e la dentiera. Avrai tempo per pensare alla morte quando sarai sepolto in una bara sotto tre metri di terra e vermicelli gelatinosi. Non ora.” sorrise e gli stampò un bacio in mezzo alle sopracciglia. “Vivi, Raphael. Sono sicuro che Alicia la penserebbe allo stesso modo. Non sei d’accordo?”
    Al biondo, completamente sfibrato dalla crisi di pianto, tuttavia non sfuggì la luce che brillava negli occhi dorati dell’amico e si rese conto che la conosceva fin troppo bene.
    “Harvey…” esalò con una pena inaspettata, scrutandolo come se lo vedesse per la prima volta.
    “Cosa c’è?” gli accarezzò il collo e lo guardò perplesso.
    “Prima… hai detto che mi ami…”
    Il giovane si schiarì la voce e ridacchiò nervoso. “Ah ah, scherzavo!”
    “Non è vero.”
    Harvey sgranò gli occhi, improvvisamente serio.
    “Non è… vero…”
    “Oh, andiamo!” tentò di riprendere il controllo. Nel frattempo le sue mani presero a sudare e il cuore accelerò i battiti. Le parole che stava per pronunciare lo avrebbero ucciso, ma sentiva che doveva farlo. Non c’era un motivo preciso. “Ti amo, è vero, ma come amico. Sei il mio migliore amico. Non dimenticherò mai tutto quello che hai fatto per me, non ti sarò mai grato abbastanza.” gli tirò un buffetto sulla fronte con un dito, “Non farti idee strane, carino!”
    Il maggiore lo osservò allibito e stranito, consapevole che il castano gli stava propinando una grandiosa balla.
    “Suvvia, non guardarmi così! Smettila di pensare alle stronzate e concentrati sulla tua vita. Riprendila in mano, torna in carreggiata e ingrana la marcia giusta. Io ti darò la spintarella da dietro… senza doppi sensi, eh!” gli strinse una mano sulla spalla e sfoderò il più sincero dei sorrisi. “Io sarò sempre dalla tua parte, farò il tifo come al solito.”
    “Harvey, ma-”
    “Tu sei il mio idolo, Raphael. Sei l’uomo che vorrei essere, quello che presto spero di diventare. Sei una figura molto importante, un modello. E se crolli tu, crollo anch’io, capisci?”
    L’altro abbassò la testa sconfitto.
    “Amici come prima?” il più piccolo gli tese la mano.
    Raphael la soppesò con gli occhi, poi la strinse. “Sì.” dichiarò. “Scusa se ti ho trattato male.” si mise seduto e si asciugò le lacrime.
    Harvey si morse l’interno della guancia e ingoiò il groppo che gli era salito in gola. “Non fa niente, me lo sono meritato.” lo abbracciò un’ultima volta, poi: “Ora va’ a farti una doccia, ché puzzi di sudore.”
    “Resti qui?”
    “Eh? Veramente dovrei…”
    “Non era una domanda. Era una preghiera.”
    “Oh” il ragazzo raccomandò la sua anima ai santi affinché gli conferissero la forza di astenersi da qualunque fantasia sessuale durante il resto della notte. Il cane perde il pelo, ma non il vizio. Ed era comunque arduo far fronte alle emozioni che Raphael gli scatenava dentro. “Ok, vado sul divano.”
    Così sarà più semplice.
    “No, il mio letto è grande, in due ci stiamo larghi.”
    “Ma è il tuo letto, non mi pare il caso…”
    “Perché? Mica ti vergognerai a dormire con me? Ci conosciamo da…”
    “Non abbiamo mai dormito insieme.”
    “Ah. È vero. Beh, c’è sempre una prima volta!”
    Qualcuno lassù mi vuole male.
    “Va bene.” si arrese, preparandosi psicologicamente a infinte e frustranti ore di veglia. “Però devo andarmene presto, alle dieci ho le prove al Maiden’s per lo show.”
    “Sì sì” rispose Raphael con un piede già nel bagno.
    La porta si chiuse e il giovane esalò un sospiro a pieni polmoni, disfacendosi della tensione accumulata. Si ristese supino sul materasso e incrociò le braccia sul viso.
    Sulle labbra si dipinse un sorriso amaro e con un bisbiglio pressoché inudibile disse: “Fine.”

    Rincasò alle sette, ergo aveva trascorso solamente poco meno di quattro ore nel letto di Raphael. Questi si era addormentato intorno alle tre, era crollato come un ghiro. Harvey, al contrario, era rimasto vigile, troppo teso per cedere al richiamo del sonno. Aveva studiato fin nei minimi particolari la figura assopita accanto a sé, intrigato dalla sua bellezza eterea. Non aveva badato alle occhiaie, alle piccole rughe intorno agli occhi e sulla fronte, alla bocca seria e un po’ imbronciata. Era stata la prima volta che aveva potuto ammirarlo da così vicino e non aveva voluto sprecare un’occasione simile, poiché probabilmente non sarebbe più ricapitata.
    Aveva adagiato la testa accanto alla sua, i loro volti alla distanza di un bacio, e aveva pianto in silenzio, non un solo singhiozzo era rotolato fuori dalla sua gola. Lo aveva contemplato a lungo, incurante dei minuti che scivolavano via, come se guardasse rapito una sublime opera d’arte. Stranamente, la parte inferiore del suo corpo non aveva reagito, se n’era rimasta buona senza rovinare la dolcezza e la magia di quel momento sospeso nel tempo. Aveva pure rimuginato sugli ultimi eventi, sui discorsi, ma alla fine aveva sentito il bisogno di sopprimerli tutti nella sua memoria. Le ferite, forse, non si sarebbero più rimarginate, ma almeno poteva evitare di rigirare il coltello nella piaga.
    Alle sette e cinque aprì con le chiavi la porta dell’appartamento e la chiuse con un calcio.
    “Che succede?!” un urletto scomposto lo ridestò dalle proprie cupe elucubrazioni e una testa mora fece capolino da dietro lo schienale del divano.
    “Gil?”
    “Harvey! Miseria, mi hai fatto venire un infarto… almeno avvertimi a che ora torni, li hanno inventati anche per questo i cellulari!”
    “Ah, già. A volte mi dimentico che condivido la casa con te…” borbottò il castano.
    “E io mi dimentico sempre di quanto sei carino.” lo rimbrottò Gil, tornando ad accasciarsi a peso morto sul giaciglio improvvisato, la nuca sul bracciolo.
    “Perché dormi sul divano?”
    “Mmm, è difficile… sono tornato, mi sono buttato qui sopra e mi sono addormentato. Adesso mi fa troppa fatica alzarmi e andare in camera.”
    “Ok.”
    Il moretto scrutò con cipiglio indagatore il collega di lavoro e coinquilino. “Che ti è successo? Sembri devastato.”
    “Ah… lo sono.”
    Armeggiò in uno sportello della cucina e pescò la moka per farsi il caffè.
    “C’entra Raphael? Giusto, sei uscito con lui stanotte! Com’è andata?” domandò con una smorfia esitante.
    Harvey grugnì.
    “Non bene. Avete litigato?”
    Un altro grugnito.
    “Sì? Ma avete fatto pace?”
    “Mh.”
    “E allora perché sei così floscio?”
    “Ho il cuore spezzato. Ti pregherei di non insistere.” lo sedò l’altro, fissando con aria assente le fiamme dei fornelli.
    “Ti ha rifiutato?”
    Silenzio. Poi: “Non mi va di parlarne.”
    “Ti ha rifiutato. Beh, però, dai… lo sapevi… no?”
    “Cos’ho appena detto, Gil?”
    “Ok, non insisto. Io comunque sono qui, se ti va di sfogarti… psicologicamente e fisicamente…”
    “Quindi posso pestarti a sangue?”
    “No, il senso era un altro, ma fa nulla.”
    Harvey si versò il caffè in una tazzina e soffiò per raffreddarlo.
    “Ma ti sei dichiarato sul serio?”
    Sbatté la tazzina sul ripiano di acciaio e fulminò Gil con un’occhiata omicida.
    “Scusa, scusa!” alzò le mani e sorrise nervoso. “Vado a farmi una doccia.”
    Il castano rimase solo e si appoggiò esausto al tavolo da pranzo. Si stropicciò gli occhi stanchi e si sedette su una sedia. Impostò la sveglia sul telefono e dormì per le due ore seguenti.
    Le prove per la nuova coreografia andarono alla grande e persino il capo, Paul Norrington, un omaccione sulla quarantina dall’aspetto avvenente e giovanile ma di solito disinteressato alle performance dei suoi dipendenti, si complimentò con i ballerini. E dopo convocò Gil nel suo ufficio, per fare cosa non era un segreto per nessuno.
    Lo show ebbe enorme successo e i clienti si prodigarono in ovazioni per dieci minuti abbondanti, con la soddisfazione degli spogliarellisti e di Paul, che incassò quasi il doppio, rispetto alle altre sere.
    Harvey si stava struccando nel camerino davanti allo specchio, quando Dana bussò e, senza attendere il permesso, entrò con un altro mazzo di fiori tra le braccia.
    “Hey, questo è per te. Pare che te lo mandi il solito tipo.”
    “La firma?”
    “Niente.”
    Il giovane lo prese in consegna e lo gettò nel cestino con un verso irritato.
    “Non sei affatto gentile, sai?” intervenne Gil, fissandolo di sottecchi.
    “Non me ne frega un accidente.” lo rimbeccò caustico.
    Il moro esitò, ma poi si schiarì la voce. “Sicuro di non volerne parlare?”
    “Sicurissimo, sono affari miei.”
    “Come vuoi.” fece spallucce e lo ignorò.
    Quando Harvey era di cattivo umore, andava evitato come la peste bubbonica, altrimenti era capace di provocarti una crisi di nervi. Gil, col suo temperamento sempre positivo e ottimista, si convinse che gli serviva solo un po’ di tempo per digerire il boccone amaro e che presto sarebbe tornato come prima.
    Ma a breve scoprì con rammarico che i suoi calcoli erano errati.
     
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    grazieeeeee! <3

    “Mamma! Dove sono le mie mutande?!” gridò a squarciagola un ragazzo con la zazzera rosso sangue dalla cima delle scale.
    Una voce femminile scocciata gli rispose per le rime, dal piano di sotto: “Cosa vuoi che ne sappia, io? Sono le tue mutande!”
    “Ma ieri avevi detto che le avresti stirate dopo aver fatto il bucato!”
    “Guarda nei cassetti del tuo armadio!”
    “Non ci sono!”
    “Guarda meglio!”
    “No, sono in ritardo, non me le metto!”
    “Stai scherzando?!”
    “Mamma, smettila di urlare! Sono le sette e mezza di mattina!”
    Un borbottio divertito venne inghiottito dal rumore di posate proveniente dalla cucina.
    Alan si infilò una canottiera di cotone blu e direttamente i jeans corti al ginocchio, anche se la mancanza di biancheria gli provocava un certo fastidio, dovuto alle cuciture dei pantaloni che gli sfregavano sulla pelle. Ma avrebbe resistito, bastava non pensarci. Si mise lo zaino in spalla e corse giù per le scale col rischio di spezzarsi l’osso del collo, afferrò di slancio un toast con sopra spalmato il burro di noccioline e bofonchiò un distratto “Ciao, mamma!”, prima di fiondarsi come un fulmine fuori di casa. L’appartamento a due piani dove vivevano distava a giusto due metri e mezzo di distanza dal negozio di fiori. Quando Daisy e Mick, il padre di Alan, avevano deciso di sposarsi, avevano comprato casa e negozio insieme, poiché il vecchio proprietario del locale, prima adibito a stock di vestiti usati, li possedeva entrambi. L’abitazione veniva spesso sfruttata anche come magazzino temporaneo, allorché gli ordini per le consegne superavano il numero massimo per essere contenuti nello sgabuzzino del negozio.
    Il giovane indossò le cuffie, accese l’mp3, inforcò la bici e pedalò più forte che poté alla volta della scuola al ritmo di “Some nights” dei Fun, il sudore che gli imperlava la fronte e la nuca. Erano i primi giorni di giugno e le lezioni si sarebbero concluse entro una settimana circa, per dare modo ai diplomandi di studiare e organizzarsi per gli esami di fine anno. Lo stesso Alan rientrava in quest’ultima categoria e presto avrebbe messo un punto a quel periodo della sua vita. Non vedeva l’ora di cominciare l’Accademia d’Arte, aveva già spedito i moduli per l’iscrizione ed era stato ammesso.
    Inoltre, dato che era letteralmente sommerso di studio e nozioni da memorizzare in tempi ragionevoli, oltre che il lavoro al negozio e il judo, non aveva avuto modo di tornare in biblioteca per poco meno di due settimane e, neanche a dirlo, gli mancava da morire Raphael. Prima di prendere la faticosa e masochistica decisione di rinchiudersi in casa sui libri, una delle ultime volte che vi si era recato aveva notato qualcosa di diverso nell’uomo. Non era riuscito a spiegarsi bene cosa lo avesse turbato, ma tutto in lui, dalla postura ai gesti, era impercettibilmente cambiato. Pareva più rilassato. Per giunta, quando gli aveva reso la tessera di socio, gli aveva rivolto il primo sorriso sincero e gentile in circa due anni, fatto che lo aveva lasciato inebetito per qualche secondo di troppo, con una mezza erezione schiacciata nei boxer e lo sguardo da orata pescata con le bombe. E gli era anche sembrato, per un breve momento, di vedere sbocciare dei fiori intorno ai capelli biondi, ma ovviamente era solo la sua mente malata e innamorata a proporgli immagini assurde e a partire per la tangente. Quel pomeriggio si era così seduto al solito posto tutto galvanizzato ed emozionato, il cuore che batteva furioso nel petto. Aveva preso un libro a caso da uno scaffale vicino e aveva osservato il suo principe azzurro per un paio d’ore, mentre fingeva di essere assorto nella lettura.
    Aumentò la velocità e schivò un gruppo di passanti, l’arietta fresca del mattino che gli penetrava nella canottiera e asciugava le gocce di sudore. Le sue labbra erano piegate in un sorriso sghembo e i suoi pensieri erano invasi e dominati dal volto sereno di Raphael, che aveva lo strabiliante potere di ringalluzzirlo sempre. L’edificio scolastico si stagliò dopo qualche minuto davanti ai suoi occhi e il cortile già brulicava di ragazzi che si facevano strada attraverso il portone principale. Alan tirò un sospiro di sollievo e parcheggiò la bici all’interno dell’apposita area, vicino al cancello d’entrata.
    Marciò spedito attraverso i corridoi e raggiunse la sua classe, facendo un cenno di saluto ad alcuni ragazzi che parlottavano di sport in un angolo della stanza. Prese posto al primo banco accanto alla finestra e abbassò appena il volume della musica, chiudendo gli occhi e fantasticando di fare sesso selvaggio con Raphael. Nell’ultimo periodo i suoi ormoni avevano cominciato ad agitarsi di testa loro, in totale libertà e autonomia, provocandogli brividi di piacere a qualsiasi ora del dì e della notte, nel momento in cui nella sua mente apparivano come per magia una chioma d’orata, un paio di occhi celesti, un naso dritto e una bocca sottile e ben disegnata. Era una tortura, anche perché non poteva alleviare l’eccitazione in ogni momento, non è che passava le giornate chiuso in camera, sdraiato sul letto a masturbarsi. E poi c’era quella leggenda metropolitana, quella che, se ti tocchi troppo spesso, diventi cieco… Alan non ci credeva molto, ma comunque cercava di non esagerare mai, sebbene stesse sbocciando e fosse un ragazzo in piena adolescenza.
    Senza avvedersene, si strizzò i pantaloni all’altezza del cavallo e trattenne un ansimo. L’istante successivo il professore spalancò la porta dell’aula e gli studenti tornarono ai propri banchi. Il rosso era impallidito per un secondo, ringraziando il cielo di non aver compiuto gesti palesi o marcati, adottando invece un comportamento discreto e falsamente tra le nuvole. Spense l’mp3, ripose le cuffie nello zaino e prese i libri della lezione con addosso la familiare malinconia che lo avviluppava ogni volta che realizzava di non poter vedere per un altro giorno il costante oggetto dei suoi sogni, il che accadeva ogni tre per due. Doveva studiare e ottenere il maledettissimo diploma, dopo avrebbe avuto la possibilità di crogiolarsi nell’amore e tentare un approccio diretto. Tuttavia, non poteva astenersi dall’essere continuamente su di giri e l’unico sfogo che aveva era il judo, mero palliativo che lo scaricava giusto per un’oretta scarsa, trascorsa la quale le energie tornavano più rinvigorite di quanto già non lo fossero state in precedenza.
    Alle tre del pomeriggio finalmente raccolse le sue cose e uscì da scuola, mimetizzandosi tra la folla di giovani ammassati in cortile e facendo lo slalom per riuscire a guadagnarsi il cancello. Però, prima che potesse oltrepassarlo, sentì qualcosa picchiettargli sulla spalla, così si voltò di scatto assumendo una posizione di difesa, con le braccia piegate in avanti e i pugni stretti. Si bloccò non appena riconobbe la figura magra e trasandata di Austin, uno dei seguaci di Dylan, il suo aguzzino e bulletto preferito. Aveva i capelli castani tagliati a spazzola, gli occhi nocciola e il naso a patata, ed era di una spanna più alto: insomma, un tipo insignificante che non attirava attenzioni e che passava tranquillamente inosservato. Lo squadrò stupito e diffidente, senza commettere l’errore fatale di abbassare la guardia solo perché si trovava di fronte ad un ragazzo della sua età per niente capace di fare a botte. Di solito, quello se ne restava dietro le quinte a fare il tifo per il suo capo, troppo codardo per sferrare qualunque attacco, in particolare verso Alan, che era perfettamente in grado di rendere pan per focaccia. La sua sorpresa, come il sospetto, aumentò a dismisura quando notò l’altro arrossire sugli zigomi e guardarsi attorno con aria nervosa e impacciata. Rimase basito a scrutarlo intensamente, aspettando una qualche mossa da Austin, che se ne stava impalato a grattarsi il collo.
    “Ehm… ciao, Alan.” lo salutò con un sorrisino innocente.
    “Che vuoi?” gli rispose acido.
    “Potremmo… andare a parlare in un luogo più… appartato?” propose con un filo di voce.
    Il rosso inarcò un sopracciglio perplesso. In seguito sondò i dintorni con gli occhi, assicurandosi che non ci fosse la banda al completo nelle vicinanze. Effettivamente non v’era traccia né di Dylan né del resto del gruppetto, cosa in sé piuttosto strana. Esitò, ma poi diede il suo assenso, i sensi vigili e pronti a captare la trappola.
    Austin lo condusse fra gli alberi al perimetro del cortile, sufficientemente nascosti da sguardi indiscreti.
    “Beh?”
    L’interpellato sussultò vistosamente e prese a tormentarsi le dita. “Ecco… finora non ho mai avuto il coraggio di dirtelo, perché avevo paura di Dylan. Ma, dato che mancano pochissimi giorni alla fine della scuola, volevo togliermi questo peso dalle spalle.”
    Alan si fece tutto orecchi. Cos’è che voleva dirgli? Un segreto inconfessabile? Se era sincero, poteva rivelarsi una notizia succulenta da usare eventualmente a suo vantaggio per casuali ricatti futuri, se Austin avesse provato a schernirlo di nuovo.
    “Ti ascolto.” lasciò andare lo zaino sull’erba e rilassò i muscoli tesi.
    “Io…” si morse il labbro inferiore e distolse gli occhi imbarazzato. “Tu mi piaci, Alan.”
    “Eh?!” sbottò incredulo, mentre indietreggiava di un passo e strabuzzava le palpebre.
    “Tu mi piaci.” proferì con più convinzione, avanzando verso di lui.
    “Ma… ma… sei impazzito?!” lo aggredì l’altro.
    “All’inizio ho tentato di ignorare i miei sentimenti, perché pensavo che fossero sbagliati e contro natura, ma poi ho dovuto arrendermi all’evidenza. Ho sempre covato una grande attrazione per te.”
    Alan boccheggiò come un pesce fuor d’acqua. Questa proprio non se l’aspettava. Non avrebbe potuto neanche lontanamente immaginarselo. Un vero fulmine a ciel sereno.
    “Austin, ascolta.” sospirò, passandosi una mano sul viso, a disagio. “Sono felice che tu abbia fatto questo passo, riconosco che sei uno con le palle. Ti ho sempre considerato come un fallito vigliacco, ma ora mi ricredo. Però… non posso ricambiarti, perché sono già innamorato di un altro.”
    “Ah… capisco…” fece un po’ abbacchiato.
    Alan, preso a compassione, si avvicinò e gli posò amichevolmente una mano sulla spalla. “Dai, non ti scoraggiare. Sicuramente troverai qualcuno anche tu, prima o poi. A parte questo,” mise ancora le distanze fra i loro corpi, “com’è che tutto a un tratto dichiari a me di essere gay?”
    Non aveva potuto fare a meno di porre questa domanda, poiché nutriva uno strano presentimento in fondo al cuore, una sensazione che non riusciva a spiegarsi o a individuarne la natura e l’origine.
    “E non venirmi a dire perché sono l’unico frocio che conosci. A scuola ce ne sono almeno una dozzina che hanno già fatto coming out e altrettanti che invece mantengono un profilo basso, pur essendo evidente il loro orientamento sessuale.”
    “Perché tu mi piaci.” rispose scrollando la testa con ovvietà.
    “Sicuro? Non è che è tutta una messa in scena colossale e patetica per prendermi per il culo?”
    “Posso dimostrartelo, se vuoi.”
    “Ottimo. Allora fallo.”
    Soltanto l’attimo dopo si accorse di cosa aveva detto, ma non fece in tempo a giustificarsi che un paio di labbra premettero contro le sue. Austin lo stava baciando come bacia un verginello, cioè da schifo, ma il proprio corpo era paralizzato dallo stupore, tanto che, lì per lì, non trovò le forze per respingerlo.
    Poi, tutto avvenne in un battito di ciglia.
    Delle braccia estranee lo acciuffarono sotto le ascelle e lo strattonarono verso terra, senza dargli modo di reagire. Presto si aggiunsero altre mani e, un momento prima di cadere vittima di un violento pestaggio, del genere che si vede nei film, vide la faccia di Austin trasfigurata in una maschera divertita, che sembrava quasi gridare “Ti ho fregato!”. Dylan sbucò dal nulla, gli assestò una pacca orgogliosa sulle scapole e si unì al resto dei gorilla che lo sovrastavano. Fece solo in tempo a coprirsi il volto con le braccia e a darsi dell’idiota, dopodichè fu tutto un susseguirsi di calci e pugni alla cieca. La frequenza dei colpi era troppo elevata per concedergli l’opportunità di elaborare una strategia di fuga, l’unica cosa da fare era rassegnarsi docilmente, sperando che i bulli si stancassero di prendere a pedate un sacco che non si ribellava. Nonostante ciò, la rissa si protrasse a lungo ed Alan, suo malgrado, perse i sensi, pessima mossa durante la lotta, perché lasciavi all’avversario l’agghiacciante e imprevedibile potere di ridurti in poltiglia.
    Stavolta gliel’avevano davvero fatta, tanto di cappello a chi aveva organizzato il piano.
    Quando rinvenne era già calata la sera e il cielo era punteggiato di stelle, anche se all’orizzonte permaneva una sottile scia più chiara. Che ore erano? Le otto? Le nove?
    Bah, dettagli. Alan era convinto di essersi trasformato in una creatura gelatinosa. Ogni centimetro del suo corpo urlava in preda a un dolore atroce e le palpebre gonfie faticavano ad aprirsi a dovere. Il naso gli doleva, così come la bocca e l’arcata superiore destra dei denti. Lo sterno gli lanciava fitte allucinanti che gli facevano venire la vista a chiazze. Il braccio sinistro non si muoveva. Le gambe parevano ancora in buono stato, almeno quel tanto che era sufficiente per strisciare. In gola sentiva il sapore ferroso del sangue e fu scosso da un paio di conati.
    Per fortuna il suo cervello non sembrava aver risentito delle botte e stava lavorando a ritmo febbrile a una soluzione che non implicasse l’alzarsi o il semplice muoversi di un millimetro. Ma se fosse rimasto lì, le sue condizioni si sarebbero aggravate, perché molto probabilmente aveva qualcosa di rotto. La sola maniera per uscirne era localizzare il suo zaino, prendere il cellulare e chiamare un’ambulanza. Ma nel frattempo sarebbe svenuto per l’ennesima volta, perciò opzione scartata. Altrimenti poteva aspettare un altro po’, recuperare le forze e dirigersi in un posto sicuro.
    Casa sua era fuori discussione, non voleva preoccupare sua madre.
    Casa di Jason era l’ideale, ma troppo lontana. Uguale: morte certa.
    C’era qualcosa più a portata di mano?
    Rimuginò con calma, senza cedere al panico.
    La biblioteca! Avrebbe potuto chiedere soccorso lì. Non lo conosceva, ma Raphael gli ispirava fiducia e sicuramente lo avrebbe aiutato. Ebbe un improvviso capogiro e si portò le dita sporche di terra alla bocca, rotolando carponi. Rantolò e vomitò qualcosa di indefinito che aveva il retrogusto del sangue, e considerò con obbiettività che non era un buon segno. Però, se riusciva a compiere quei movimenti, era più sensato chiamare l’ambulanza, invece di mettersi a gironzolare per le strade come uno zombie.
    Eppure aveva ormai scelto, conscio di stare facendo una cosa stupida e rischiosa. Ma forse era la sua ultima occasione e poi il Creatore lo avrebbe perentoriamente chiamato a sé. Doveva provare. Pregò che non fosse troppo tardi e che la biblioteca fosse ancora aperta.
    Con incredibile sforzo e numerose imprecazioni sibilate tra i denti riuscì ad addossare la schiena ad un albero. Se tuttavia gli era venuto il fiatone durante un’azione simile, come credeva di poter arrivare da Raphael?
    Reputò saggio riposarsi per qualche minuto e raccogliere le forze. Il cuore pompava veloce e la testa non smetteva di girare come se fosse dentro una centrifuga. Osservò l’ambiente circostante e si rese conto che il suo zaino era sparito. Di male in peggio. Adesso, sul serio, l’unica soluzione era chiedere aiuto al biondo.
    Chiuse gli occhi e cercò di regolare il respiro per non andare in iperventilazione a causa dell’agitazione. Non appena si sentì pronto, serrò i denti e fece perno sui piedi per tirarsi su, strusciando la schiena sulla corteccia ruvida. Gemette svariate volte, le lacrime che gli bagnavano le guance, ma alla fine assunse una postura eretta. Ora veniva il difficile e avrebbe testato la tempra d’acciaio che si era sempre vantato di possedere. Azzardò il primo passo, il palmo della mano sul tronco per sorreggersi, ma il gesto gli provocò un attacco di vertigini. Si concentrò e si staccò dall’appoggio, rimanendo immobile ad analizzare la propria resistenza. Poteva farcela. Iniziò a barcollare in direzione del cancellino sul retro della scuola, adibito all’ingresso dei bidelli, non lontano da lì. Se si fosse fermato a pensare al dolore o avesse soltanto inciampato per sbaglio, era sicuro che si sarebbe arreso, quindi proseguì con l’immagine di Raphael davanti a sé, che lo spronava e lo incoraggiava.
    Si era fatto abbindolare come un allocco e la ferita gli bruciava nell’orgoglio. Come aveva potuto essere così stupido? Già il fatto di Austin che si dichiara avrebbe dovuto metterlo in allarme, era assolutamente surreale, nonché indiscutibilmente impossibile. Forse se l’era meritato, era stata la giusta punizione per la sua arroganza nel ritenersi intelligente e furbo al di sopra della media.
    Imboccò una serie di stradine secondarie, lontane dal traffico e dalla gente, arrestandosi a riprendere fiato ovunque gli fosse possibile. Dopo quella che gli parve un’eternità, giunse in vista della biblioteca comunale. Le luci erano ancora accese, quindi dovevano essere circa le sette, o non più tardi delle otto, poiché l’orario estivo prevedeva la chiusura posticipata. Arrancò più rapido che poté, prossimo ad una crisi di pianto liberatorio. Un secondo prima di uscire dal vicoletto esattamente di fronte all’entrata dell’edificio si bloccò indeciso. Era inammissibile presentarsi lì dentro conciato in quel modo. Si risolse ad accucciarsi sull’asfalto e attendere che Raphael uscisse, per poi placcarlo tempestivamente.
    Pochi istanti più tardi le energie diedero definitivamente forfait.

    Il ticchettio dei tasti era l’unico suono udibile nel silenzio pesante che ammantava la biblioteca a quell’ora di sera. Le dita di Raphael correvano veloci, come se volassero. Gli occhiali leggermente calati sul naso gli donavano un’aria da sfigato intellettuale, ma le bellissime iridi azzurre erano fisse sullo schermo, concentrate e ferme. Doveva terminare di inserire dei dati e la cosa gli stava rubando più tempo di quanto pensasse.
    “Mastro Raphael.”
    Il biondo saltò sulla sedia e interruppe il lavoro, soffocando per miracolo un urletto spaventato.
    “Signor Jills, la prego, non compaia alle mie spalle silenzioso come un gatto…” esalò spazientito, una mano sul torace per placare le palpitazioni.
    “Chiedo venia. Vi rivelereste sì magnanimo da interessarvi voi dello smaltimento della diurna lordura in luogo della mia persona? Nel dì odierno sopravverrà la mia progenie e ritengo d’uopo fornire ausilio alla consorte per il luculliano desinare.”
    “D’accordo, non si preoccupi, ci penso io.”
    “Avete la mia riconoscenza, mastro Raphael. Ordunque mi congedo.”
    “Arrivederci. Buona serata.”
    Si tolse gli occhiali e si massaggiò gli occhi, che frizzavano per le troppe ore passate davanti al computer. Finì in circa quaranta minuti, chiuse la sessione e spense le luci. Il signor Jills gli aveva lasciato tre sacchi della spazzatura accanto alla porta a vetri, così, aggiustandosi la borsa a tracolla, ne prese due. Poi, notando che pesavano dieci tonnellate ciascuno, considerò che portarli ai cassonetti uno alla volta avrebbe senza dubbio giovato alla sua schiena. Uscì in strada e attraversò l’incrocio con passo lesto, impaziente di tornarsene a casa e mettere qualcosa sotto i denti. Imboccò il vicolo e lanciò una rapida occhiata all’individuo rannicchiato al muro, bollandolo subito come barbone alcolizzato. D’altronde, non c’era luce sufficiente per distinguere meglio i contorni. Gettò il sacco nel contenitore e si pulì le mani sulla stoffa dei pantaloni. Fece dietrofront e tornò indietro. Ma dopo giusto due passi sul marciapiede, si pietrificò. Guardò davanti a sé, il cervello che tentava di elaborare le informazioni. Ripercorse quel metro scarso nel vicolo, stranito, e posò gli occhi su una zazzera rossa orribilmente familiare.
    “Ma che…” mormorò allibito.
    Si inginocchiò e sollevò il mento del ragazzino. Era lui, Alan Becker, non poteva sbagliarsi. Ma perché era lì?
    Trattenne il respiro. Dio, chi lo aveva ridotto in quello stato? Si alzò bruscamente e ponderò il da farsi, non c’era tempo per le domande. Doveva chiamare l’ambulanza. Di certo Alan aveva dei genitori, quindi avrebbe dovuto avvertirli. Serviva il cellulare del giovane. Si accucciò nuovamente e tastò le tasche, scoprendole vuote. Era stato derubato?
    “Merda…”
    Estrasse il proprio telefono e compose il numero del pronto soccorso, fornendo l’indirizzo. Gli accarezzò i capelli, sporchi di quello che sembrava terriccio e ammazzettati a causa del sudore.
    “Hey! Alan!” gli scosse una spalla, la preoccupazione che aumentava di secondo in secondo. “Alan, svegliati! Mi senti?”
    Dal giovane non provenne alcuna risposta. Raphael gli premette il pollice sul polso e constatò con sollievo che era ancora vivo. Gli circondò il busto con le braccia e lo strinse a sé per trasmettergli calore, anche se non sapeva se sarebbe servito effettivamente a qualcosa. Non possedeva alcuna nozione al riguardo, ma era la sola cosa che potesse fare. Appurò che il braccio sinistro, con ogni probabilità, era rotto, data l’angolazione innaturale in cui era piegato. Forse aveva anche diverse lesioni disseminate in tutto il corpo, ma il biondo non ebbe il coraggio di proseguire con un’accurata ispezione, senza la garanzia di non arrecare danni alla vittima. Se ne sarebbero occupati i medici o gli infermieri. Alan aveva il viso gonfio e pieno di lividi, uniti a delle macchie di sangue rappreso. Ovviamente non era caduto dalle scale.
    Aggrottò le sopracciglia e subito delle rughe di apprensione gli si formarono sulla fronte. Per la prima volta stava abbracciando quel ragazzino che sin dal primo momento lo aveva turbato, ma la situazione era tragica. Forse era stato il destino a attirarli l’uno verso l’altro, proprio adesso che Raphael stava cominciando a riemergere dal baratro, o forse soltanto un caso fortuito. Ad ogni modo, significava qualcosa. O così al biondo piaceva credere.
    La sirena dell’ambulanza lo riportò alla realtà e immediatamente chiamò a gran voce aiuto. Un paio di uomini con il camice azzurro gli si accostarono di corsa e presero in consegna il giovane privo di sensi, caricandolo sulla barella. Raphael chiese di poter salire anche lui, anche se non era un parente, e il permesso gli venne accordato solo dopo una sfilza di petulanti minacce e arrabbiate insistenze. Gli occorse un po’ per ricordarsi di aver dimenticato di chiudere la biblioteca e i sacchi della nettezza all’ingresso, ma non gliene fregava niente, se ne sarebbe interessato allorché tutto si fosse sistemato.
    Attendeva ormai da un paio d’ore seduto su un divanetto imbottito in sala d’aspetto, il nervosismo palese dall’incessante scalpiccio della suola della scarpa destra sul pavimento lustro. La stanchezza aveva invaso ogni fibra dei suoi muscoli, facendolo sentire come svuotato, ma desisteva stoicamente dall’addormentarsi prima di conoscere il verdetto dei dottori. Uno di essi infine si presentò al suo cospetto e Raphael scattò in piedi come una molla.
    “Allora?”
    “Salve, sono il dottor Lane. Mi è stato riferito che lei non è un parente del paziente, di conseguenza, per la legge della privacy, non posso dirle niente. Mi dispiace. Contatteremo subito…”
    “La prego, mi dica almeno come sta! Lo conosco, non siamo estranei! Sono veramente in ansia…”
    Gli occhi di un azzurro limpido e acceso smossero qualcosa nello stomaco dell’altro.
    “E’ stabile.” gli disse con un sospiro, passandosi le dita nei capelli corti brizzolati e sul mento con un accenno di barba. Si rigirò in una mano la cartellina beige di un referto clinico e scostò appena il camice bianco per infilare l’altra nella tasca dei pantaloni con aria tranquilla. “Si è svegliato e non ha riportato traumi cranici. Ha solo un braccio rotto e due costole incrinate, qualche contusione e una considerevole quantità di ematomi, ma in generale sta bene. Posso sapere il suo nome, se non le dispiace?”
    “Mi chiamo Raphael Hopkins. Ho trovato il ragazzo incosciente nel vicolo davanti alla biblioteca comunale, dove lavoro.”
    “Bene, può andare. Come dicevo dianzi, avvertiremo al più presto qualcuno della famiglia del paziente, lei può tornarsene a casa.”
    “Posso vederlo?”
    “Non è orario di visite.”
    “La supplico!”
    Ok, sapeva di stare giocando sporco, ma voleva accertarsi di persona che Alan stesse davvero bene. Inoltre, bisognava sempre fare buon uso delle proprie armi e lui era splendidamente al corrente delle sue. Spalancò le palpebre e lo fissò con una scintilla languida nello sguardo, sbatté le ciglia chiare un paio di volte e gli si fece terribilmente vicino, un sorriso seducente sulle belle labbra rosee. Poco mancava che prendesse a brillare di luce celestiale come un angelo.
    “Ehm…” il medico balbettò confuso, mentre un vago rossore si diffondeva sull’incarnato olivastro. “Cinque minuti.”
    “Grazie!” sfoggiò un sorriso radioso e si fiondò al banco dell’accettazione per chiedere in quale camera era stato assegnato Alan Becker.
    Stanza 119. La raggiunse in un paio di minuti, ma si arrestò prima di bussare. Cosa gli avrebbe detto? Sapevano al massimo i rispettivi nomi. Va beh, si sarebbe affacciato e avrebbe salutato, nulla di più.
    Lo trovò semi sdraiato sul letto, con un braccio ingessato fino alla spalla e una miriade di cerotti e fasciature ovunque. Pareva una mummia. Solo la testa era libera e i capelli rossi incorniciavano ribelli il viso rotondo come quello di un bambino. Dapprima, il ragazzino non si avvide della sua presenza, così si schiarì la voce.
    Alan si voltò e sgranò gli occhi verdi a dismisura.
    “Ciao” gli disse Raphael, sorridendogli. “Come ti senti?”
    Silenzio. Il più piccolo aveva improvvisamente perduto la facoltà di parola. La gola si era fatta secca e la lingua gli si era appiccicata al palato. E cos’era quella strana sensazione alla bocca dello stomaco?
    L’altro gli si fece accanto e si sedette sulla sponda del letto.
    “Stai bene?” ripeté.
    Alan annuì, ancora in trance.
    “Ti va di dirmi cosa ti è successo?” domandò in tono gentile, sporgendosi verso di lui, che arrossì di botto e deglutì.
    “N-niente…” era nel pallone. Si trattava indubbiamente di un sogno, non c’era altra spiegazione. E la sua voce era divina, virile e al contempo dolce e cadenzata, come se cantasse. Era una voce che ti rimaneva impressa a fuoco nell’anima, come la malia di una sirena. E ora quel dio greco, una sorta di Apollo moderno, si stava rivolgendo a lui, comune mortale.
    “Non è vero. A me puoi dirlo, non lo dirò a nessuno. Anche se i tuoi genitori dovrebbero saperlo.”
    “S-solo una stupida rissa a scuola…” mormorò con il cervello in tilt. Se la salivazione non si fosse azzerata appena aveva posato lo sguardo sul biondo, Alan era sicuro che si sarebbe messo a sbavare senza ritegno.
    “Dovresti stare attento, lontano dai guai. Quando ti ho visto, ho avuto paura che fossi morto.”
    Raphael si era preoccupato per lui? Gli occhi gli si riempirono di lacrime commosse. Poteva morire felice.
    “Scusa…”
    “Non devi scusarti con me. Quanti erano?”
    “Non lo so. Cinque… o sei. O forse di più, non ricordo.”
    “Cinque o sei?” gracchiò il maggiore, perdendo il controllo per una manciata di secondi. Scosse il capo. “Sono studenti della tua scuola?”
    “Sì.”
    “Allora, se li conosci, faresti meglio a denunciarli.” gli intimò in tono grave.
    “No, non è necessario. Tanto, dopo il diploma, non li rivedrò mai più.”
    “Non condivido la tua scelta, ma spetta a te decidere.”
    La conversazione naufragò in un silenzio imbarazzato e Raphael reputò giunto il momento di andarsene.
    “D’accordo, allora io vado a casa. Quando ti dimetteranno?”
    “Tra un paio di giorni.”
    “I tuoi sono stati contattati?”
    “Ho detto all’infermiera che non voglio chiamare mia madre, si preoccuperebbe. Tanto l’avevo già informata che stasera andavo a dormire da un amic… oh, no! Scusa se te lo chiedo, ma potresti prestarmi il cellulare? Devo mandare un messaggio!”
    “Certo” glielo porse e lo guardò smanettare veloce come un razzo.
    Sorrise divertito. Ah, i giovani e la tecnologia!
    “Fatto. Grazie mille.” fece timido e gli rese il telefono.
    Quando il biondo lo afferrò, le loro dita si sfiorarono inavvertitamente. Alan ritrasse la mano come se si fosse scottato e distolse gli occhi, mentre le guance si imporporavano ed assumevano una tonalità simile a quella dei capelli.
    Raphael ridacchiò sotto i baffi, ormai esperto nel decifrare determinate reazioni. Osservò il ragazzo e ammise che il verde bosco di quelle iridi era veramente stupendo, allo stesso modo delle labbra piccole e carnose come boccioli. Un brivido freddo gli percorse la spina dorsale e interruppe sul nascere i pensieri romantici che il suo cervello, esausto dopo una giornata di lavoro e stressato dagli ultimi eventi, stava creando di sua spontanea volontà. Che diavolo andava pensando, era un bambino! D’accordo che aveva diciotto anni, ma tra loro ne correvano sedici di differenza! Stiamo scherzando?!
    Sbuffò e si alzò in maniera repentina, provocando un sussulto nel paziente.
    “Allora… ci vediamo in biblioteca.” lo salutò, scrutandolo per l’ultima volta.
    “S-sì! A presto!”
    Guadagnò la porta e mise una mano sulla maniglia. “Ah!” si girò. “Io sono Raphael Hopkins.”
    Alan si trattenne dal dire “Lo so”. Invece annuì e rispose: “Alan Becker. Piacere di conoscerti.”
    Rapahel piegò la testa in un cenno d’assenso e sparì alla vista dell’altro, quasi fosse stato un’apparizione onirica o un’allucinazione causata dalla morfina che gli circolava nelle vene.
    L’indomani sera, il giovane si stava annoiando a leggere una rivista di gossip gentilmente fornitagli in dotazione dall’infermiera che veniva a cambiargli le medicazioni. Controllò ancora l’orologio appeso alla parete, che segnava le sette e cinquanta. Tra mezzora sarebbe arrivato Jason a prenderlo per portarlo a casa sua con l’autobus. Quella mattina aveva telefonato a sua madre, avvertendola che sarebbe rimasto dall’amico ancora una notte. Era cosciente di non avere alcuna possibilità di scampare all’interrogatorio della donna riguardo il braccio ingessato, ma almeno aveva a disposizione altre ventiquattrore per pensare ad una scusa plausibile e prepararsi psicologicamente alla sfuriata.
    All’ora prestabilita, quasi allo scoccare del minuto, Jason spalancò la porta della stanza trafelato.
    “Alan!” esclamò e si gettò su di lui con slancio.
    “Ahi!”
    “Oh, scusami!!!”
    “Non fa niente…” lo rassicurò, sebbene una smorfia di dolore gli alterasse i lineamenti.
    Il moretto lo fissò con gli occhioni spalancati e ansiosi, le mani congiunte sul petto. “Ero così preoccupato…” pigolò con la voce incrinata.
    “Sto bene.”
    “Non stai bene! Guarda come sei ridotto… sei sempre il solito, quando la pianterai di cercare grane, eh? E se un giorno ci rimani secco?!”
    “Hey, piano con le fiatate! Non c’è del ferro da toccare, qui?”
    “Sono serio, Al. Perché non metti la testa a posto, una buona volta?”
    “E da quant’è che io e te saremmo sposati? Non atteggiarti a mogliettina, J.J.”
    “Non trattarmi così!”
    Jason scoppiò a piangere da un istante all’altro e il diciottenne rimase spiazzato.
    “Dai… lo sai che ti sono grato, vero? Solo che odio stare fermo senza niente da fare, mi inacidisce.”
    In risposta ottenne una cascata di singhiozzi disperati. Il minore affondò la faccia nell’incavo del collo dell’amico, mentre questi gli accarezza il caschetto di capelli neri e lunghi fino alle spalle con delicatezza. Gli depose un bacio sulla fronte, poi su entrambe le palpebre, sul nasino piccolo e leggermente all’insù e infine sulle labbra morbide. Il contatto si approfondì subito e le loro lingue si trovarono a danzare insieme, mischiando i reciproci sapori. Per fortuna che erano soli e potevano godere di qualche attimo di intimità e complicità. Quando si staccarono per respirare, Alan rise nel notare il volto congestionato e rosso dell’altro e gli occhi languidi e lucidi, ma non poteva non ritenerlo incredibilmente adorabile come un cucciolo.
    Jason si asciugò le guance segnate dalle lacrime con il polso, in un gesto molto infantile, che scaldò il cuore del rosso e lo sciolse.
    “Mi aiuti a vestirmi?”
    “Sì… dove sono le tue cose?”
    “Su quella sedia. Ah, domani mi devi anche accompagnare a recuperare la bici che ho lasciato a scuola.”
    “Ok”
    Il moro andò a prendere i suoi abiti e solo allora Alan si dedicò a studiare il suo abbigliamento. Indossava una maglietta nera a maniche corte con i cappuccio, ma era senza dubbio un modello femminile, poiché lasciava scoperto l’ombelico e una buona porzione dei fianchi. I pantaloni, anch’essi neri come tutto il resto, al contrario erano larghi e un po’ da rapper, accompagnati da un paio di scarpe della Nike. A Jason era sempre piaciuto vestire di scuro e fin dal loro primissimo incontro aveva attirato l’attenzione del più grande per il suo look dark, ma privo di borchie o piercing. E gli donava davvero tanto, perché si sposava alla perfezione con la pelle lattea e gli occhi azzurro ghiaccio. Sembrava un angelo caduto.
    Durante il tragitto di ritorno, Alan passò la maggior parte del tempo a raccontare all’amico della rissa e del magico incontro con Raphael, senza notare lo sguardo di Jason che si incupiva parola dopo parola. Ma quest’ultimo non disse niente, lo lasciò sfogare tenendolo per mano, con il capo appoggiato alla sua spalla sana e lo sguardo vacuo che scivolava sulle luci dei lampioni e i fari delle macchine fuori dal finestrino dell’autobus.
    Perché accidenti Alan era così tonto, certe volte? In quei frangenti, gli capitava di dubitare fortemente della sua tanto decantata arguzia e sensibilità.
     
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  10. Lady1990
     
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    “Sto aspettando.” proferì Daisy con sguardo severo, le braccia incrociate sotto al seno e le gambe appena divaricate in una posa da militare. Il fatto poi che vestisse un abitino azzurro con sopra il grembiule da cucina rosa con i cuoricini e ai piedi indossasse delle pantofole pelose a forma di procione - che fosse estate o inverno poco importava, anche se Alan immaginava dovesse patire un gran caldo - non sminuiva in alcun modo l’aura minacciosa che avvolgeva come un manto spesso tutta la sua figura.
    Alan sbuffò, seduto sul letto con l’espressione scocciata e colpevole.
    “Colluttazione amichevole.” sparò, mentre le sue labbra si piegavano all’ingiù in un broncio adorabile.
    “E cos’è quel braccio ingessato?”
    “Sono caduto male.”
    “E quei lividi sulla faccia?”
    “Facciamo a turno. Stavolta toccava a me.”
    La donna sospirò e chiuse gli occhi, corrugando le sopracciglia fini e rossicce. Si avvicinò lentamente al figlio e gli tirò uno schiaffo sulla guancia. Alan rimase immobile, sbigottito, ma si rifiutò di ricambiare l’occhiata colma di rimprovero della madre, modello cucciolo bastonato.
    “E secondo te mi bevo tutte queste balle? Credevi davvero che non lo avrei saputo? Chi è che paga l’assicurazione, Alan? Non ho esitato nemmeno una frazione di secondo a chiamare l’ospedale e mi hanno informata con dovizia di particolari delle condizioni in cui sei giunto lì. Non è stata affatto una banale rissa e ora voglio che mi dici i loro nomi.”
    “Sarebbe solo una perdita di tempo.” bofonchiò il ragazzo, improvvisamente moscio. “E poi tra poco inizieranno gli esami, manca tanto così al diploma. Cosa vuoi che me ne importi di una banda di gorilla che tra meno di un mese spariranno per sempre dalla mia vita?”
    “Poteva andarti peggio, stupido imbecille!” sbraitò Daisy divenendo paonazza. “Hai idea di cosa ho provato, vedendoti tornare a casa ridotto così? Ne hai la più pallida idea?! Non me ne frega un accidente di cosa vuoi tu, io voglio la denuncia!”
    “Mamma, ti prego, lasciali perdere. Poteva andarmi peggio, certo, ma come vedi sto relativamente bene. Non voglio creare problemi proprio adesso che devo affrontare una delle prove più difficili della mia adolescenza.”
    Alzò gli occhi e l’istante successivo li sgranò incredulo di fronte alle lacrime che copiose solcavano il viso della genitrice.
    “Nessuno…” la voce le tremava, “nessuno deve osare fare del male al mio bambino. Devono pagare.”
    Alan si tirò in piedi e la abbracciò di slancio con l’arto sano, affondando il viso fra i suoi capelli ricci che profumavano di rose, e non perché usasse uno shampoo a quella particolare fragranza, ma perché due sposini ne avevano ordinate una valanga per la cerimonia di nozze e per tutto il giorno la donna vi aveva navigato dentro per farci i bouquet.
    “Sto bene, mamma. Non preoccuparti. Ci vuole ben altro per mettermi fuori gioco.” le sorrise incoraggiante e le schioccò un bacio sulla guancia.
    Dio solo sapeva quanto amasse sua madre. Lo aveva praticamente cresciuto lei e negli anni avevano tessuto un legame molto solido e sincero. Ciò non significava che Daisy si comportasse da amica col figlio, ma che, pur mantenendo l’autorevolezza di un genitore, riusciva comunque a non far sentire Alan inferiore a lei. Lo trattava come un individuo capace di intendere e volere e non come un poppante da comandare a bacchetta o da soffocare con indesiderate e oppressive attenzioni.
    “Lo so, ma sono furiosa. Perché non ti sei difeso?”
    “Non me ne hanno dato modo, stavolta. Altrimenti li avrei fatti neri.” ghignò.
    Gli accarezzò la zazzera così simile alla sua e gli portò alcuni ciuffi più lunghi dietro le orecchie. Si specchiarono nei rispettivi occhi, identici, di un acceso verde bosco, e si abbracciarono ancora.
    “Promettimi che starai lontano da loro.”
    “Promesso.”
    Lei annuì e si staccò da Alan con riluttanza. “Vieni, è pronta la cena. Vuoi essere imboccato?” lo prese in giro.
    “Non mi abbasserò mai ad un tale, degradante livello, madre.” dichiarò solenne e schifato.
    Daisy ridacchiò e lo precedette di sotto, in cucina. Il giovane rimase a fissare la porta per qualche attimo, poi afferrò il cellulare e scrisse un messaggio a Jason, informandolo sull’esito dello scontro domestico.
    La notte che aveva passato da lui era stata costellata da incubi e atroci fitte di dolore ovunque, tanto che non aveva dormito quasi per niente, e l’amico gli aveva fatto da crocerossina per tutto il tempo, mettendolo talvolta anche in imbarazzo. Rievocò la scena in cui si era offerto di accompagnarlo in bagno per espletare i suoi bisogni, insistendo per aiutarlo a calarsi i pantaloni e a prendersi in mano l’uccello. In quel caso lo aveva cacciato fuori a calci, urlandogli che non era un fottuto invalido. Poi si erano coricati vicini e Jason gli si era appiccicato addosso con le ventose, senza mai lasciarlo, sfruttandolo come cuscino e orsacchiotto.
    A dire la verità, il moro si era comportato in maniera strana sin dal viaggio in autobus. Era ammutolito e pareva meno allegro del solito - non che normalmente sprizzasse gioia da tutti i pori, non essendo nella sua indole - come se ci fosse qualcosa che lo turbava. Dapprincipio, aveva supposto che fosse soltanto in ansia per ciò che gli era accaduto, tra pestaggio e ricovero, ma in seguito aveva intuito che doveva esserci qualcosa di più. Non si era dimostrato molto entusiasta quando gli aveva raccontato dell’eroico salvataggio di Raphael, facendolo passare alla stregua di un supereroe in borghese, con l’enfasi e i dettagli romanzati di cui solo un innamorato è capace. Gli era sembrato anzi deluso, per quanto la cosa gli risultasse incomprensibile. Jason esprimeva sempre un sorriso incoraggiante quando spettegolavano come due comari sul biondo bibliotecario, eppure stavolta una nuvola cupa aleggiava sulla sua testa. In un primo momento, aveva pensato di domandargli se ci fosse qualcosa che lo affliggeva, però l’amico, con quel fare sfuggente che esternava in quei casi, non gliene aveva dato modo, sviando l’argomento e la sua attenzione dedicandogli innumerevoli premure. Così, Alan aveva finito per dimenticarsene e archiviare l’inusuale atteggiamento come preoccupazione.
    I due giorni successivi rimase a casa a godere delle cure di Daisy, ma alla fine decise di tornare a scuola per frequentare le ultime lezioni. Furono in molti a chiedergli il motivo delle sue condizioni, ma Alan non si sbottonò più di tanto, elargendo solo risposte vaghe e sorrisi tranquilli. Non venne, inoltre, infastidito da nessuno e Dylan non si fece vedere neanche alla lontana, cosa di cui il ragazzo ringraziò il cielo, perché non nutriva alcuna voglia di mettersi di nuovo a litigare o a fare a botte. Tuttavia, gli ultimi eventi gli avevano insegnato a non abbassare mai la guardia in territorio nemico, i sensi sempre vigili e tesi come se avesse dovuto subire un attacco in qualsiasi frangente. Purtroppo non ebbe la possibilità di andare a trovare Raphael con la scusa di ringraziarlo, poiché sua madre gli aveva proibito categoricamente di farsi passeggiatine a zonzo per la città finché non si fosse completamente rimesso, il che significava circa un mese di astinenza dalla fonte del suo batticuore.
    Gli esami erano ormai alle porte e i momenti in cui poteva far visita a Jason erano, di conseguenza, diminuiti drasticamente, con il dispiacere di entrambi. Ma proprio la sera prima dell’inizio delle prove, Alan riuscì a strappare il permesso a Daisy per andare dall’amico, dal quale avrebbe passato la notte. La donna lo avrebbe accompagnato in macchina e sarebbe tornata a prenderlo verso le nove del mattino, per poi portarlo a scuola per le dieci, ora in cui avrebbe avuto luogo il primo esame.
    Vestito con dei pantaloncini corti a quadrettoni verdi e una maglietta bianca semplice a maniche corte, il braccio ingessato ancora legato con l’apposito tutore intorno al collo, Alan bussò alla porta di Jason. Non passarono che un paio di secondi, poi l’uscio si spalancò e una chioma nera e profumata di shampoo gli piombò addosso con l’impeto di una piccola onda d’urto.
    “Ugh!”
    “Alan!” esclamò con un gridolino eccitato il moretto, elargendogli un sorrisone che avrebbe fatto impallidire il sole.
    “Sì sì, sono qui… ahi! Il braccio…”
    “Oh! Scusa!” Jason fece un salto indietro con le mani a coppa davanti alla bocca. “Non volevo…”
    “Dai, fa niente. Mi fai entrare?”
    “Sì! Vieni!”
    Lo spinse dentro e chiuse la porta con il sedere. Dopodichè, alzandosi sulle punte dei piedi, dato che non vantava un’altezza considerevole - arrivava giusto al metro e sessantacinque, circa dieci centimetri in meno dell’altro - gli cinse il collo e posò dolcemente le labbra sulle sue, forzandolo ad approfondire subito.
    Dio, quanto gli era mancato. Alan era diventato la sua droga preferita e non riusciva a passare troppo tempo senza pretendere un contatto, di qualsiasi genere. In realtà, nella parte più segreta della sua anima, avrebbe desiderato tanto fare l’amore con l’amico, ripetere l’esperienza come già era accaduto tre anni prima. Se la ricordava ancora, quella volta: la magia insita in ogni gesto, in ogni bacio, in ogni gemito o sguardo. Per Jason era stata quella la sua ‘prima volta’ e la conservava con grande nostalgia. Ogni dettaglio era impresso a fuoco nella sua mente, vivido e limpido nella memoria e sul suo corpo, sul quale e nel quale Alan aveva imposto il suo marchio. Ma successivamente non era più avvenuta una comunione così totale, perché il giovane aveva incontrato Raphael. Così ogni cosa era stata accantonata, tutte le soffocanti ed intense emozioni provate durante quell’unica volta etichettate come ‘follia di una sola notte’. Il diciassettenne ricordava perfettamente la sensazione del suo cuore che si spezzava, quando Alan, un giorno uguale a tanti altri, se ne uscì con un: “Sai, oggi mi sono innamorato! Si chiama Raphael Hopkins, sta al banco accettazioni della biblioteca comunale. Vedessi quanto è figo! È stato un colpo di fulmine, non puoi immaginare quanto sia felice, J.J.!”
    E in quell’attimo preciso tutti i suoi sogni di costruire una relazione con il rosso erano svaniti, crollati come un castello di carte. Poteva avvertire ancora il tocco delle sue mani calde sulla pelle rovente e imperlata di sudore, era uno scherzo rievocare le due ore più belle della sua miserevole esistenza, ma ogni volta che si abbandonava e si lasciava trasportare, ogni volta che il suo cervello disattivava le difese e si illanguidiva indugiando in quei piacevoli brividi che lo conducevano all’eccitazione, gli veniva irrimediabilmente da piangere. In quei brevi istanti, l’unica cosa che voleva fare era urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni, urlare fino a che non gli fosse sanguinata la gola, fino a perdere la voce. Riflettendoci a posteriori, aveva compreso che Alan non lo aveva posseduto per amore, ma per pietà nei suoi confronti.
    Ogni minuto di tre anni addietro era stampato in maniera indelebile nel suo animo.
    Da poco era riuscito a trovarsi quel sudicio monolocale, grazie all’aiuto e alla mediazione del più grande, ma gli incubi continuavano a tormentarlo ogni notte, non appena chiudeva gli occhi e le tenebre lo circondavano minacciose. Innumerevoli mani viscide e cattive lo palpavano ovunque, violandolo sia nel corpo che nello spirito, sporcando il suo candore e riducendo a brandelli l’innocenza e l’ingenuità che aveva portato con sé quando era stato cacciato da casa. Era stato stuprato molte volte, prima di incappare miracolosamente nel suo angelo salvatore: tanti, troppi uomini lo avevano preso con sadico e crudele divertimento, senza curarsi di infliggergli dolore, senza riguardi per la sua giovane età.
    Perciò, prostrato dalla sofferenza e dal senso di marcio che covava dentro, quella notte aveva supplicato Alan di restare a dormire con lui, al suo fianco, e il ragazzo probabilmente non se l’era sentita di rifiutare. Jason aveva creduto, si era illuso che anche per l’altro il loro incontro avesse significato qualcosa. Lo aveva pregato di scoparlo, di mondarlo dal sudicio che lo appestava, lo aveva implorato in lacrime, con una disperazione tale da chiedersi se fosse davvero ciò di cui aveva bisogno. E Alan gli aveva sorriso con tristezza, lo aveva abbracciato e baciato con se fosse fatto di cristallo, un fiore delicato dai petali quasi avvizziti che anelava a qualche goccia d’acqua fresca. All’epoca il rosso aveva quindici anni e l’esperienza di un ragazzino imberbe che puzza ancora di latte: Jason si appropriò della sua verginità, donando in cambio il suo cuore su un vassoio d’argento.
    I risolini imbarazzati, le carezze impacciate, i baci incerti e così dolci da far sciogliere una persona che nella sua vita aveva conosciuto soltanto violenza. Tutto assunse una connotazione magica, tutto si trasformò in un universo da sogno, sospeso nel tempo e nello spazio, un paradiso fatto apposta per loro.
    Alan si era fatto guidare, passo dopo passo, e, dopo aver imparato e preso dimestichezza, non aveva esitato a regalare la medesima dose di piacere al più piccolo, il quale si prodigava con zelo a mettere in atto tutte le tecniche che, suo malgrado, la strada gli aveva insegnato. Così, distesi sulla branda cigolante grande a malapena per uno, avevano condiviso emozioni e fluidi, prima di congiungersi in unico essere. Il moro poteva sentire, ancora a distanza di anni, Alan entrare timidamente dentro di lui, forzando i muscoli contratti e facendosi largo nella sua carne con una gentilezza commovente. Per tutta la durata dell’amplesso, il suo viso era stato rigato dalle lacrime, simbolo di gratitudine e amore incondizionato, e il rosso, mentre spingeva lento e cadenzato, gliele aveva asciugate con le labbra morbide, coccolandolo con sorrisi appena accennati e parole di conforto e incoraggiamento. Con il cervello intorpidito, le membra molli e prive di energia e le caviglie intrecciate sulla sua schiena, la sola cosa che vedeva erano i luminosi occhi verdi di quel giovane che aveva assunto il titolo di ‘ancora salvezza’, occhi in quel momento velati dal piacere e dalla lussuria che i ripetuti e istintivi affondi gli procuravano. Quel piacere che Jason stesso gli procurava. E, infine, tutte le fibre del suo essere vennero scosse in modo del tutto improvviso dal primo orgasmo in assoluto mai sperimentato durante il sesso, un trasporto quasi mistico e divino.
    Da allora si era convinto di rappresentare qualcosa di importante per Alan, di essere riuscito a conquistarlo. Si era convinto di appartenergli e che il rosso appartenesse a lui, ma si era sbagliato. E tutto era scivolato via, inesorabilmente, senza alcuna possibilità di tornare indietro.
    “J.J.? Qualcosa non va?” un sussurro pregno di dolcezza gli giunse all’orecchio, il fiato caldo di Alan che accarezzava in un soffio caldo le sue labbra lievemente dischiuse.
    “No… è tutto a posto, tranquillo.” si scostò con un sorriso amaro, che mascherò prontamente girando con disinvoltura la testa, sottraendo alla vista dell’altro il suo volto contratto in una smorfia di dolore, i capelli sufficientemente lunghi da celare ciò che non doveva essere notato. “Ti va il gelato? Ne ho comprato un po’ per combattere questa maledetta afa.”
    “Sì, magnifico! Che gusti hai scelto?” chiese seguendolo in cucina con l’acquolina in bocca. E se avesse avuto orecchie e coda, sarebbe potuto sembrare un cagnolino scodinzolante.
    “Crema e nocciola.”
    “A te il cioccolato fa davvero schifo, eh?”
    “Senti, non mi piace e basta.”
    “Sei l’unico in tutto il globo terrestre, credo, a cui non piace il cioccolato! È il nettare degli dei, non capisci?”
    “Sì sì, ora siediti che ti servo.”
    “Sei un enigma.”
    “E piantala! Accontentati della nocciola.”
    “Mh.”
    Mise il gelato in due tazze, dato che non disponeva di meglio, e prese due cucchiai dal cassetto accanto al frigo. Poi ne porse una ad Alan, che la appoggiò sul tavolo coperto con una tovaglia piena di bruciature e macchie di sugo incrostato e chissà cos’altro e cominciò ad abbuffarsi come un maiale. Jason sbuffò divertito e scosse leggermente il capo, imitandolo con più eleganza.
    “Beh… novità?” gli domandò il rosso con la bocca piena.
    “Sei un troglodita.”
    “Questa non è una novità.”
    “Humpf! Comunque, nulla di nuovo.”
    “Lavoro?”
    “Al solito.”
    “Charlie?”
    Il moro restò in silenzio, lo sguardo basso sul gelato che si stava sciogliendo. Alan si fermò col cucchiaio a mezz’aria e fissò l’amico con un’espressione intraducibile.
    “E’ successo qualcosa?”
    “No…” mormorò assorto. “No.” reiterò con più convinzione, sebbene, dagli occhi sfuggenti e dall’angolo sinistro della bocca appena piegato all’insù, il maggiore comprese immediatamente che stava mentendo.
    Sospirò e lasciò la posata nella tazza. Si abbandonò sullo schienale della sedia e lo scrutò con freddezza. “Spogliati.” ordinò senza fronzoli.
    Jason boccheggiò sgomento e rischiò pure di soffocarsi col gelato, ma poi deglutì a fatica e osservò stralunato il suo ospite. “Eh?” fece, sicuro di non aver capito bene.
    “Spogliati. Qui e ora. Per te non dovrebbe essere un problema, giusto? D’altronde ti ho già visto nudo una marea di volte, non ci sarebbe nulla di strano.”
    Jason impallidì e gli diede le spalle, riponendo la tazza sporca nell’acquaio. “Non mi va. Sto bene così.”
    “Fa caldo, stai sudando. Coraggio, levati la maglietta.” insistette con lo stesso timbro quasi privo di inflessione.
    “Al, non preoccuparti, davvero, io…”
    “Devo alzarmi e strappartela a morsi?” grugnì, irritato per la reticenza del più piccolo.
    “Al, ti prego…” si lamentò in risposta, incassando la testa nelle spalle.
    Alan, con uno scatto felino, gli si fece addosso e con la mano libera gli sollevò il retro della maglia.
    Questi sono una novità, J.J.” scandì digrignando i denti, mentre gli occhi si riducevano a due fessure taglienti come lame.
    Sulla pelle nivea e liscia come la seta spiccavano una caterva di lividi violacei, alcuni di essi parevano impronte di dita. Vi erano anche dei graffi, alcuni già cicatrizzati, altri ancora rossi, segno che erano recenti. Jason sussultò e si voltò di scatto, coprendosi di nuovo.
    “Che fai?!” lo aggredì con voce tremante. “Non ti ho dato il permesso!”
    Il diciottenne, in un impeto di rabbia, sbatté un pugno contro la credenza, a pochi centimetri dall’orecchio del moro. “Dimmi perché. Spiegami, cristo! Perché non gli dici di no?!”
    “Smettila. Ogni volta mi fai gli stessi discorsi, stai diventando noioso.” replicò con stentata fermezza.
    “Ti faccio gli stessi discorsi, razza di idiota, perché puntualmente ricadi negli stessi errori!”
    “E chi ti dice che a me dispiaccia?”
    Alan sbarrò gli occhi e lo squadrò allibito e sconvolto. “Cosa?”
    “Se non gli dico mai di no, ci sarà un motivo. Ci hai mai pensato?”
    “Ma se ti scopro sempre a piangere come un poppante!”
    “Forse sono masochista.” dichiarò con una disinteressata alzata di spalle.
    “A questo punto, mi sa proprio di sì.”
    Jason serrò le palpebre, ferito e sofferente come se lo avessero infilzato con un coltello, ma non obiettò. Trattenne le lacrime e chiuse i pugni.
    L’altro fece un respiro profondo e tentò di calmarsi. Non voleva litigare, ma quel ragazzino dall’apparenza fragile lo mandava fuori dai gangheri quando si comportava così. Inoltre, il suo proseguire imperterrito a non reagire e a mostrarsi debole lo facevano infuriare e gettare alle ortiche l’autocontrollo.
    “J.J., ascoltami…”
    “No, ascoltami tu adesso. Io ti sono debitore per tutto quello che hai fatto in passato e continui a fare tuttora per me, ma questa è la mia vita e decido io come viverla, finissi anche a drogarmi o battere la strada. Posso fare quello che voglio e se mi va di farmi scopare da Charlie, lo faccio e basta, senza rendere conto a nessuno, tanto meno a te. Non sei mia madre, mio padre, mio fratello o un altro cazzo di membro della mia famiglia. Sei mio amico, ma pur sempre un estraneo. Voglio farmi montare da un sadico violento? Lo faccio. Fine della storia.”
    Lo schiaffo arrivò fulmineo e inaspettato. La guancia di Jason iniziò a bruciare, le lacrime incastrate tra le ciglia e il corpo completamente immobile, paralizzato.
    “E’ vero. Io non sono nessuno per dirti quello che devi fare, la vita è tua e Dio ti ha donato la facoltà di scegliere come rovinartela. Prego, vai allora. Torna a strisciare nel fango e nella sporcizia, là dove ti ho trovato.” sibilò con cattiveria. “E se vuoi che sparisca, non hai che da dirlo a chiare lettere.”
    “Non… non intendevo questo, io…” soffiò il giovane con la morte nel cuore, pentendosi delle parole aspre, dettate soltanto dal perenne e schiacciante senso di impotenza che provava da sempre, che aveva rivolto al suo migliore amico.
    “Invece mi sei sembrato, forse per la prima volta, molto determinato. Strano che tu abbia tirato fuori questa parte di te in mia presenza. Mi viene da pensare che in realtà tu abbia sempre desiderato me fuori dai coglioni.”
    “No, Al…” puntò finalmente i suoi limpidi e acquosi occhi azzurri in quelli di Alan, ma si scontrò con un muro di astio invalicabile.
    “Troppo tardi. Se ti è venuto così spontaneo attaccarmi, significa che stavi covando un grande malessere da molto tempo, solo che, a causa della gratitudine che provi nei miei confronti, non hai mai avuto le palle per confessarmelo e dirmelo in faccia. Ora ho capito, non c’è bisogno di ritrattare per indorarmi la pillola.” si allontanò bruscamente dopo avergli lanciato un’occhiata colma di disprezzo, raccolse il suo zaino e uscì dall’appartamento senza voltarsi indietro.
    Jason si sentì all’improvviso svuotato, sgonfio come un palloncino.
    Cosa aveva fatto?
    Si accasciò lentamente, senza forze sul pavimento, il viso pallido e stravolto. Tirò le ginocchia al petto, un inspiegabile gelo si stava impadronendo delle sue ossa, e le lacrime ruppero gli argini, riversandosi copiose sulla pelle e sul tessuto dei pantaloni di cotone. Cominciò a dondolare su se stesso, il cervello in tilt e i pensieri confusi, in preda al caos e alla disperazione. Era un incubo. Magari, se si fosse svegliato, avrebbe scoperto che non era successo nulla e tutto era come prima, identico e rassicurante. Prese a tremare e a singhiozzare, conscio che la colpa era solo sua. Se non fosse mai venuto al mondo, Alan non si sarebbe fatto carico dei suoi crucci e della sua problematica esistenza. Era un essere inutile, che non sapeva reggersi in piedi sulle proprie gambe, dipendente dagli altri e immaturo. Ora che aveva perduto il suo sole, la sua unica fonte di felicità, tutto si era fatto grigio, freddo, spaventoso. Aveva paura, non voleva più muoversi o cercare di alzarsi.
    Si dette dello stupido, dell’ingrato per aver rifiutato la sola persona che avesse mai tenuto veramente a lui. E ora era solo.
    Il bussare della porta lo risvegliò dal vortice negativo che lo aveva preso in ostaggio e, credendo che Alan fosse tornato sui suoi passi per riappacificarsi, un immenso sollievo lo pervase come una scarica elettrica, rinvigorendo i muscoli e riaccendendo il suo sguardo di speranza. Si precipitò ad aprire con il cuore in gola, ma la visita non si rivelò essere quella tanto desiderata.
    “Ciao, piccolo.” lo salutò Charlie con un ghigno.
    Il sangue gli defluì dal volto e il corpo si fece pesante come un macigno.
    “Perché piangi?” chiese il nuovo arrivato con sincera curiosità.
    Entrò in casa senza attendere l’invito e chiuse la porta con un calcio. Jason non disse niente, pareva un fantasma. Charlie gli si avvicinò e lo abbracciò stretto, anche se il suo gesto non trasmise al giovane il calore che immaginava. A rifletterci bene, non aveva mai provato brividi di piacere con quello che definiva ‘il suo ragazzo’, era sempre stato tutto molto asettico. Soprattutto adesso che si sentiva un guscio vuoto, privo di emozioni di alcun genere.
    “Vieni, ti consolo io. Un bel visino come il tuo non deve apparire così, a meno che non ne sia il sottoscritto l’autore.”
    Charlie, ventiquattro anni, corriere presso un’azienda di esportazioni, era il classico cattivo ragazzo, impressione che veniva accentuata dalla sua aria da sbruffone e dai piercing che gli ricoprivano entrambe le orecchie, il labbro inferiore e il sopracciglio destro. Portava i capelli neri a spazzola, sempre imprigionati dal gel, la sigaretta in bocca e il giubbotto di pelle nera. Jason non lo aveva mai visto diverso da come era in quel momento e spesso fantasticava che andasse a dormire esattamente come si era svegliato o che fosse uscito dal grembo di sua madre già adulto e con quel particolare aspetto. A dire il vero, non era al corrente del passato di lui, né di qualunque altro dettaglio della sua vita a parte quattro informazioni in croce. Charlie non amava parlare di sé e, se poteva, evitava di farlo. La sua pelle era costellata di tatuaggi, per lo più nascosti dai vestiti, ma il giovane conosceva a memoria la posizione di ognuno di essi, ormai. Come anche sapeva che cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
    Charlie gli artigliò la nuca e gli torse la testa indietro, così da poter affondare subito la lingua in quell’antro caldo e umido che lo eccitava ogni volta come se fosse la prima. Lo divorò per incalcolabili minuti, poi lo fece camminare fino al letto, facendolo sbilanciare per metterlo seduto. Rimase in piedi e gli passò con delicatezza un palmo tra i fili corvini, lisci come la seta, giocando con alcune ciocche, mentre Jason gli sbottonava i pantaloni. Gli prese in mano l’erezione e la ingolfò senza esitare, docilmente, il medesimo teatrino che si ripeteva come il giorno precedente e quello prima ancora, fino ad arrivare a due anni or sono. Iniziò a muovere la testa e a far scorrere sapientemente la lingua sull’asta, il cervello spento, il suo essere ridotto a un robot, una bambola dotata di vita propria. Presto il maggiore gli venne incontro col bacino, intimandogli implicitamente di aumentare il ritmo, finché non si riversò con un rantolo compiaciuto nella sua gola. Un rivolo di seme fuoriuscì dalle labbra di Jason e Charlie si chinò a raccoglierlo con le sue, coinvolgendo l’altro in un ulteriore scambio di saliva e sapori.
    Jason non si schifò, ormai abituato, e subì passivo le voglie del più grande, assecondandolo privo di slancio, senza opporsi. Charlie lo spogliò e, bruscamente, lo mise prono, a quattro zampe con la faccia affondata nel cuscino. Aderì con il petto nudo alla sua schiena e morse il collo sottile con gusto, assaporando i gemiti di dolore soffocati che emetteva il suo bellissimo cucciolo.
    “Vedrai, ti farò dimenticare il motivo che ti ha fatto piangere dianzi. Lo sostituirò con un altro tipo di sofferenza, così ti sentirai meglio.” gli sussurrò lascivo a poca distanza dall’orecchio.
    Lo graffiò senza preavviso sulle costole, provocandogli delle fitte lancinanti che lo fecero gridare. Ma, in fondo, Jason gli era grato. In un modo perverso, discutibile, malato, ma gli era grato. Probabilmente era sul serio un masochista.
    Nei minuti seguenti venne morso e ferito una quantità infinita di volte, il piacere solo un miraggio lontano e irraggiungibile. Con Charlie era sempre stato così: se era ben predisposto e di buon umore, alla fine dell’amplesso ti concedeva l’orgasmo, altrimenti ti lasciava alla stregua di un giocattolo rotto sulle coltri sporche di sangue e sperma e se ne andava senza voltarsi, dopo aver soddisfatto e placato gli ormoni.
    Gli aprì le natiche e sputò sull’apertura del ragazzino, spandendo poi con le dita la saliva viscosa sui bordi e penetrandolo in maniera rozza con esse, facendole sforbiciare all’interno per allargare il canale nel quale entro pochi secondi avrebbe infilato la rinnovata erezione. Jason non capiva più niente, la vista gli si era offuscata da un po’ e non sapeva se pregare affinché quella tortura terminasse in fretta o continuasse in eterno, impedendogli di rievocare la faccia di Alan.
    Charlie spinse il glande sull’anello di muscoli contratti e in tensione e infine entrò con un brusco colpo di reni, dandogli l’orribile e nauseante sensazione di essere spaccato in due.
    “Ahh… dimmi che mi ami…” sospirò in estasi, intraprendendo il familiare movimento di bacino senza aspettare che l’altro si abituasse.
    Jason non emise alcun suono, si morse la lingua e chiuse gli occhi, artigliando il cuscino con le energie che aveva risparmiato per quel momento.
    “Dimmelo…”
    Altre stilettate di dolore vennero inflitte in profondità e al piccolo si mozzò il fiato.
    “Perché non gemi? Perché non urli?”
    Charlie gli afferrò i capelli e li tirò verso di lui con uno strattone, circondandogli i fianchi con l’altro braccio.
    “Cosa c’è? Non ti piace?” ansimò sul suo collo.
    Jason, come se si trovasse in un sogno dalle tinte grottesche e surreali, fissò assente le macchie di sangue sul lenzuolo, domandandosi distrattamente a chi appartenessero.
    Gli affondi aumentarono di velocità e il dolore divenne sordo, ovattato, estraneo, così anche i rumori intorno a lui. Percepiva a malapena il pene del compagno scavare nella sua carne, tutto il resto era un pulsare perpetuo misto a fastidioso pizzicore.
    “Perché non rispondi, cucciolo? Perché non mi dici che mi ami? Perché non lo sussurri con la tua voce oscena ed eccitante da cagna in calore come fai di solito?” uscì di scatto e lo girò supino, sollevandogli le ginocchia e poggiandosele sulle spalle larghe e toniche. Lo penetrò ancora, scivolando con facilità fino alla base.
    “Cosa c’è, mh? Me lo vuoi dire? O forse non mi ami più? È questo che devo pensare?”
    Come una tenaglia, andò a stringergli con una mano la mascella. Jason esalò un gemito e un singhiozzo, ma non si arrese alle minacce del più grande.
    “Ti sei innamorato di un altro? Di chi, eh?” spinse con ferocia e finalmente il primo grido rotolò fuori dalle labbra martoriate e screpolate del diciassettenne. “Non sarà mica Bob, il tuo amichetto cameriere? Oppure Johnny, il tuo vicino tossico? Quel tipo ti sta facendo il filo, gli piaci proprio tanto, mi sa. Te la fai con lui a mia insaputa?”
    Introdusse il pollice nella bocca di Jason e cercò la sua lingua per farglielo leccare.
    “O forse vi drogate insieme e poi ve la spassate?” aggiunse ridacchiando. “No… no, non credo che sia lui…” tornò serio e si fermò totalmente, studiando il viso congestionato dal pianto del giovane. “Sei così fragile… e sei mio. Mio e di nessun altro. Dimmi chi è, così lo ammazzo. Vediamo…” bisbigliò, corrugando la fronte. Si illuminò dopo una manciata di istanti, quasi avesse avuto una rivelazione. “Il rosso! L’ho visto gironzolare spesso qui attorno, non è che ti fai scopare sotto il mio naso da quella femminuccia?”
    “Basta…” rantolò Jason, scacciandogli la mano che nel frattempo era scesa a stringergli il collo con l’intento di strozzarlo.
    Non voleva ricordare Alan, non in una situazione simile. Sperava di accantonare la questione per il tempo che Charlie si fosse divertito a seviziarlo, ma se lui stesso tirava fuori l’argomento, non ci stava più.
    “E’ lui! Ah ah ah! Avevo ragione, dunque.” ghignò sadico e ricominciò a penetrarlo con stoccate secche e potenti, atte solo a fare del male. “Schifosa troietta! Il gene della puttana ce l’hai nel sangue!”
    “Basta, Charlie, vattene!!!”
    La porta dell’appartamento venne scardinata e si spalancò con un boato, rivelando la figura affannata di Alan. Questi, davanti allo spettacolo raccapricciante che gli si parò davanti, lì per lì fu preda di un conato, tuttavia la rabbia annientò presto qualunque malessere fisico, compreso quello alla spalla sana e aveva usato per sfondare l’uscio. Fortuna che la serratura faceva pena, altrimenti si sarebbe rotto pure quella e avrebbe dovuto mangiare con i piedi.
    “Toh! Si parla del diavolo…” esclamò beffardo Charlie, sfilandosi dal corpo bistrattato di Jason.
    Alan fu rapido. Raggiunse con un paio di leste falcate il cassetto della cucina dove sapeva essere riposti i coltelli, ne impugnò uno e si voltò, puntandolo dritto contro il ventiquattrenne, ancora nudo ed eccitato.
    “Cosa vuoi fare, stronzetto? Mollalo subito o sarà peggio per te.”
    “Non ho paura di te. Ora ti vesti e te ne vai.”
    “Oh oh! Chi sei, il principe azzurro? Il cavalier servente? Non hai il diritto di darmi ordini. E adesso sparisci, io e il cucciolo non abbiamo ancora finito.”
    “Sparisci te, invece! Io sono il suo nuovo fidanzato, non sei più gradito, Charlie.”
    Charlie fronteggiò un Jason terrorizzato e lo fulminò con un’occhiata omicida. “Brutta zoccola! Ti sei fatto montare da questo sfigato alle mie spalle?!”
    L’estremità del coltello accarezzò il tatuaggio di un teschio sulla sua scapola sinistra.
    “Io sono quello armato, qui. Ho letteralmente il coltello dalla parte del manico. Non dovresti sottovalutarmi.” disse Alan in tono piatto, facendo pressione con la lama. “Vattene. Ora soltanto il sottoscritto può scoparsi il cucciolo. Non devi farti più vedere, hai inteso?”
    L’interpellato ringhiò inviperito, ma fu costretto ad obbedire, non voleva certo farsi tagliuzzare per una puttanella.
    “Non finisce qui. Non credere di passarla liscia.” lo intimidì, mentre raccoglieva gli abiti e si rivestiva alla svelta.
    Un minuto più tardi si era defilato con uno sbuffo seccato e Alan collassò a terra, svenuto, prima di rendersene conto. Rinvenne circa un’ora dopo, grazie ad uno straccio intriso d’acqua che Jason gli gettò in faccia, disperato e con i nervi al limite. Tossì, guardandosi attorno confuso. La testa gli vorticava come se gli stessero facendo la centrifuga.
    “Alan! Alan… Alan!”
    Quei richiami lamentosi non potevano che appartenere all’amico. Mise a fuoco l’ambiente e si avvide di essere disteso supino sul pavimento davanti all’ingresso. Come ci era arrivato lì? Ricordava il litigio, ricordava di essersene andato e poi… ah, sì. A metà strada, avvilito per quanto successo, aveva deciso di tornare per chiarire e chiedere scusa, quando a un tratto aveva udito la voce di Jason gridare. Aveva così fatto irruzione nel monolocale e aveva beccato Charlie a violentare il ragazzino. Nella sua mente scorsero veloci le immagini di un coltello, il baluginare della lama, l’adrenalina e il buio.
    “Charlie…” bofonchiò con la bocca impastata.
    “Se n’è andato.” rispose il moro con voce strozzata, in ginocchio lì accanto.
    “Ahh, menomale.” sospirò sollevato.
    Jason pianse, il corpo fin troppo magro e minuto scosso dai singhiozzi, ancora nudo e tremante.
    “Hey… dai, è andata bene.” lo consolò il rosso, tentando di mettersi a sedere e combattere al contempo le vertigini.
    L’altro si piegò su se stesso e buttò fuori tutta l’angoscia accumulata in quelle ore con un urlo liberatorio.
    “J.J.! Cazzo, J.J., mi farai venire un infarto! Piano… buono, sta’ tranquillo.” lo abbracciò e gli baciò teneramente la fronte sudata. “E’ tutto a posto. Ci sono io.”
    Lo coccolò a lungo, anche quando la stanchezza lo sopraffece, ma non cedette. Lo convinse ad alzarsi e a farsi un bagno, nel frattempo che lui si adoperava a cambiare le lenzuola e a gettare quelle sudice nel cesto da portare in lavanderia. Lo aiutò a lavarsi e gli cosparse il viso di un pallore cadaverico con numerosi baci, rimandando all’indomani ogni discorso. Lo stupro non era un argomento nuovo, per lui, avendone spesso sentito parlare in televisione, però assistervi dal vivo era diverso, agghiacciante. Pur essendo consapevole che Jason aveva subito una crudeltà simile molte volte, mai si era soffermato più di tanto a rimuginarci sopra o a immaginare come andassero effettivamente le cose. Tutto rimaneva segregato dietro una porta blindata, un’orribile dimensione alternativa che si ritiene assurdo che possa coinvolgerci in prima persona. Invece, Alan era stato testimone oculare di quell’atrocità e ora che gli era stata sbattuta brutalmente in faccia la realtà, il disgusto, l’incomprensione e l’odio serpeggiavano in lui senza sosta, avvelenandogli l’anima.
    Come poteva Jason sopportare quell’ignominiosa tortura fisica e psicologica quasi tutti i giorni? Come poteva sopportarlo e il dì successivo sfoggiare il sorriso spensierato che spesso gli aveva visto dipinto sulle labbra?
    Forse non era così debole.
    Forse, al contrario, era più forte di quanto pensava.
    Non aveva mai capito niente, giudicando dall’alto del suo piedistallo le azioni di Jason, puntandogli contro il dito, accusandolo di codardia e trattandolo come un bambino sciocco privo di spina dorsale. Aveva sbagliato tutto, sin dal principio.
    Solo adesso aveva aperto gli occhi, ma gli errori commessi non potevano venire cancellati. Si sentiva un infame.
    “Al…?”
    Un pigolio incerto provenne dalla soglia del bagno e un Jason avvolto in un morbido asciugamano bianco fece capolino. I capelli umidi gocciolavano e alcune ciocche scure si erano appiccicate sul collo segnato dai lividi. Il cuore del rosso si contrasse in uno spasmo doloroso, ma si costrinse a non mostrarsi turbato.
    “Hai finito? Vieni qui, sono esausto.” lo invitò e l’altro non si fece attendere, correndo a sdraiarsi di fianco al maggiore.
    Alan ebbe una sorta di dejà-vu, quando Jason gli si abbarbicò addosso stile koala. Sorrise triste e lo baciò di sua iniziativa, lentamente, senza secondi fini. Il moretto versò ancora qualche lacrima, però non si sottrasse a quei tocchi gentili, bisognoso di affetto e calore umano.
    “Grazie, Al.”
    “Non devi ringraziarmi. Se non mi fossi comportato da idiota…”
    “No, non è colpa tua!”
    “Scusami, J.J., scusami davvero. Potrai mai perdonarmi?” lo strinse forte tra le braccia, inalando a pieni polmoni il profumo di shampoo.
    “Non hai fatto niente per cui tu debba scusarti. Anzi, mi hai salvato. Tu mi salvi sempre. Sei il mio eroe.”
    “Non sono un eroe, non mi merito tale titolo. Non c’è persona meno indicata di me per ricoprire questo ruolo.”
    “Non è vero. Tu sei il mio tutto. Sei la mia vita, il mio presente e il mio futuro. Ti amo così tanto che non riesco a respirare. Sto scoppiando dalla felicità.” lo scrutò con occhi lucidi e limpidi come il cristallo, cercando di trasmettergli i suoi veri sentimenti.
    “J.J….” sussurrò Alan incredulo, incapace di assimilare il messaggio che l’amico gli stava mandando. “Io…”
    “Io posso essere tuo, Al. Oggi… hai cacciato Charlie spacciandoti per il mio ragazzo. Quando hai pronunciato quelle parole, malgrado la situazione, il mio cuore ha palpitato di gioia. Lo so che era solo una scusa per farlo togliere dai piedi, ma… mi chiedo se… ecco… anche nella realtà ti andrebbe di…” arrossì per l’emozione e distolse lo sguardo.
    “Jason, aspetta. Oddio… fammi metabolizzare.”
    “Quello che intendo è-”
    “Ho capito, J.J. Ma… io sono innamorato di Raphael. E se mi mettessi con te ora, non sarebbe giusto nei tuoi riguardi, sarebbe come illuderti e finiremmo per rovinare tutto. Non voglio perderti…”
    “Non vuoi nemmeno fare un tentativo? Non ti piaccio abbastanza? È per il mio passato, vero? È per quello che hai visto poco fa, vero? Non riesci a vedermi come ti vedo io… e non ci riuscirai mai…” la sua voce si infranse e il silenzio calò sui due.
    “Mi dispiace.” mormorò costernato Alan dopo un po’. “Mi dispiace. Non sarebbe onesto. Sarebbe falso… Io ti amo, ma non nel tuo stesso modo. E me n’ero già accorto, eppure mi sono ostinato a negare l’evidenza, a rifiutare di prendere in considerazione la questione, affrontarla e scovare una soluzione. Ho preferito fingere di essere cieco, per non alterare l’equilibrio. Perdonami, sono uno stronzo.”
    “Non ti preoccupare… sopravviverò.”
    “Ma, J.J., magari ciò che provi per me non è amore. Mi sei grato per un sacco di ragioni e ti sei affezionato perché sono stato l’unico a porgerti la mano in un momento in cui stavi colando a picco. Però questo potrebbe non essere l’amore di cui parli. Magari è solo affetto fraterno, che stai confondendo con qualcos’altro.”
    Se gli avessero strappato il cuore a mani nude, Jason avrebbe sofferto molto meno. Inghiottì il groppo che gli si era formato in gola e impose alla sua voce di non tremare.
    “Già… forse è come dici tu.”
    No, non è affatto così. Ma va bene, ho avuto la risposta definitiva. Non devo più lottare, non sarà mai mio. Dovrei sentirmi sollevato, mi sono tolto un peso dalle spalle, allora per quale motivo invece desidero morire in questo preciso istante? Morire, scomparire, svanire nel nulla, sprofondare in un luogo dove non possa percepire più niente. Un luogo che riesca ad annientarmi completamente.
    Ti odio, Alan. Ti odio perché mi ferisci con una semplicità e un candore spiazzanti, perché sminuisci i miei sentimenti e li prendi alla leggera, perché mi tratti come uno stupido ingenuo, perché non ti sei mai accorto veramente di me. Ti odio perché sei capace di innalzarmi verso le stelle e catapultarmi all’inferno con un solo gesto, una sola parola, un solo sguardo. Ti odio perché ti sei appropriato di me senza chiedermi il permesso e del tutto inconsapevolmente. Ti odio perché mi hai rifiutato e per tante altre cose, la lista è molto lunga.
    E ti amo, perché sei tu.
    Questo non cambierà mai, è una promessa.

    “Buonanotte, Al.”
    L’oscurità che tanto temeva ora la avvertiva soffice e calda, una coperta che poteva proteggerlo dalle brutture che abitavano la luce. Jason realizzò di non dover più fuggire da essa, che era sua amica, una madre su cui poter contare e a cui affidare il suo spirito per farlo riposare. Sarebbe arrivato il tempo per leccarsi le ferite, per avere rimpianti, per sentirsi in colpa, per deprimersi sul passato, ma non era quello. Adesso aveva Alan accanto a sé, il suo corpo aderente al suo, la sua presenza rassicurante, e voleva godersela finché poteva, così da serbarne il ricordo qualora se ne fosse andato a vivere i suoi sogni, com’era giusto che fosse.
    E se lo sarebbe fatto bastare.
     
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  11. Lady1990
     
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    Le note ipnotiche di “Sweet dreams” riecheggiavano per tutto il locale grazie alle potenti casse poste sotto al palco, sul quale tre ragazzi si divertivano ad ammiccare al folto ed estasiato pubblico femminile, muovendosi sensualmente e spogliandosi pian piano a vicenda degli abiti da scena. Stavolta impersonavano degli aitanti pompieri e i gridolini eccitati che giungevano senza sosta dalla platea stavano ad indicare che lo spettacolo era più che apprezzato.
    Volarono i pantaloni, e le risate miste a urletti aumentarono di intensità allorché i ballerini restarono in mutande. I toraci nudi e scolpiti venivano accarezzati dalle luci soffuse dei riflettori, accentuando la lucentezza della pelle ricoperta da un unguento oleoso per far risaltare le forme definite dei pettorali e degli addominali. Le gambe toniche, anch’esse scoperte, lasciavano intravedere i muscoli guizzanti e, non appena gli spogliarellisti diedero le spalle agli spettatori, la visione delle natiche sode perfettamente fasciate dalla stoffa aderente dei boxer provocò una scrosciata di applausi e il lancio di una notevole quantità di banconote. Poi, quando i vanitosi e compiaciuti attori fecero sparire anche l’ultimo pezzo, ci fu chi svenne e chi sollevò il bicchiere del drink per un brindisi.
    Harvey, Gil e Pablo, un infiltrato speciale per il numero della serata, fuggirono nei camerini per indossare subito un paio di semplici pantaloni neri e tornarono infine sul palco per inchinarsi e salutare il pubblico, dato che entro un’ora il Maiden’s Blossom avrebbe chiuso fino al prossimo tramonto. I tre colleghi si presero per mano e ringraziarono con ampi sorrisi il branco di femmine arrapate che quella notte avevano fruttato un bel po’ di verdoni, e poiché erano stati messi al corrente che da qualche parte, in sala, vi era un piccolo gruppetto di oche che festeggiavano l’addio al nubilato di una loro amica, dal microfono che prontamente un tecnico fornì loro chiesero chi fosse la “sfortunata principessa che, per un’idiozia come il matrimonio, aveva scelto di negarsi il paradiso”. Una decina di mani si alzarono dopo due secondi da un tavolo sulla destra e tutte indicarono una donna bionda piuttosto avvenente, sulla trentina, che sventolava mo’ di saluto, probabilmente ubriaca, un enorme dildo di silicone.
    Harvey e compagni scesero dal palco e le si avvicinarono porgendole le congratulazioni di rito e baciandola a turno sulla bocca. Il pubblico si abbandonò ad una risata generale e applaudì ancora. I ballerini augurarono a tutti la buonanotte e scomparvero dietro le tende nere del sipario. Si stavano dirigendo con aria baldanzosa e soddisfatta verso le docce, quando Harvey si arrestò assumendo un’espressione stranita. Gil lo guardò con aria da pesce lesso, ma l’altro girò i tacchi e tornò indietro senza dare spiegazioni.
    Arrivò in sala e si accostò al bancone del bar, dove le ultime avventrici stavano consumando in fretta la loro bevuta.
    “Hey, Greg!” chiamò il barista accompagnando la voce con un gesto del braccio e quello gli si fece incontro.
    “Harvey, cosa posso offrirti?” gli chiese con un sorriso stanco ma gioviale.
    Greg era un bell’uomo sulla quarantina, alto quanto Harvey e ben piazzato, ma da mesi ormai si ostinava a tenere un orribile pizzetto sul mento che gli rovinava l’ovale del viso facendolo sembrare più vecchio, almeno secondo il parere critico del giovane.
    “E’ lui?” bisbigliò direttamente nel suo orecchio, accennandogli con il capo nella direzione di un cliente dall’aria ricca e distinta.
    “Sì” annuì Greg con complicità, ghignando sornione. “Beh, dai, non è affatto male.”
    “Zitto, Greg, tu sei fidanzato. Cosa penserebbe il tuo Joey, se gli dicessi che fai pensieri sconci su qualcun altro?”
    “Non può mica impedirmi di guardare! E poi non è così geloso, sa che gli sono fedele.”
    Harvey lo guardò in maniera eloquente dal sotto in su e il barista scosse la testa borbottando: “Acqua in bocca.”
    Il ballerino ridacchiò e gli assestò una pacca amichevole sulla spalla, per poi tornare a concentrarsi sul tizio che stava sorseggiando assorto il suo drink.
    “Vuoi farti avanti?”
    “Non lo so. Insomma, un tipo che ti regala un mazzo di fiori ad ogni spettacolo… ah, potrei anche farci un pensierino, ma partirebbe da sotto lo zero, dato che ha osato trattarmi come una donna.”
    “Sotto zero?”
    “Sì, sai: ad ogni mazzo, dieci punti in meno. È a -60.”
    Greg fischiò meravigliato, ma una punta di dispiacere gli oscurò gli occhi neri. “Magari, se gli fai presente che la cosa non ti aggrada, smetterà. Non condannarlo a priori.”
    “Fiori, Greg. Fiori! Non sono un’attrice d’Opera, sono uno spogliarellista. Cosa diavolo gli è saltato in mente?”
    “Perché non vai a chiederglielo? Il drink è appena a metà, hai ancora tempo.”
    Harvey incrociò le braccia sul petto e fece una smorfia irritata. “L’avevo già notato durante lo spettacolo, ma a causa del buio non immaginavo che potesse essere lui. Perlomeno, stando alla descrizione alquanto approssimativa che mi hai fornito l’altra volta.”
    “E allora lascialo stare. Se vuoi, posso intercedere io per te e intimargli di piantarla.”
    “No, non sono una fanciulla indifesa che ha bisogno del protetto-”
    Greg ridacchiò trionfante, mentre si teneva le mani impegnate asciugando alcuni bicchieri con uno strofinaccio.
    “Va bene, hai vinto: vado.”
    “L’orgoglio è una brutta bestia, tesoro. Vedi di non dimenticarlo.”
    “Ti ringrazio per la perla di saggezza non richiesta e puoi anche andare a farti un giro, me la cavo da solo.”
    Il più grande si fece serio. “Sei sicuro? Non vuoi che rimanga a controllare la situazione? Forse è un maniaco psicopatico.”
    “Prima mi incoraggi e poi mi metti in guardia?” lo salutò con un’occhiata scocciata e andò ad affrontare il suo non più misterioso spasimante.

    “Signor King, sono arrivati i fascicoli della proposta di Lorrington da Londra.”
    La voce mettallica della sua segretaria gli perforò i timpani attraverso l’altoparlante del telefono sulla scrivania. Fino a pochi istanti prima, se ne stava riverso sulla poltrona di pelle nera imbottita rivolto verso la grande vetrata, che dava direttamente sul panorama di grattaceli lucenti come specchi e strade trafficate. Aveva trascorso l’ennesima nottata in bianco e le occhiaie cominciava a farsi violacee e più marcate. A poco erano serviti i sonniferi o le tazze di camomilla, la sua mente lavorava a pieno ritmo e vorticava incessantemente attorno ad un unico fulcro, come attratto da una calamita. Osservava con aria vacua e assente il formicaio lungo i marciapiedi, il continuo andare e venire della gente come api impazzite, paragonandolo per contrasto alla flemma calma e al contempo viva di un ballerino. Da quando lo aveva scorto fortuitamente la prima volta, non riusciva a levarselo dai pensieri. Emanava forza virile, fascino conturbante e sesso, una miscela ammaliante e intossicante per chiunque, figuriamoci per lui che di relazioni era a secco da anni, senza contare i due sporadici incontri con il suo unico ex mesi addietro. Così, fantasticava su quel bellissimo ragazzo dai lineamenti e dal portamento felino, immaginandoselo in tutte le situazioni e pose che la sua mente si divertiva a proporgli. Si era ritrovato presto a doversi allentare il nodo della cravatta, ma poi quel timbro vocale stridulo dal telefono lo aveva riportato coi piedi per terra, distruggendo il suo sogno popolato da sorrisi sensuali e sguardi di fuoco.
    Premette un pulsante e si protese verso l’apparecchio. “Perfetto, portameli appena puoi.”
    “Anche subito, signor King.”
    “Ottimo.”
    Si massaggiò l’attaccatura del naso e sospirò. Non poteva andare avanti in quel modo, altrimenti il suo lavoro ne avrebbe risentito. Del resto, era l’amministratore delegato posto a capo della sede americana della famosa Microsoft Corporation, nello stato di Washington, e non un impiegato qualunque. I suoi compiti erano numerosi e complessi e spesso gli toccava fare gli straordinari. Quindi, già le ore che aveva a disposizione per dormire erano esigue, in più ci si metteva pure l’insonnia per colpa di dannati sogni erotici a rovinargli la salute. Doveva trovare una soluzione al più presto.
    Qualcuno bussò discretamente alla porta del suo ufficio e la segretaria, senza attendere il permesso, avanzò verso di lui in equilibrio perfetto sui tacchi a spillo.
    “Ecco qui, signor King. Li legga e poi apponga la sua firma qui, qui e qui. Oh, anche qui. Se la proposta non la convince, mi adopererò immediatamente a contattare la sede in Inghilterra.”
    “Eccellente, eccellente. Puoi andare, Liz.”
    La donna chinò la testa e lo lasciò solo nel grande ufficio. L’arredamento essenziale e moderno accentuava l’atmosfera asettica e impersonale che ammantava l’ambiente. La moquette color crema, i divanetti neri, il tavolo basso in plexiglas, i capolavori di dubbio gusto di arte contemporanea appesi alle pareti bianche. Ma a Dorian T. King piaceva. Tutto era sempre perfettamente in ordine, pulito e lindo. Gli inservienti facevano visita al suo ufficio ogni sera e ogni mattina, per controllare che nessun agente patogeno fosse sopravvissuto alla meticolosa epurazione ad opera di detersivi e altri prodotti chimici dalla fragranza al limone. Ogni cosa era al suo posto, a partire dalla penna stilografica nella sua custodia a fianco del plico di foglietti bianchi per prendere appunti, dal quale nemmeno un angolino poteva osare affacciarsi; di seguito, sulla destra, il computer fisso, un Mac di ultima generazione, sempre allineato obliquamente al millimetro con la poltrona, posto cioè a quarantacinque gradi precisi, in maniera tale da avere ottanta centimetri per cinquanta a disposizione per firmare o leggere documenti importanti. I progetti terminati da sottoporre al giudizio dei superiori erano ordinati per data nel primo cassetto sulla sinistra, nel secondo l’agenda personale e nel terzo altri blocchetti di fogli bianchi impilati a formare una superficie piatta e omogenea. La parte restante della scrivania di design era adibita a postazione del cordless e alle sue custodie di occhiali: ne possedeva un paio per leggere, un paio per fissare ininterrottamente il computer senza accasciarsi sullo schienale della poltrona per un attacco di emicrania, e un terzo per andarsene in giro. Quest’ultimo gli era costato un occhio della testa, poiché era di quelli che si oscuravano da soli quando c’era il sole. Un oggetto di lusso che faceva la sua figura e per un individuo del suo calibro l’apparenza, ossia come si presentava e che impressione suscitava nel prossimo, era la sola cosa che contasse veramente.
    Controllò l’ora sul rolex che indossava al polso e sbuffò: ancora mezzora. Quella mattina aveva indetto una riunione del suo staff per redigere il rapporto mensile sull’amministrazione dell’azienda, ma l’attesa lo stava uccidendo. Non aveva nulla da fare e si annoiava. Diede una scorsa al fascicolo pervenutogli dalla segretaria e sgranò gli occhi allibito e disgustato. La proposta arrivata da Londra andava riformulata dal principio, il che significava ulteriore lavoro in aggiunta a quello che normalmente eseguiva con la meticolosità e la sicurezza di un professionista.
    Sospirò e passò le eleganti dita dalle unghie curate fra i corti fili lisci e corvini, attento a non spettinarli o scombinarne neanche una ciocca. Serrò le palpebre sugli occhi azzurro cielo e si concesse qualche minuto di riposo, prima di intraprendere il meeting.
    Dorian T. King era un uomo d’affari fin da quando aveva acquisito la capacità di parlare. Era sempre stato un bambino serio, taciturno e studioso, ed era cresciuto in una famiglia dell’alta società newyorchese, cosicché Harvard era stata l’ovvia conseguenza del suo percorso e infine l’arrivo alla Microsoft. Date le sue encomiabili doti di manager, non aveva faticato troppo a scalare la gerarchia e alla fine, all’età di trentotto anni, poteva affermare di aver scalato la vetta. La posizione che ricopriva lo soddisfaceva in toto, non poteva chiedere di meglio, sebbene gli orari fossero pesanti e mai determinati. Quel grattacelo che dominava su quasi tutta la città era il suo regno e lui ne era il re indiscusso, benché non amasse pavoneggiarsi o darsi delle arie. Era un prudente calcolatore, ma la chiave del suo successo stava nella sua abilità di padroneggiare qualsivoglia situazione e uscirne vincitore senza un graffio. Sapeva volgere i guai a proprio vantaggio e conosceva l’arte della persuasione, in aggiunta al potere di mettere all’angolo eventuali rivali e sbranarli senza pietà come un pescecane - non letteralmente, chiaro. Era una vera e propria autorità e tutti nutrivano molto rispetto per lui.
    Il volto ben rasato, la pelle chiara, lo sguardo gelido, un corpo alto e ben modellato e l’aspetto impeccabile completavano l’opera d’arte che era Dorian.
    In sostanza, bello, ricco e serio: l’uomo che ogni donna avrebbe desiderato sposare.
    Peccato che fosse omosessuale, pur non dichiarato. E se i suoi capi o sottoposti fossero venuti a conoscenza di quali immagini ronzavano abitualmente nel suo cervello quando gli capitava di scollegarlo, forse non avrebbero più avuto la medesima considerazione di lui. Tuttavia, ormai Dorian aveva imparato a convivere con la sua doppia natura: perfetto amministratore delegato e business man di giorno, emozionato corteggiatore e frequentatore di locali dall’incerta moralità di notte. Non era così ingenuo da pensare di essere l’unico a condurre una vita “segreta”, era cosa comune nel suo ambiente. Ma un conto sono le congetture, un altro è lo scandalo.
    E fare coming out avrebbe potuto rappresentare l’ingloriosa fine della sua splendente carriera.
    Adocchiò ancora l’ora e si accorse che mancavano solamente dieci minuti, perciò si alzò, stirò le pieghe del giacca di Armani e inforcò gli occhiali da lettura. Afferrò l’onnipresente valigetta e abbandonò l’ufficio, lasciando detto a Liz di chiamare la sede londinese per apportare delle modifiche alla proposta di finanziamento inoltrata.
    Per tutta la durata del meeting fu poco concentrato, le fantasie che correvano a quel bellissimo e avvenente spogliarellista che catalizzava da due mesi la sua attenzione.
    Ricordava nel dettaglio quella notte, la notte in cui, in preda ad un’insolita e straniante febbre, aveva compiuto la follia di entrare in uno di quei locali che lui bollava come per gente deviata e frivola. Per una volta aveva deciso di agire e si era fatto strada fra i tavoli con crescente agitazione, conscio che il suo abbigliamento sobrio seppur elegante non era adatto. Si sentiva un pesce fuor d’acqua, ma aveva tentato di amalgamarsi ordinando un drink non troppo forte, per darsi un tono. Nessuno, per fortuna, lo aveva importunato, così era rimasto lì a sorseggiare il liquido alcolico che gli scendeva, infuocato, giù per la gola, assaporando l’atmosfera implicitamente promiscua e la libertà dei costumi dei clienti, perlopiù donne.
    Poi le luci della sala si spensero e quelle del palco si accesero, dando il benvenuto a magnifici esemplari di maschio adulto come mai ne aveva visti in vita sua, se non sulle copertine delle riviste di moda. Uno in particolare attirò il suo sguardo, come se tutte le cellule del suo corpo avessero iniziato a vorticare impazzite e il suo sangue a ribollire nelle vene come lava. Era subito arrossito e ringraziò il buio che lo celava agli occhi penetranti del pubblico e del ballerino in questione. Egli aveva dei bellissimi capelli castani lisci e lunghi fino ai fianchi, ben curati e sfilati sulle punte, e due occhi ambrati e seducenti che parevano trafiggere l’anima. Per non parlare del suo corpo, scolpito in ogni dettaglio e ben proporzionato, come se un artista provetto lo avesse modellato nella creta. La sua pelle era leggermente scura, ma non abbronzata, e ogni centimetro della sua figura mascolina emetteva una valanga di feromoni.
    Per Dorian era stato uno spettacolo celestiale e diabolico insieme, aveva provato soggezione e desiderio allo stesso tempo. Stregato dalle sue movenze, non si era perso un solo attimo dell’esibizione, divorando, memorizzando e bevendo come un assetato ogni suo gesto, occhiata o sorriso ammaliatore. Aveva un che di animalesco, selvatico, misterioso e Dorian ne fu immediatamente succube.
    Non gli era mai successa una cosa del genere: rimanere, suo malgrado, totalmente paralizzato. Nemmeno il suo ex gli provocava tali emozioni dense e contrastanti. Visioni spinte gli avevano assalito i nervi e l’erezione non si era fatta attendere.
    Beh, com’era prevedibile, quella sottospecie di adone lo aveva snobbato dall’inizio alla fine, troppo occupato ad avviticchiarsi su un palo o su un morbido e profumato corpo femminile per badare a lui, ma Dorian, per tutta la notte, fu terribilmente conscio della sua presenza.
    Quando poi era rincasato, non era riuscito a chiudere occhio e nemmeno una doccia fredda aveva sortito l’effetto auspicato, l’erezione resisteva. Le ore che precedettero l’alba le trascorse a masturbarsi pensando al giovane spogliarellista e la mattina seguente era ridotto ad uno straccio, più psicologicamente che fisicamente. Dapprima aveva accusato lo stress, poi la stanchezza, dopo ancora l’astinenza e l’istinto represso. Infine, si era arreso e aveva accettato di essersi preso una banalissima cottarella adolescenziale per il figo di turno. In fondo, non aveva mai provato simili infatuazioni, né durante la high school, né durante il college, perciò ora doveva recuperare, giusto? Era un po’ in ritardo, ma meglio tardi che mai, non è così che si dice?
    Però, contro ogni previsione, quella che avrebbe dovuto essere archiviata come pazzia di una notte, si ripeté ancora e ancora, per due mesi. Era diventata una droga.
    Ma come si corteggia un maschio? Questo si era domandato nervosamente per ore, passeggiando come un’anima in pena in lungo e in largo per il suo appartamento di lusso. La storia col suo ex era nata per caso, non c’era stato un vero e proprio approccio da nessuna delle due parti: era accaduto e basta.
    Con Harvey, tuttavia, - aveva estorto il suo nome al barista col pizzetto tra una chiacchiera e l’altra - doveva procedere con cautela.
    Era gay? Domanda da un milione di dollari.
    Riflettendo e rimuginando, alla fine aveva gettato la spugna e si era risolto a chiedere un consulto a Liz, la quale, supponendo che si trattasse di una donna, poiché Dorian non era sceso nello specifico, gli aveva consigliato: “Perché non il classico mazzo di fiori? Anche se lo sembra, non è affatto scontato. È raro riceverne uno, di questi tempi, quando la cavalleria è solo un ricordo sbiadito del passato.” senza considerare il tono melodrammatico. E al business man era parsa un’idea geniale. Ma lui non si intendeva di fiori. Così aveva telefonato al negozio più in voga del momento, quello da cui le signore aristocratiche ordinavano i bouquet per i ricevimenti di nozze o per ornare tavolini da tè, ed aveva commissionato una composizione per Harvey, per la modica cifra di cinquecento dollari.
    La sera seguente era andato a ritirarlo e se lo era portato dietro al Maiden’s Blossom, dove lo aveva consegnato al barista spacciandolo come semplice dono per il sublime spettacolo. Non aveva avuto il coraggio di darglielo di persona, non sapendo come avrebbe reagito, ma, poiché non gli era tornato indietro, aveva dedotto che il regalo fosse stato gradito e, di conseguenza, aveva continuato a fargli recapitare mazzi sempre più sgargianti. In tutto ciò, la codardia non l’aveva mai abbandonato, impedendogli di vincere l’insicurezza e firmare con un biglietto, come dettava la norma.
    Ma tanto, si diceva, non aveva speranze con un ragazzo così, nel fiore degli anni e circondato da uomini e donne assai più avvenenti e interessanti di lui. In poche parole, si era rassegnato a vivere il suo amore platonico con spirito pratico, consapevole che la sua posizione sociale non gli avrebbe mai permesso di esternare in modo palese le sue più intime inclinazioni senza temere ripercussioni negative. Ergo, anche qualora Harvey fosse stato al gioco, non avrebbe potuto offrirgli nulla di più che una relazione clandestina. Del resto, aveva scelto lui la sua strada e finora non aveva mai avuto rimpianti di sorta.
    E adesso eccolo lì, a distanza di due mesi dal primo, fatale incontro, seduto da solo al bancone del bar del locale a sorseggiare il solito drink, dopo aver rifatto il pieno di Harvey giusto quel tanto che bastava a sopravvivere per un’altra infinita settimana.
    Quel drink gli faceva schifo e il suo stomaco stava cominciando a dimostrare il suo disappunto con lievi contrazioni. Infilò una mano nella tasca della giacca estiva, haute couture francese, e fece per prendere il portafoglio, quando avvertì una presenza ignota incombere su di lui. Perplesso, alzò lo sguardo e per miracolo non si soffocò con la sua stessa saliva.
    Harvey Simmons, assiduo protagonista delle sue notti solitarie, si stagliava in tutto il suo vigore giovanile davanti a Dorian, che, spaurito e pietrificato, lo fissava come una statua di sale.
    “Ciao” esordì il ballerino con un sorriso di cortesia. “Sei per caso tu, il mittente di quei fiori che nell’ultimo periodo hanno invaso il mio camerino?”
    L’uomo aggrottò impercettibilmente le sopracciglia, colpito dalla maleducazione dell’altro nel rapportarsi a un estraneo, dandogli del ‘tu’ invece che del ‘lei’, com’era più consono; non era avvezzo a farsi apostrofare con tale confidenza dai primi attimi. Ma glissò il secondo successivo, troppo rapito dalla sua bellezza per irritarsi. Boccheggiò un paio di volte, poi si schiarì la voce mantenendo il suo contegno professionale. “Sì, sono io.” gli tese la mano, “Piacere di conoscerla, sono…”
    “Senti, mettiamo subito le cose in chiaro. I fiori erano molto belli, lo ammetto, ma non sono un estimatore. E non sono una donna. Tralasciando il fatto che non voglio assolutamente sapere quale significato avessero, ti pregherei di smetterla. Se è un messaggio preciso, quello che vuoi mandarmi, vorrei che lo facessi qui, ora.”
    Dio, il suo odore era così eccitante… gli era penetrato nelle narici appena aveva cominciato a parlare, risvegliandogli i sensi. E la pelle, ricoperta di unguento e sudore, così liscia…
    “Hey, mi stai ascoltando?”
    “Eh?”
    Harvey assunse un’espressione scocciata e si portò con un gesto naturale una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
    Dorian era in estasi, l’aria persa e sognante.
    “Ascolta, so a cosa stai pensando, te lo leggo negli occhi. Ma levatelo dalla testa, ok?”
    “Come?” il moro era disorientato, aveva perduto il filo del discorso e non riusciva ad articolare una frase di senso compiuto.
    “Avrei potuto, forse, concederti una possibilità, se tu non mi avessi trattato come una femmina da corteggiare con mazzolini di fiori. Poi cosa farai, mi canterai una serenata?”
    “U-un momento, io… era solo…”
    “Bla bla bla. I ricconi snob come te non mi interessano. Ma ti sei guardato allo specchio, prima di imbucarti in un posto simile?” forse stava esagerando, ma la sola vista di quel damerino gli dava i nervi. “Te ne vai in giro col completo giacca e cravatta da mille dollari al pezzo, sento l’odore dei soldi da qua, e pretendi di passare inosservato. In più, come se non bastasse, mi spedisci ogni fottuta settimana quei maledetti fiori, ma sappi che non sono il genere di persona che si ammorbidisce e capitola con questi stratagemmi. Non li ho graditi, no. E no, non ricambio i tuoi sentimenti. Amo già qualcun altro, perciò puoi anche girare i tacchi.” lo fissò con astio ancora per qualche secondo, poi intercettò l’occhiata di rimprovero di Greg. Lo liquidò con uno sbuffo spazientito e diede le spalle a Dorian. “Buonanotte.”
    Dorian scrutò quella schiena perfetta finché non scomparve dietro ai tendaggi, poi sbatté le palpebre stralunato e stordito. Non era andata male, era andata anche peggio. Senza avvedersene lo aveva offeso, lo aveva messo a disagio, e se ne rammaricava. Aveva commesso un errore da principianti, avrebbe dovuto metterlo in conto, invece aveva seguito lo slancio del momento. Che idiota.
    Abbassò la testa e puntò gli occhi azzurri sui pantaloni, l’aura dispiaciuta e contrita che levitava sopra di lui come una nuvola cupa. In pratica, era stato scaricato.
    Ora la domanda era: perseverare o lasciar perdere?
    Era una domanda retorica, ovviamente. Lui era Dorian King, un uomo di mondo, abituato a lottare per ottenere ciò che voleva, abituato a vincere. E, sebbene Harvey non fosse paragonabile ad un contratto con un’azienda rivale, ci doveva essere pure un modo per rimediare.
    Tracannò il resto del drink e represse un conato.
    “Ne desidera un altro?” gli chiese il barista, comprensivo.
    “No.” depose i soldi sul bancone e si alzò dallo sgabello.
    “Senta…”
    “Mh?”
    “Di solito non fa così. Harvey, intendo. Deve essergli successo qualcosa, altrimenti è un ragazzo simpatico e gentile. Non se la prenda.”
    “Sto benissimo, la ringrazio.” replicò secco, con la chiara intenzione di chiuderla lì. Aveva già subito una notevole dose d’umiliazione per quella sera, non gli serviva anche l’inutile partecipazione del barista invadente.
    “Solo, non si dia per vinto. Prima o poi cederà.”
    “Mi spiega perché mi sta dicendo tutto ciò?”
    “Perché lei mi piace. Non in quel senso, mi segua, ma la sua persona mi ispira fiducia. Non demorda, Harvey è una tigre con gli artigli affilati, ma se preso per il verso giusto può trasformarsi in un docile gattino.”
    L’immagine di Harvey vestito da gatto gli attraversò il cervello come un fulmine. “Ah… oh… ok.”
    “Buonanotte.” lo salutò Greg con un sorrisetto divertito.
    “Buonanotte a lei.”
    Un gattino. Un dolce, tenero gattino. Il mio gattino. Anche se… una tigre è molto più intrigante.

    “Harvey! Cosa sbatti la porta?! Mi hai fatto venire un infarto…”
    “Se ti avessi fatto venire un infarto, ora saresti già morto stecchito sul pavimento. Invece, purtroppo, respiri ancora.”
    “Ti ha punto una vespa? Dio, come sei acido.”
    “Zitto e libera il bagno, ho bisogno di una doccia.”
    “Se non dici le paroline magiche, non mi sposto di un centimetro.”
    Harvey raggiunse Gil con tre falcate, lo afferrò per la collottola - suo punto debole - e lo buttò fuori nudo come un verme.
    “Ma che… ma che stronzo!” gridò imbestialito il moretto. “Capisco che stai affrontando un brutto periodo e che… cazzo, Harvey, aprì la porta! Non è carino sbatterla in faccia ad un amico!”
    “Smettila di starnazzare e vestiti, sennò me ne torno a casa da solo.” gli rispose da dentro il bagno.
    “Cosa è successo? Prima ti ho visto in sala con un tipo, chi era?”
    “Non sono affari tuoi, Gil.”
    “Perché mi tagli sempre fuori?”
    “Non fare la vittima!”
    “Non sto facendo la vittima, dico solo che mi tratti sempre male!”
    Dietro la porta piombò il silenzio e Gil si grattò la nuca sospirando.
    “Ascolta, Harvey. Forse è giunto il momento di… rimettersi in carreggiata. Insomma, ammettiamolo, Raphael ti ha dato il ben servito, quindi non commetti peccato se ogni tanto te la spassi con qualcun altro. Il tizio di prima era da sballo, a proposito!”
    “Non voglio rimettermi in carreggiata… non così presto, almeno.” sussurrò il castano. “Mi serve ancora un po’ di tempo. E poi quel tizio era troppo vecchio.”
    “Ma che dici, a te piacciono con qualche annetto in più, no? Ipocrita! Comunque ok, comprendo. Però non tirarti indietro di fronte ad un’occasione. Coglila e basta, guarda come va. E se non funziona… beh, di sicuro non ti pentirai di non averci provato.”
    “Vedremo, vedremo.”
    “Dai, ti aspetto fuori.”
    “Ah, Gil? Ce le hai tu le chiavi di casa?”
    “Sì, perché? Te le sei dimenticate un’altra volta?”
    “A-ha.”
    “Il solito svampito. Sbrigati!”
    “Taci!”
     
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  12. Lady1990
     
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    Gli esami finali erano andati bene, quasi tutti i voti al di sopra della media, tranne chimica: quella materia gli era sempre risultata incomprensibile, più della matematica. Del resto, lui si sentiva un artista e gli artisti non avevano certo il tempo per occuparsi di formule astruse ed estenuanti esperimenti in laboratorio, che sfociavano quasi sempre in una moderata esplosione con relativa scossa sismica, provocando l’acceso malcontento dell’insegnante e l’ilarità dei compagni.
    Ma ora era finita, aveva ottenuto il diploma e la sua domanda era stata accettata alla New York Academy of Art. Aveva saputo che la retta annua era piuttosto alta, ma Daisy gli aveva confessato che, se lo desiderava, in banca era pronto per lui un assegno, “Dato che”, gli aveva spiegato, “io e tuo padre abbiamo messo da parte dei risparmi da prima che tu nascessi. E poi, col fatto che ora non c’è più, tu sei il suo unico erede, Alan, quindi puoi usare quei soldi come meglio credi. Le tasse potrei pagartele io, non mi interessa dover fare dei sacrifici, però non potrò più provvedere, in tal caso, alle spese di tutti i giorni per te. Mi riferisco a vestiti, libri e tutto il materiale che ti servirà per frequentare le lezioni.”
    “Mamma, non preoccuparti, userò i soldi dell’assegno per badare a me stesso, d’ora in poi non dovrai più farti carico di niente. Per la retta possiamo fare a metà, so benissimo che non ce la faresti tutta da sola. Ormai non sono più un bambino. Senza contare il fatto che l’accademia è qui in città e non dovrò trasferirmi chissà dove. Per raggiungerla prenderò la bici.”
    “Ma sono dodici isolati!”
    “Mi sveglio prima.”
    “Ma se piove?”
    “Mi metto l’impermeabile.”
    “E i disegni? Che fai se il materiale si bagna?”
    “Infilerò tutto in una cartellina di plastica.”
    “E se…”
    “Mamma, respira.”
    Daisy aveva sbuffato. “Lo so, tesoro. Il fatto è che in questi anni mi sono abituata così tanto ai tuoi ritmi del liceo che… quanto tempo ti porterà via questa scuola?”
    “Adorata madre, ascoltami bene. Ogni giorno, dopo i corsi, io tornerò qui, a casa, da te. Dovrò fare i compiti esattamente come al liceo, ma vivrò ancora sotto il tuo stesso tetto.”
    “Lo so, lo so. Quello che intendo dire è… Alan…” si era commossa e aveva tirato su col naso. “Un altro periodo della tua vita si è chiuso e ora te lo lascerai alle spalle. D’ora in avanti le esperienze che proverai contribuiranno a renderti adulto e ad agosto, cioè fra due mesi, compirai diciannove anni e crescerai ancora e vorrai la tua indipendenza, e vorrai portare a casa il fidanzato, e-”
    “Mamma! A parte che sarebbe imbarazzante, ma lo è di più sentirtelo dire così…”
    “Così come? Mi hai detto che ti piacciono i maschietti quando sei entrato al liceo, ormai me ne sono fatta una ragione. E poi sei sempre mio figlio, che male c’è? Dov’ero rimasta… ah, sì! E vorrai portare a casa il fidanzatino e poi cominceranno le turbe sentimentali, e poi vorrai andare a vivere da solo perché non mi sopporterai più, e poi io mi farò le paturnie e ti bombarderò di telefonate apprensive e tu mi riattaccherai la cornetta in faccia, e mi chiamerai solo lo stretto indispensabile, e poi entrerai a far parte del mondo degli artisti, aprirai una tua galleria, diventerai famoso e di me non te ne importerà più nulla…”
    Alan l’aveva fissata stralunato. “Questa è la serata delle stronzate? No, perché sul calendario non c’è scritto niente, mi devi avvertire.”
    “Il mio bambino sta crescendo… tu non puoi capire…” singhiozzava.
    “Senti, per prima cosa non paragonarmi a te. Tu hai abbandonato la tua famiglia subito dopo il liceo perché non sopportavi i tuoi genitori, ma io non lo farò. Per quanto riguarda il vivere da solo… beh, presumo che quel momento arriverà, è normale, vorrò i miei spazi, ma di certo non succederà dall’oggi al domani. Rilassati, ok?”
    Daisy l’aveva guardato con i lacrimoni agli occhi e Alan aveva alzato i suoi al cielo. “D’accordo. Puoi spupazzarmi solo per cinque minuti cronometrati, passati i quali, se non mi avrai già lasciato, ti tirerò una testata.”
    La donna aveva quindi proteso le braccia verso di lui e Alan si era arreso sconsolatamente a trecento secondi di baci, arruffamenti e grattini, come chi sopporta stoicamente e con coraggio gli inconvenienti della vita, senza mostrare traccia di alcun turbamento emotivo al di fuori.
    Quell’ultimo periodo l’aveva trascorso all’insegna della noia, poiché il braccio ingessato gli precludeva molti dei suoi passatempi, dal gironzolare in bicicletta all’aiutare Daisy in negozio. Aveva continuato a far visita a Jason per assicurarsi che quel primate di Charles se ne stesse alla larga e finora non si era rifatto vivo: ottima cosa, se non si considerava la cappa di brutti presentimenti che respirava ogni volta che i suoi pensieri si soffermavano sulla minaccia che il punk aveva formulato prima di levare le tende qualche settimana addietro.
    Per quanto concerneva Jason, si era fatto più distante. Quando si vedevano, si comportava come al solito, però non era più rilassato come un tempo. Alan aveva immaginato un risvolto simile, dopo quella notte in cui lo aveva salvato da Charles, ma sino alla fine aveva sperato che niente sarebbe cambiato. Invece, stava cominciando a cambiare tutto. Da un lato era un miglioramento, perché l’amico stava imparando a rendersi indipendente da lui, a tagliare quel morboso cordone ombelicale che li legava da quattro anni ormai; però, dall’altro, Alan si dispiaceva della piega che avevano preso gli eventi e gli mancava non poter più parlare di certe questioni con Jason, come ad esempio Raphael.
    Dal momento in cui aveva realizzato che il moretto era innamorato di lui, il rapporto disinvolto che avevano prima era andato via via sgretolandosi irreparabilmente. Infatti, Raphael era diventato subito l’argomento tabù, che non andava proposto nemmeno per sbaglio per evitare che Jason soffrisse o si sentisse messo da parte. In compenso, parlavano molto di più dei progetti di vita futuri: per Alan c’era l’accademia d’arte, per Jason un appartamento più vicino al centro, se fosse riuscito a racimolare abbastanza denaro per poterselo permettere col solo stipendio da cameriere.
    In generale, tutto procedeva bene e nella lista immaginaria di Alan rimaneva soltanto un’ultima questione da spuntare: Raphael. Se pensava che avrebbe dovuto parlargli a quattrocchi, le mani prendevano a sudargli dall’emozione. Era la sua chance, quella che aveva atteso per due anni, e sarebbe stato un vero imbecille a lasciarsela sfuggire da sotto il naso.
    Così, una mattina, raccolse il coraggio e andò con la metropolitana in biblioteca, con la speranza di non infastidirlo troppo. E comunque il suo piano prevedeva una chiacchierata di sì e no due minuti, compresi i ringraziamenti e qualche battutina atta a sciogliere il ghiaccio, poi i saluti e infine la richiesta del numero di telefono, qualora si fosse trovato ancora nei guai e non sapesse a chi rivolgersi. Semplice, breve, diretto, perfettamente normale.
    Giunto che fu di fronte all’entrata, purtroppo cominciò senza preavviso a iperventilare a causa del nervosismo e un irritante macigno gli si depositò sullo stomaco.
    “Ok, Alan. Puoi farcela, non sei un pivellino. In fondo, devi solo dirgli grazie, mica ti ci devi mettere a discutere di filosofia.” borbottò a voce bassa, ma la tattica di auto-convincimento fallì miseramente.
    Nessuno badò ad un ragazzino con il braccio ingessato che ne stava impalato come uno stoccafisso proprio davanti alle porte scorrevoli della biblioteca, tranne un uomo biondo sulla trentina seduto dietro la scrivania dell’accettazione.
    Raphael smanettava al computer già da un paio d’ore e gli occhi avevano iniziato a prudergli per la stanchezza accumulata. Dormiva poco in quel periodo, vuoi per il caldo, vuoi per incubi di cui non portava memoria al mattino seguente, ma la mancanza di sonno lo stava prostrando psicologicamente. Da una parte voleva domandare qualche giorno di ferie per riposare, dall’altra non vedeva l’ora di alzarsi e andare a lavoro per non pensare a niente che non fossero cifre, nomi, indirizzi e cataloghi di libri.
    A un tratto, qualcosa lo aveva spinto a sollevare lo sguardo dallo schermo e puntarlo verso l’entrata. Di primo acchito, non appena aveva scorto una familiare zazzera rossa proprio lì fuori, aveva distolto subito l’attenzione con una scrollata di spalle, convincendosi di aver visto male. L’attimo successivo, invece, la sua testa si era girata con uno scatto repentino di nuovo nella medesima direzione e aveva ridotto gli occhi a fessure, per assicurarsi di non avere le allucinazioni. Aguzzò la vista e si aggiustò gli occhiali sul naso per sincerarsi di non aver perduto ulteriori diottrie.
    Quello era veramente Alan. Paralizzato dallo stupore, per un minuto abbondante non fece nulla, limitandosi a osservarlo attraverso la superficie trasparente della porta. Dopodiché, accennò un lieve sorriso e alzò titubante una mano in segno di saluto.
    Soltanto allora il ragazzino si decise a varcare la soglia.
    “Hey” esalò con forzata disinvoltura mentre si avvicinava.
    “Ciao. Come stai?” gli chiese Raphael con un calore genuino riflesso negli occhi.
    Alan si sentì vacillare, ma deglutì e si costrinse a rispondere con naturalezza. “Bene, grazie. Tu?”
    “Bene.”
    “Bene.”
    Il biondo si lasciò andare ad un sorriso intenerito. “Cosa leggerai oggi?”
    “Eh?”
    “Cosa leggerai? Ti trovi in una biblioteca… e nelle biblioteche, solitamente, si viene per leggere. O studiare.”
    “Oh… oh!” arrossì. “No, in realtà ero venuto per ringraziarti. Sai, per quella volta. Grazie davvero.”
    “Di niente.” ammiccò. “Ti senti meglio?”
    “Sì sì, mi toglieranno il gesso a metà luglio. Per il resto, tutto a posto.”
    “Ottimo, sono sollevato.”
    Se possibile, Alan si imporporò ancora di più, e si maledì per quel dannato batticuore. Ma non poteva farci niente, perché… se Raphael aveva detto che era sollevato, significava che per tutto quel tempo era stato in pena per lui, giusto? Voleva dire che ci teneva a lui, almeno un pochino, giusto?
    L’ansia si dissolse come fumo, ora si sentiva leggero come una piuma. Un ampio sorriso gli illuminò il volto e gli occhi verdi presero a brillare.
    “Sì, beh, mi sono riguardato e mia madre mi è stata addosso giorno e notte per controllare che non mi rompessi inavvertitamente l’osso del collo ruzzolando per le scale. Una volta, effettivamente, ho rischiato di brutto, ma per fortuna, grazie ai miei riflessi sviluppati, mi sono aggrappato in tempo al corrimano con l’altro braccio e ho sventato i piani della dea occhi-di-falco.”
    “Dea occhi-di-falco?”
    “L’opposto della dea bendata… capisci?”
    “Non credo.”
    “La sfiga!”
    “Ahh, certo.”
    Raphael ridacchiò divertito e Alan mise il broncio, imbarazzato fino alle punte dei capelli per essersi reso ridicolo davanti all’uomo che voleva conquistare.
    “Ah ah ah! Scusa, non volevo prenderti in giro.” si schermì l’altro.
    “Fa niente…”
    “Sul serio, non era mia intenzione. È solo che sei carino, tutto qui.”
    Il ragazzino avvertì distintamente il cuore saltargli un battito e il fiato gli si mozzò all’improvviso in gola.
    Ha detto che sono carino… ha detto che mi trova carino! Oddio, devo mantenere la calma, devo restare calmo!
    “Ah…”
    Che razza di risposta è “Ah”?! Accidenti!
    “G-grazie…”
    “Non c’è di che.”
    Maledizione, Raphael! Perché non puoi comportarti in maniera meno… cortese ed educata?! Pensi davvero quello che hai detto o sto fraintendendo tutto?
    Alan era nel pallone: non sapeva se sbilanciarsi a credere che quell’affermazione buttata lì avesse un preciso significato oppure non ne avesse affatto e fosse solo la sua mente sovreccitata a fantasticare sul nulla. Assunse un’espressione perplessa e ammutolì.
    “Giusto! Hai preso il diploma?” domandò Raphael con interesse appoggiando il mento sulle mani incrociate.
    “Sì, pochi giorni fa.”
    “E dopo cosa vuoi fare?”
    “Studierò arte all’accademia.” rispose compiaciuto.
    “Arte! Ma guarda…”
    Il rosso stava per lanciarsi in un monologo ispirato a proposito dei suoi sogni e progetti, quando percepì qualcosa di strano nel bibliotecario, un’indefinita incrinatura. Si zittì e lo studiò con attenzione, cercando di carpire qualche dettaglio insolito nei tratti del volto o nella postura. Ma niente era mutato, c’era solo quella sensazione di improvviso disagio.
    “Ehm… ho… ho detto qualcosa che non va?”
    “Eh? No, va tutto bene. Dove studierai?”
    “Qui, in città.”
    “Mh… e come mai proprio arte?”
    Alan esitò, poiché il tono usato da Raphael aveva un che di diverso, come se si aspettasse una risposta precisa e quella fosse solo una domanda retorica. Era strano, molto strano, e il giovane non riusciva a spiegarsi quel sentirsi fuori luogo che di punto in bianco lo aveva pervaso.
    “Ecco… io… vorrei tanto aprire una galleria. Dove esporrei i miei lavori, si intende.”
    “A-ha.”
    Non certo la reazione che si aspettava Alan, così priva di entusiasmo e assente, quasi fosse immerso in una corrente di pensieri a lui preclusi. L’atmosfera, tuttavia, si era fatta pesante e la conversazione si era esaurita in una manciata di secondi. Cos’era successo? Il ragazzo non capiva.
    Lo sguardo di Raphael si era incupito, rabbuiato, come se un velo scuro fosse stato calato davanti al suo viso. Le sopracciglia erano corrugate, le rughe sulla fronte più accentuate e le occhiaie, ora che le notava, più marcate dell’ultima volta che lo aveva visto. C’era forse qualcosa che lo angustiava a tal punto da togliergli il sonno?
    Qualche problema sentimentale, magari?
    No, Alan non voleva neanche prendere in considerazione un’opzione simile, gli avrebbe fatto troppo male realizzare che i suoi sforzi avrebbero potuto, con ogni probabilità, dimostrarsi vani.
    Ma com’era possibile, quindi, che una persona un attimo prima allegra e gioviale si trasformasse quello dopo nell’ombra di se stesso? Senza dubbio era stato lui a scatenare quell’improvviso cambiamento, però non sapeva come. Avevano parlato di salute, diploma, piani per l’immediato futuro, cosa c’era stato di tanto sconcertante? Perché si sentiva come sopraffatto dall’impotenza?
    In che modo poteva recuperare il sorriso di Raphael?
    Inoltre, ora che ci faceva caso, quello era lo stesso sguardo afflitto e inconsolabile che gli aveva scorto addosso da quando lo aveva visto la prima volta, solo che adesso era più tangibile che mai. Perché pareva soffrire così?
    “Mi-mia madre ha un negozio di fiori!”
    “Mh?” il biondo lo fissò come se si fosse svegliato di botto.
    “Dicevo, mia madre gestisce un negozio di fiori.”
    “Oh, bello…”
    La situazione peggiorò, dal momento che Raphael gli diede le spalle e tornò a premere tasti sul computer, ignorandolo come se fosse diventato invisibile. Allora, le parole gli morirono in gola e gli occhi cominciarono a pizzicare per le lacrime trattenute.
    Perché? Cosa ho detto?
    “Scusa, io… ho detto qualcosa che…”
    “Non preoccuparti, non è colpa tua.” lo interruppe il più grande senza nemmeno girarsi.
    Mortificato, a quel punto Alan convenne che era giunto il tempo di salutare e imboccare l’uscita. Forse ci sarebbero state altre occasioni, ma evidentemente non era il momento migliore per intavolare un dialogo di qualsivoglia genere.
    Stava per aprire bocca, quando un uomo di colore con uno spazzolone fra le mani comparve accanto a Raphael. Gli occhi erano rotondi, a palla, il naso leggermente schiacciato e le labbra carnose nei tipici lineamenti africani. Era anche un po’ sovrappeso, uno strato di barbetta grigia gli copriva le guance e il mento e i capelli erano cortissimi e striati di bianco; eppure aveva un non-so-che di simpatico, emanava un’aura rassicurante e rilassata, come una ventata d’aria fresca.
    Ciononostante, Alan sussultò e trattenne a stento un gridolino spaventato.
    Raphael, richiamato da quel verso strozzato, si voltò e fece un salto sulla sedia.
    “Accidenti! Signor Jills, quante volte le dovrò ripetere di non comparirmi alle spalle come un fantasma! È inquietante.”
    “Chiedo venia, mastro Raphael. Nondimeno, fu Iddio a largire alla mia persona sì inopinato passo fèlide, indi non pertiene alla di voi licenza vilipendere attributi che porto meco dalla nascita.”
    Alan lo fissava interrogativo con gli occhi fuori dalle orbite, Raphael invece era indecifrabile.
    Anthony osservò con cipiglio curioso il giovane e gli sorrise, mostrando i denti appena ingialliti.
    “Ma mirate che tenero virgulto!” esclamò all’indirizzo di Alan.
    Questi si piegò verso il biondo e bisbigliò: “Mi ha appena dato del ‘tenero virgulto’?”
    “Temo di sì.” gli rispose a bassa voce.
    “E’ un’offesa?”
    “No no, è il suo modo personale per dirti che già ti adora.”
    Si raddrizzò e sorrise timido di rimando accennando col capo. “Oh… beh, allora la ringrazio, signore.”
    “Obbligat… ops.”
    L’inserviente si impietrì e divenne una statua di cera.
    “Signor Jills.” scandì la signorina Parrot con voce secca, raggiungendo il gruppetto con portamento scattante e impettito. “Perché, mi dica, perché devo richiamarla sempre per incentivarla a svolgere le mansioni per cui la pago? Non sono di suo gradimento, per caso?” lo apostrofò con un sorrisino falso disegnato sulle labbra tinte di rossetto.
    “Qual gentil pulzella è sopraggiunta nel mezzo di tale scadente manipolo di furfanti! La famiglia?”
    “Al lavoro! Ora!” intimò minacciosa la donna sgranando gli occhi neri.
    Anthony scattò sull’attenti e si dileguò in un battito di ciglia, mentre Elizabeth fulminava Raphael con un’occhiata incenerente. Il diretto interessato rabbrividì, ma non abbandonò la posa composta, e nel frattempo fece cenno ad Alan di tacere.
    “E lei, signor Hopkins?”
    “Stavo consigliando a questo giovane cliente un paio di letture. Non rientra nelle mie abituali occupazioni, certo, ma poiché siamo in una biblioteca e al momento non vi sono nuovi avventori, mi stavo intrattenendo in una piacevole conversazione con uno dei nostri soci.” la scrutò innocente dal basso verso l’alto. “Uno dei più fedeli.” aggiunse un attimo dopo. Sottinteso era “cliente pagante, soldi, rimpolpare le entrate”.
    La signorina Parrot schioccò la lingua e, dopo qualche secondo di esitazione, diede loro le spalle, allontanandosi col ticchettio incalzante dei suoi tacchi che cozzavano energicamente sul pavimento di marmo lucidato.
    “Quella è il diavolo.” spiegò, quindi, Raphael ad un Alan completamente spiazzato.
    “Ah…” annuì partecipe, ma in verità era ancora confuso circa il personaggio dell’inserviente, tale signor Jills. Un uomo singolare, senza dubbio.
    “Vivi in un ambiente stimolante, eh?”
    “Francamente, è una tirannia sotto mentite spoglie, ma questo non dirlo a nessuno.” gli fece l’occhiolino e in un istante sembrò che fosse tornato il Raphael sereno e disponibile.
    Il diciottenne non se la sentiva di indagare o chiedere delucidazioni in merito allo stato d’animo del maggiore; era sì impulsivo, molto spesso, ma sapeva anche rispettare gli spazi altrui e non essere invadente, quando la situazione lo richiedeva.
    “Ok, allora ti lascio lavorare, non vorrei disturbarti ancora a lungo.” gli sorrise più leggero.
    “Non preoccuparti, mi ha fatto piacere rivederti e scoprire che stai bene.”
    “Solo grazie a te e in qualche modo cercherò di sdebitarmi.”
    Pronunciata questa frase, i suoi nervi ebbero un guizzo e un’idea geniale gli balenò nel cervello.
    “Che ne dici di una cena? Offro io, te lo devo.”
    “No, davvero. L’avrei fatto per chiunque, non mi devi niente.”
    “Insisto. Altrimenti mi sentirò in colpa per tutta la vita per non essere riuscito a dimostrarti la mia gratitudine. E tu non mi sembri il tipo che farebbe soffrire un tenero virgulto, dico bene?”
    Raphael rise addolcito e ad Alan tornò di botto il buon umore. Trovava lievemente spaventoso il fatto che il biondo potesse influenzarlo fino a tal punto, che ogni sua parola contasse per lui come oro colato. Ma cosa importava, se alla fine era felice?
    “D’accordo, mi arrendo.”
    “Per te è meglio nel weekend, suppongo.”
    “Sì, durante la settimana sono troppo stanco.”
    “Perfetto, allora sabato sera, alle otto, davanti al chiosco di hot dog all’entrata del Central Park. Lì vicino c’è un posto molto carino ed economico, e pensa!, si mangia benissimo!”
    “Cosa rara, a New York. Ok, ci sarò.”
    Alan non trattenne un sorrisone soddisfatto e lo salutò con un cenno della mano, precipitandosi poi all’uscita quasi correndo.
    Raphael lo fissò zampettare fuori dall’edificio allegro come una pasqua. Sembrava un piccolo pulcino scarmigliato. Sbuffò intenerito e scosse la testa.
    Poco prima, per un misero momento, gli era parso di rivedere Alicia e ciò gli aveva provocato una fitta allucinante al petto. Lo stesso entusiasmo, la stessa gioia di vivere, lo stesso imbarazzo che gli colorava le guance i primi tempi, quando tentava di corteggiarlo.
    Non era stupido. Aveva capito che Alan provava interesse per lui, era evidente che gli piaceva. Tuttavia, sarebbe stata soltanto una cena, nulla di più, non avrebbe dato adito a false speranze.
    E poi, in confronto a lui, quel ragazzo era un bambino, c’erano troppi anni di differenza tra loro. Non poteva funzionare.
    Ma la domanda era: aveva accettato l’invito solo per non farlo ‘sentire in colpa’? O c’era dell’altro?
    Forse, lo stargli vicino lo faceva sentire come se una parte di Alicia fosse ancora la suo fianco, e di conseguenza gli dava corda per egoismo. Questa concreta possibilità sottolineava quanto il proprio comportamento fosse deprecabile, visto che l’altro neanche immaginava il groviglio di emozioni dissonanti che lo travolgevano ogni volta che pensava a lui e, obbiettivamente, che nulla avevano a che fare con lui.
    Era Raphael a sentirsi in colpa. Si biasimava e al contempo perseverava nel suo volersi fare del male.
    A rigor di logica, uscire con Alan non era affatto un’ottima idea, ma non poteva esimersi dal credere che, se quel ragazzino che sprizzava energia da tutti i pori ne avesse trasmessa inconsciamente un po’ anche a lui, avrebbe sentito meno la mancanza della moglie.
    E tuttavia erano davvero troppo dolorosamente simili.
    Entrambi condividevano l’amore per l’arte, entrambi nutrivano il sogno della galleria, entrambi studiavano all’accedemia di New York. Alan non ancora, ma avrebbe iniziato presto. Senza considerare la passione per i fiori: Alicia ne andava matta.
    Raphael non sapeva cosa fare. Non voleva illudere il giovane, ma nemmeno negarsi l’opportunità di rivivere quella nostalgica spensieratezza che soltanto Alicia pareva fosse in grado di donargli.
    Si trovava impelagato in un grande dilemma, eppure la risposta era già pronta nel suo cuore. Forse, in quel determinato frangente, avrebbe potuto asserire con sicurezza che non avrebbe mai e poi mai osato trascinare Alan con sé per una pura, soffocante brama di appagamento spirituale, quando non era lui che realmente voleva. Però, doveva anche mettere in conto il rischio di assuefarsi e di non riuscire più a scappare incolume dal labirinto di ricordi che lo sopraffacevano con inaudita violenza.
    In tal caso, Alan sarebbe divenuto per lui il sostituto di Alicia e questo il ragazzino non se lo meritava.
    Ma se la tentazione era così forte da lasciarlo senza fiato, Raphael possedeva davvero le forze per opporvisi? Lui desiderava opporvisi?
    A chi voleva darla a bere! Ovvio che no.
    Infossò la testa fra le spalle e si coprì il viso con una mano per nascondere l’espressione tormentata.
    Si faceva schifo.
     
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  13. Lady1990
     
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    Mentre aspettava dondolandosi da un piede all'altro, Alan cercava di non cedere al panico. Gli sembrava un sogno poter uscire con Raphael, avere l'occasione di parlargli in intimità e così avvicinarsi un po' di più al suo mondo, all'inizio lontano come un miraggio. Nemmeno nella più rosea delle sue fantasie aveva mai ipotizzato che il suo desiderio potesse avverarsi così presto, con una semplicità disarmante e destabilizzante.
    Quando quel giorno era tornato a casa dopo essere riuscito ad ottenere l'appuntamento, si era a stento trattenuto dal mettersi a canticchiare e a saltare dalla gioia. Si era invece chiuso in camera a chiave, si era gettato a peso morto sul letto e poi aveva affondato la faccia nel cuscino per soffocare le risatine causate dall'imbarazzo e dall'incredulità.
    Guardò ancora l'ora sull'orologio col cinturino di plastica verde che gli aveva regalato sua madre e sbuffò nel notare che era passato soltanto un misero minuto da che aveva controllato l'ultima volta. Mancava circa un quarto d'ora alle otto e la tensione lo stava facendo sudare in maniera indecente. E pensare che si era dato una lavata coi fiocchi prima di mettersi in cammino, così da risultare fresco e profumato come un bocciolo di rosa...
    Al contrario, adesso stava grondando da schifo. Se fosse stato una spugna, si sarebbe volentieri strizzato per bene, ma purtroppo non possedeva neanche un fazzoletto per tergersi almeno la fronte e il collo. Egoisticamente, sperò di trovare Raphael nelle medesime condizioni, altrimenti avrebbe scovato in due secondi il modo per sotterrarsi. Insomma, non voleva certo puzzare al suo primo appuntamento!
    “Che palle” borbottò a bassa voce, adocchiando di sfuggita di nuovo l'ora.
    Dieci minuti.
    Ora si malediva per essersi catapultato come un proiettile fuori di casa un'ora prima. Ma, del resto, non sapeva se il biondo era un tipo puntuale o uno di quelli che si presentano in anticipo, e in quest'ultimo caso si sarebbe sentito in colpa a farlo aspettare.
    Il via vai di persone che in quel momento infestava l'entrata del Central Park era impressionante, lo intontiva facendolo sentire come ubriaco, senza contare il caldo che continuava imperterrito a penetrare nell'asfalto rendendolo incandescente e sotto i vestiti leggeri. In più, il braccio ingessato gli spediva insopportabili vampate, tanto che avrebbe voluto prendere uno scalpello e levarselo a forza, alla faccia delle raccomandazioni dei medici.
    Sollevò davanti agli occhi l'arto sano: cinque minuti.
    Il tempo stringeva e il ragazzo, dal basso della sua insicurezza, cominciava a temere che Raphael non si sarebbe presentato, sebbene la sua parte razionale gli ricordasse costantemente che il bibliotecario non aveva affatto l'aria di uno che avrebbe dato buca dopo aver preso un impegno. In generale, benché non lo conoscesse, gli dava l'impressione di un uomo affidabile, quindi si predispose all'attesa tentando di scacciare i cattivi pensieri che minavano al suo fragile equilibrio mentale.
    A casa aveva fatto pure una sorta di self-training, un allenamento per combattere l'ansia e sventare così eventuali figure infelici. Davanti allo specchio, nudo e con i capelli ancora umidi per la doccia, si era detto: “Alan, tu sei bello. Non quanto Raphael, ma hai fascino. Hai un corpo acerbo, ma all'occorrenza sai come usarlo. Hai molti pregi, dimenticati dei difetti. Per lui sarai perfetto.”
    Aveva funzionato per circa mezzora, poi era ripiombato nell'apprensione di non riuscire a dimostrarsi all'altezza del biondo. Non sapeva nemmeno a che sponda apparteneva e ciò riduceva le sue possibilità a un cinquanta percento. D'altronde, se era etero, si sarebbe messo il cuore in pace e il tempo avrebbe sicuramente curato la sua ferita. Inoltre, non avrebbe avuto senso combattere e cercare di trasformare un patito di tette in un amante del pisello, a meno che costui non nutrisse già qualche dubbio riguardo il proprio orientamento.
    Comunque, le sue erano soltanto mere seghe mentali, pensieri che giravano come trottole impazzite nel suo cervello, e l'unica utilità che avevano era distrarlo dalle altre paturnie inerenti il suo aspetto e i progetti per la serata.
    Erano le otto in punto. Raphael doveva arrivare da un momento all'altro e tutta la sua pace interiore, che già non era chissà che, andò a farsi friggere. Iniziò a guardarsi intorno, girando alternativamente la testa da una parte all'altra, sondando la folla multicolore che popolava il marciapiede. Si mordicchiò il labbro inferiore con gli incisivi e infilò le mani appiccicose nelle tasche dei pantaloncini blu al ginocchio, asciugandosele alla stoffa ogni due secondi. I suoi occhi verdi scattavano senza tregua in tutte le direzioni e il nervosismo che fino ad allora era riuscito a tenere a bada, forse per miracolo divino, tornò in tutta la sua magnificenza e violenza a farsi sentire attraverso il battito cardiaco.
    Le otto e cinque.
    Le otto e dieci e ancora niente.
    Alle otto e un quarto intravide una chioma bionda familiare e subito dopo lo stesso paio di occhi azzurri che visitavano spesso i suoi sogni. Il cuore accelerò e le labbra si piegarono in sospiro di sollievo.
    “Hey! Ciao, scusa!” lo salutò Raphael con aria dispiaciuta. “C'è stato un incidente sulla linea della metropolitana e sono dovuto venire a piedi.”
    “Oh, non ti preoccupare, sono qui da poco.” mentì, mentre le farfalle nello stomaco facevano un baccano assurdo.
    “Menomale, scusami davvero. Di solito sono puntuale.” sorrise e il mondo circostante parve perdere la sua luminosità per concentrarsi in quell'accennato stiramento di labbra.
    “Non fa niente, credimi! Piuttosto, era qualcosa di grave?”
    “Non ne ho idea. Ci hanno fatti scendere e hanno blaterato qualcosa sul prendere altre linee o gli autobus, ma non avevo tempo per mettermi pure ad aspettare i comodi dei servizi pubblici.”
    “Ok. Allora... andiamo a mangiare?”
    “Sì, ammetto che sto morendo di fame. Che posto avevi in mente?”
    “E' giusto qui vicino, non ci vorrà molto.”
    “D'accordo, fai strada.”
    Non c'era stato nessun bacio sulla guancia, nessuna stretta di mano, nessun contatto. Alan se lo aspettava, ma questo non gli impedì di rimanere leggermente deluso. Probabilmente, doveva essere lui a fare la prima mossa, Raphael era troppo barricato dietro la sua educazione e formalità per prodigarsi in qualsivoglia genere di approccio amichevole. Gli scoccò una rapida occhiata e non poté che constatare ulteriormente quanto il più grande fosse avvenente. Attirava gli sguardi dei passanti come una calamita vivente, soprattutto quelli delle donne. Di sicuro, il giovane sfigurava al suo fianco, ma la sensazione di essere una specie di privilegiato non lo abbandonò mai per tutto il tragitto.
    Raphael indossava una camicia di lino bianco leggera e lunga fino all'inguine e un paio di pantaloni neri. Ai piedi portava dei sandali di cuoio semplici e al polso sinistro un braccialettino di metallo che non gli aveva mai visto addosso. I capelli biondo cenere erano acconciati per apparire spettinati e gli incorniciavano meravigliosamente il volto dai lineamenti affilati ma niente affatto severi. Possedeva dei tratti dolci, Raphael, ma al contempo mascolini, e tuttavia, nell'insieme, la sua figura pareva uscita fuori direttamente da un quadro preraffaellita. Non aveva gli occhiali e ora Alan poteva osservare senza alcun ostacolo quelle iridi straordinariamente azzurre, anche se il farlo gli mozzava il fiato.
    Si sentiva graziato, in un certo senso.
    Pur col suo abbigliamento semplice e lontano anni luce dall'essere sofisticato o ricercato, manteneva un'aura quasi nobile, da principe. Forse a causa dei suoi gesti, dell'eleganza naturale che esprimeva nel muoversi, ma il ragazzino credeva di trovarsi al cospetto di un semidio.
    Però, se lo si studiava meglio, si potevano notare le lievi rughe ai lati degli occhi e sulla fronte, un neo dietro l'orecchio destro e le occhiaie. Piccoli e insignificanti dettagli che tuttavia contribuivano a renderlo più umano e raggiungibile.
    “Come va il braccio?” chiese tutto a un tratto per rompere il silenzio.
    Alan boccheggiò come un bambino colto in flagrante a compiere una marachella e distolse immediatamente lo sguardo, imbarazzato per essersi fatto scoprire a fargli la radiografia.
    “B-bene. Come al solito. Però il caldo mi provoca un fastidiosissimo prurito, tanto che a volte vorrei strapparmi il gesso a morsi.”
    “Ah ah! Immagino.”
    “Ecco, siamo arrivati. Ti piace la cucina italiana?”
    “Scherzi! A chi non piace?”
    “Bene. Non ho prenotato, ma dovremmo comunque trovare un tavolo.”
    Entrarono e un cameriere con un forte accento californiano andò ad accoglierli, per poi condurli al tavolo e poggiare i menù sulla tovaglia.
    “Beh, forse sono io troppo pretenzioso, ma quando si entra in un ristorante italiano, ci si aspetta camerieri italiani. Hai sentito quello? Stavo per scoppiargli a ridere in faccia.” gli bisbigliò Raphael con un'espressione divertita, afferrando il menù e sfogliandolo con disinvoltura.
    “Già... buffo.”
    Alan era in soggezione. Non riusciva a calmarsi e tutto ciò che poté fare fu prendere anche lui il menù con mani tremanti e fingere di essere perfettamente padrone della situazione, sebbene il rossore non volesse saperne di abbandonare le sue guance.
    “Tu cosa prendi?” gli domandò il biondo.
    “La pasta, qui, è molto buona. E cucinano bene anche il pesce.”
    “Allora, opterò per un primo a base di pasta con zucchine e gamberetti e per secondo il pescespada alla griglia.”
    Il cameriere sopraggiunse prima che il diciottenne aprisse bocca o decidesse alcunché, così si ritrovò a rispondere “Lo stesso, grazie” con aria impacciata. Raphael, alle sue parole, sfoggiò un sorriso enigmatico, ma non obiettò. Da bere ordinarono acqua e un bicchiere di vino per il più grande.
    “Dunque, Alan.” esordì Raphael appoggiando il mento sulle mani incrociate.
    L'interpellato sussultò impercettibilmente: era la prima volta che l'uomo lo chiamava per nome e questo semplice fatto lo emozionava a dismisura.
    “S-sì?”
    “Quando sei venuto a ringraziarmi in biblioteca, hai parlato dell'accademia.”
    “Sì, comincerò ad ottobre.”
    “In che occasione è nata, questa passione per l'arte?”
    “Non lo so... mi è sempre piaciuto disegnare, anche se non penso di essere granché.”
    “Questo lascialo giudicare agli altri.”
    Alan annuì e prese a giocare con la forchetta, premendo col dito sui denti per farla molleggiare.
    “Hai anche altre passioni, altri hobby?”
    “Uhm... mi piacciono i fiori.”
    “Giusto, tua madre ha un negozio. Ti intendi anche di giardinaggio?”
    “No, più che altro la aiuto a comporre i bouquet e ad innaffiare. A dire il vero, non saprei da che parte iniziare, se dovessi piantare qualcosa.”
    “E tuo padre? Che lavoro fa?”
    Il rosso si bloccò e si intristì all'istante. “E' morto, qualche anno fa.”
    “Oh... mi dispiace. Scusa.”
    “Tranquillo, ormai l'ho superato.”
    “Mh.” sorseggiò il vino dal bicchiere e Alan si incantò a guardarlo, ammirato dalla grazia con cui reggeva fra due dita la piccola asta di vetro.
    “E tu, invece?”
    “Io? Beh, non faccio niente di speciale, come ben sai.”
    “No, volevo dire se hai qualche hobby in particolare...”
    “Negativo.” scosse la testa in segno di diniego.
    “E cosa fai nel tempo libero?”
    L'ormai familiare ombra scese sul suo viso come un velo. “Niente di che. Guardo la televisione, pulisco casa, metto in ordine, leggo.”
    In quel momento arrivarono i piatti e si misero a mangiare in silenzio. Il ragazzo, ogni tanto, scoccava all'altro una fugace occhiata indagatrice, ma distoglieva l'attenzione non appena Raphael lo intercettava.
    “Qualcosa non va?”
    “Eh? No no, nulla.” lo rassicurò, tornando ad abbuffarsi. “Mmm, è buonissima, cavolo!”
    “Già!”
    “E tu?” esitò di fronte allo sguardo interrogativo del biondo. “Stai bene?”
    “Sì, certo!” sorrise tirato. “Sono solo un po' stanco.”
    “Capisco.”
    Per tutta la durata della cena non chiacchierarono molto, ostacolati dall'imbarazzo o dal timore di toccare tasti intimi. Ad Alan pareva di camminare sul ciglio di un burrone, dove una sola mossa falsa avrebbe potuto farlo precipitare. Faceva fatica, per giunta, a trattenersi dal porre domande a raffica, tanto era il suo desiderio di conoscerlo. Così, rimase rigido e teso finché non chiesero il conto. Soltanto a quel punto si risvegliò per intraprendere una serrata battaglia senza esclusione di colpi a proposito di chi avrebbe dovuto pagare. Alla fine, riuscì a guadagnarsi la vittoria, anche se Raphael si mostrò indispettito quando lo vide metter mano al portafogli.
    Decisero di andare a prendere un gelato per rinfrescarsi un po' e di fare una passeggiata nel parco per digerire, proposta che il biondo accettò di buon grado.
    “Accidenti, non sono più abituato a mangiare così tanto!”
    “Ah ah, parli come un vecchietto!” lo derise Alan, leccando il suo gelato al cioccolato.
    “A chi hai dato del vecchietto?” esclamò offeso l'altro, assestandogli una pacca sul braccio con l'intenzione di fargli cadere il cono.
    “Hey! Bastardo...”
    “Ah ah ah!”
    Il giovane era ipnotizzato dal movimento delle labbra di Raphael che si aprivano e si chiudevano morbidamente sulla pallina di crema. Gli fu sufficiente un millesimo di secondo per dare il via libera alle fantasie spinte su quella bocca, che non accarezzava esattamente una pallina di gelato ma scorreva sensuale ed eccitante sulla sua pelle e fra le sue gambe. Si sentì avvampare e i pantaloni gli diventarono stretti al livello della cerniera. Quanto avrebbe voluto spalmarsi sul quel corpo tonico, percepire la consistenza dei suoi muscoli e bearsi del suo calore intossicante.
    Alan era felice come non lo era mai stato. Trovava piacevole trascorrere del tempo con Raphael, la sua presenza lo faceva sentire appagato e in pace col mondo intero. Adesso, tutto ciò che voleva fare era intrecciare la mano con la sua, ma era consapevole che un simile gesto sarebbe equivalso ad una dichiarazione implicita e non voleva, in fondo, bruciare le tappe quando v'erano ancora molti punti da chiarire. Raphael gli nascondeva qualcosa, l'aveva capito, e la curiosità diventava di minuto in minuto più invadente.
    “Prima hai detto che leggi. Che genere di libri ti piace?” gli domandò facendosi più vicino, in modo tale che le loro braccia si sfiorassero.
    “In realtà leggo riviste di architettura o quotidiani.”
    “Architettura? Ah, ma allora ce l'hai una passione!” disse trionfante, sorridendo furbo.
    “Ok, forse.” ammise burbero senza guardarlo.
    “E perché proprio architettura?”
    “E tu perché proprio l'arte?”
    “Perché quando disegno sento di aver trovato il mio scopo, sono libero di essere me stesso. È questo che accade, quando ci si dedica al proprio hobby, no? Personalmente, adoro Monet: la sua tecnica è sublime, la sua pennellata è leggera e i contorni, se presi singolarmente paiono indefiniti, ma se li guardi da lontano, nell'insieme, si sommano in un paradiso di forme suggestive. È come se avesse riprodotto visioni oniriche sulla tela. Talvolta sono sfocate, quasi 'nebbiose', talvolta più nette e il contrasto è evidente. Quando contemplo una sua opera, benché mediata dalla carta del libro, mi sento travolgere dalla magia e riesco quasi a sentire il profumo dei fiori e il canto della natura. Mi sento come se non camminassi più in questa dimensione, come se appartenessi ad un universo fatato e primitivo.”
    Raphael osservò dritto davanti a sé: “E di Picasso? Cose ne pensi?”
    “Picasso? Uhm...” rifletté, “Picasso è passione, Picasso è lussuria, è il trionfo delle emozioni più violente. Picasso è un ciclone.”
    Il trentaquattrenne si fece improvvisamente assente, rapito da chissà quali pensieri, e Alan gli pungolò il bicipite con il polpastrello.
    “Ebbene? Conosci quella sensazione? La provi anche tu quando leggi quelle riviste?”
    “L'ho dimenticato.” proferite tali parole, accelerò il passo e si distanziò dal più piccolo, che restò di sasso a fissarlo, senza sapere cosa fare.
    Doveva rincorrerlo?
    “Hey! Raphael, aspetta!” lo raggiunse facendo attenzione a non rovesciare il gelato mezzo sciolto. “Ho detto qualcosa di sbagliato?”
    “No... niente.”
    Alan si piantò in mezzo al sentiero, basito e leggermente arrabbiato.
    “Mi spieghi, una volta per tutte, cosa c'è che non va?” lo aggredì, gettando il cono in un cestino dell'immondizia. A un tratto, aveva perso l'appetito.
    Raphael lo osservò confuso e stupito, ma non aprì bocca.
    “Anche in biblioteca hai fatto quella faccia, e anche durante la cena. Se c'è qualcosa in ciò che ho detto che ti crea fastidio, dimmelo ed eviterò di parlarne.”
    Il biondo chiuse gli occhi e gli si parò di fronte, buttando anche lui il gelato nemmeno a metà.
    “Non è colpa tua, davvero. È un problema mio.”
    “Allora perché mi sembra di calpestare un campo minato ogni volta che ti chiedo qualcosa?”
    Il maggiore non rispose e gli diede le spalle, facendogli cenno di seguirlo.
    “Vedi, Alan, ci sono cose di cui preferirei non parlare. Non perché non ti ritenga un ragazzo maturo o degno di discutere con me, ma solo perché non voglio io. Né con te, né con qualcun altro.”
    “Queste cose... tipo quali?”
    “Il mio passato. Un passato abbastanza recente, in verità.”
    Alan lo scrutò, poi mormorò: “Sei di nuovo triste...”
    “Mh?”
    “Sei triste. Te lo leggo in faccia. Tu sei sempre triste. Perché?”
    Il biondo aggrottò le sopracciglia sorpreso, dopodiché la sua espressione si addolcì e gli arruffò i capelli rossi. “E' proprio di questo che non voglio parlare.”
    “Ma come faremo ad essere amici, se non possiamo parlare?”
    “Amici?”
    “Sì!” rimarcò piccato il diciottenne.
    “Ascolta...” Raphael si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, “io e te non diventeremo amici. Saremo al massimo conoscenti. Io sarò colui che ti accoglierà alla reception della biblioteca e tu sarai il cliente che mi dà la tessera. Fine.”
    “Cosa?!”
    “Mi hai sentito.” il tono lapidario e monocorde che usò fece tremare Alan.
    “Perché?!”
    “Perché è meglio così. Sei così giovane, Alan. Hai i tuoi sogni da realizzare, i tuoi progetti. La vita ti offrirà una miriade di opportunità, perciò non focalizzarti su di me, non ne valgo la pena.”
    Alan, spiazzato e agitato, lo fissò con gli occhi fuori dalle orbite. Si aggrappò alla stoffa della sua camicia di lino e la strattonò appena. “Come... come puoi? Con che diritto osi decidere per me?”
    “Dal momento che ti ho praticamente salvato la vita...”
    “Cosa cazzo c'entra, questo? Anzi, dovrebbe essere un pretesto per approfondire-”
    “Non approfondiremo un bel nulla, Alan. Tu non mi devi niente, te l'ho già spiegato. Avresti potuto essere tu come chiunque altro, non sei speciale ai miei occhi. Quindi accetto la tua gratitudine e ti auguro ogni bene, ma la cosa termina qui.”
    “No!”
    “No?”
    Lo sguardo glaciale e intransigente che riservò al diciottenne uccise quest'ultimo nell'anima. Era freddo, impenetrabile, tagliente, duro, quasi stonato su un volto dolce come il suo.
    “Io non voglio!”
    “Non me ne importa un tubo.”
    “M-ma io...”
    “Maledizione, Alan, stai zitto!!!” gli sibilò a pochi centimetri dal naso. “Tu non sai niente di me e non voglio che tu sappia niente. La mia vita è affar mio, non ti riguarda. Se non desidero esserti amico, non lo sarò, capito? E per il bene di entrambi, ti consiglio di farti passare questa irritante cotta adolescenziale, perché si avvererà solo nei tuoi sogni da moccioso. Non ho mai fatto nulla per alimentare le tue speranze o per illuderti e non intendo iniziare ora.” tornò in posizione eretta e sospirò. “Sono stato bene stasera, ma adesso devo tornare a casa, è tardi. Grazie per la cena.” disse cupo e se ne andò lasciando il ragazzino con gli occhi lucidi di lacrime da solo in mezzo al sentiero, circondato da coppiette e famiglie allegre.

    Raphael depose le chiavi di casa sul mobiletto d'ingresso e andò in salotto. Si lasciò cadere pesantemente sul divano e si prese la testa fra le mani. Represse un singhiozzo digrignando i denti con rabbia, mentre si dava ripetutamente del coglione.
    Era stato ingiusto con Alan, ma non era riuscito a controllarsi, era stato più forte di lui. Somigliava in maniera inquietante ad Alicia, di conseguenza era scoppiato come una bomba; quando gli aveva posto quella domanda su Picasso, non credeva sul serio di ricevere la risposta che ipotizzava. Per poco non si era messo a piangere e solo il pensiero di essere in un luogo pubblico lo aveva fatto desistere dal mostrare la propria debolezza apertamente. Ma ora, all'interno delle mura domestiche, non v'era nessuno a giudicarlo.

    “Tesoro? Cosa vuoi per cena?” chiese bussando con discrezione alla porta dello studio della donna.
    Attese per qualche attimo, poi, ricevendo in cambio solo silenzio, si azzardò ad abbassare la maniglia e a infilare il capo dentro la stanza. Perlustrò con gli occhi l'ambiente e infine li puntò sulla figura minuta girata di schiena, seduta di fronte a un cavalletto. Sorrise con infinita dolcezza ed entrò completamente, accostandosi la porta alle spalle. Compì un paio di passi cercando di fare meno rumore possibile, per non disturbare l'ispirazione di Alicia.
    Ella, con il pennello ben inforcato tra le dita sottili e affusolate, dipingeva con tocchi leggeri e veloci, creando un paesaggio silvestre e incontaminato. Le piaceva riprodurre la natura nella sua essenza incorrotta, come la ritraevano le poesie bucoliche e gli antichi canti. Diceva sempre che i vecchi miti conservavano quella tinta magica e misteriosa che lei cercava, spaventosa per il suo essere inconoscibile e inafferrabile e al contempo meravigliosa per essere così piena di vita e purezza.
    Il suo studio era tappezzato di quadri di fiori, distese boschive e selvagge, animali selvatici, laghi, montagne, oceani e dune desertiche. Da circa quattro anni era una pittrice affermata e molti esperti del campo la stimavano e amavano i suoi lavori.
    Anche Raphael, benché non fosse un intenditore, ogni volta che metteva piede lì dentro si sentiva risucchiare in un mondo fatto di pace, calma e serenità. Adorava l'odore pungente dei colori a olio, le macchie sul parquet e sulla camicia di jeans taglia XL che indossava la moglie direttamente sul corpo nudo. Era, in sostanza, un altro modo di amarla.
    La sua piccola figura era ammantata di una delicata bellezza, fragile ma comunque piena di energia vitale, e i raggi del sole al tramonto, di un tenue arancione tendente al rosso, che filtravano dalle tende bianche della finestra aggiungevano quel particolare tocco di surrealismo, colorando anche l'aria, quasi come se Raphael stesse osservando il quadro di una donna che dipinge quadri a sua volta.
    Quella scena si sarebbe impressa nella sua memoria per sempre, fissata nel tempo e per questo immortale, proprio come sembravano i soggetti rappresentati nelle opere d'arte. E non c'era circostanza in cui non la ricordasse con malinconia, quando la sua vita ancora possedeva quel magico profumo e tutto gli appariva perfetto.
    Appena la vide intingere la punta del pennello nel bicchiere d'acqua sul tavolino accanto a lei, seppe che aveva il permesso di invadere il suo spazio creativo.
    Le pose con gentilezza le mani sulle spalle e si piegò a baciarle il collo, inalando a pieni polmoni la fragranza di rose che la sua pelle emetteva costantemente, grazie soprattutto all'olio da bagno con estratti di rosa che usava da anni.
    Alicia ridacchiò e affondò le dita nei suoi capelli biondi, accarezzandolo dolcemente.
    “Hey” mormorò lei lasciandosi coccolare.
    “Hey” rispose lui infilando le dita sotto la camicia per tastare la sua pelle serica e sensibile.
    “Volevi qualcosa?”
    “Te”
    “Ah ah ah, sei sempre così... aspetta.” annusò l'aria e assunse un'espressione corrucciata. “Sta bruciando qualcosa?”
    “Cazzo!” imprecò a denti stretti e corse giù per le scale come un prode paladino per trarre in salvo le lasagne al forno da fine certa.
    Per fortuna, il danno non era irreversibile e bastò scansare le parti bruciacchiate e mangiare il resto. Mentre Raphael sparecchiava e caricava la lavastoviglie, Alicia mise a nanna Maggy, stremata dopo un'enorme scorpacciata di lasagne. Quando la moglie tornò in cucina, il biondo l'assalì con baci focosi e passionali, senza lasciarle un attimo di respiro. Fecero l'amore, quella notte, nel loro letto, come se non ci fosse un domani. Raphael si spinse in lei con vigore e scioltezza, la guardò negli occhi illanguiditi dal piacere e le strinse la mano quando arrivarono all'apice, soffocando i gemiti in baci disperati.
    Dopo circa venti minuti, si disposero nella loro posizione preferita, ossia con Raphael appiccicato alla schiena di Alicia e le sue braccia intorno a fianchi di lei.
    “Raphy”
    “Mh?”
    “Oggi sei stato una belva feroce...”
    L'uomo ridacchiò: “Mi sembra che tu l'abbia grandemente apprezzato.”
    “Senza dubbio.”
    “E allora? Cosa la turba, signora Hopkins?”
    “Come fai a capire sempre che qualcosa mi impensierisce?”
    “Ti conosco, ormai. Lo sento.”
    Alicia sorrise nel buio della camera e arrossì lusingata. “Niente, stavo riflettendo su quanto pari calmo e pacato all'esterno, mentre in realtà sei un vulcano che non aspetta altro che scoppiare.”
    Raphael fischiò divertito. “Continua, è raro che tu tessa le mie lodi.”
    “Non ti sto lodando, caro, sto solo esplicitando un fatto di cui mi sono resa conto.”
    “Continua lo stesso.”
    “Diciamo che...” si assestò meglio sotto il lenzuolo e aderì di più al torace del marito, “Diciamo che all'esterno sembri un Monet, ma dentro sei un Picasso.”
    Il biondo rise tra i suoi capelli neri e la abbracciò stretta a sé. “E cioè?”
    “Un Monet trasmette calma e pace, un Picasso invece è come... caos. Un'onda violenta che ti travolge e poi, quando è passata, ti fa sentire disorientato. Picasso è un ciclone.”
    “E quindi io sarei un ciclone?”
    “Sei una forza della natura.”
    Si baciarono di nuovo e suggellarono il loro amore con l'ennesima unione di corpi che li lasciò spossati e totalmente esausti.


    Raphael pianse ancora, ricordando come due giorni dopo Alicia e Maggy erano morte. In seguito, sovrappose l'immagine di Alan a quella della moglie.
    Il fiato gli si mozzò in gola e il cuore venne attraversato da un fitta dolorosa, come se qualcuno glielo stesse stritolando.
    Perché doveva essere tutto così difficile? Perché non poteva dimenticare e basta?
    Perché Alan era entrato nella sua vita?
    Se pensava a lui, il proprio corpo e il proprio spirito cominciavano a scalpitare in preda all'agonia e al desiderio. Avrebbe voluto stringerlo, abbracciarlo, inglobarlo dentro di sé e allo stesso tempo allontanarlo, scacciarlo definitivamente.
    Stava così male che faticava pure a respirare.
    E nonostante si stesse pentendo, una parte di lui era cosciente di aver agito per il meglio. Ma quel 'meglio' era per Alan o per se stesso?
    Sicuramente, senza il ragazzino tra i piedi non avrebbe sofferto come un cane ogni volta che ci parlava e Alan non avrebbe dovuto sopportare i suoi apparentemente immotivati sbalzi d'umore. Inoltre, il giovane non era una persona con cui poteva giocare o baloccarsi per un po' per poi sparire, non se lo meritava.
    Allora come mai, quando la sua mente rievocava quel viso ferito, desiderava morire o correre da lui a implorare perdono? Aveva davvero compiuto la scelta corretta?
    Non lo sapeva. Continuava a sentirsi in balia di forze più potenti di lui, uno scoglio corroso prepotentemente dalle onde e dalla corrente. Prima o poi si sarebbe sbriciolato.
    Lo squillo del telefono lo ridestò e si accinse a rispondere asciugandosi le lacrime con il bordo della camicia di lino.
    “Pronto?”
    “Raphael? Sono Glenda.”
    “Ciao”
    “Ciao... stai bene?”
    “No.”
    “Ne vuoi parlare?”
    “No.”
    “D'accordo. Senti, ti volevo invitare ad una cena a casa nostra, martedì sera. Lo zio Raphael manca alla nostra tavola da troppo tempo e i bambini chiedono di te.”
    “Glenda, sputa il rospo.” sospirò il biondo.
    “Ok. Vengono i genitori di Roger – quelle serpi! - e ho bisogno di sostegno morale. Ho licenziato la cuoca, perciò devo cucinare io e sai benissimo che sono in grado di preparare soltanto dell'immangiabile pane di mais. Ti prego...” piagnucolò melodrammatica.
    “Martedì sera?”
    “Sì!”
    “Va bene.”
    “Oh yeah! Fantastico! Allora, vieni alle sei, così mi renderai partecipe delle tue eccezionali doti culinarie!”
    “Ah, quindi non intendevi chiedere il mio aiuto, ma delegarmi tutta la gestione e la responsabilità, così da avere, all'occorrenza, un capro espiatorio.”
    “Esatto. Fammi questo favore, ti scongiuro!”
    “Ok, d'altronde tu hai fatto molto per me.”
    “Raphael, ti amo!”
    “Anch'io mi amo, ti capisco.”
    “A-ha. Su, ti aspetto martedì! Sii puntuale.”
    “Come un orologio svizzero. Non preoccuparti.”
    “Grazie mille!” gli schioccò un bacio attraverso la cornetta e riattaccò.
    Raphael sorrise con aria assorta e scosse la testa. Perlomeno, rivedere i nipoti avrebbe funto da diversivo per non concentrarsi su Alan, e ogni distrazione era ben accetta.
    Non aveva la minima idea di come avrebbe dovuto comportarsi con il ragazzino d'ora in avanti, tuttavia sperava di non incontrarlo mai più, per il bene dei suoi nervi.
    Alan meritava di essere felice e di trovare una persona che lo avrebbe amato per quello che era, e Raphael era perciò il meno indicato per assumere tale ruolo.
    Doveva cancellarlo dalla memoria al più presto.
    Si addormentò sul divano poco più tardi, grazie al ricordo di un bellissimo paio di occhi verdi.
     
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  14. Lady1990
     
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    Il campanello suonò alle sei spaccate e una donna con i capelli castani arruffati e la faccia sporca di farina e albume d’uovo corse ad aprire in perfetto equilibrio sui tacchi a spillo intonati al tailleur che indossava sotto al grembiule giallo canarino, anch’esso nelle medesime condizioni del viso.
    Raphael aveva già la bocca aperta per salutare Glenda con un semplice “Ciao”, ma le parole gli morirono in gola. Dopo un istante emise un gorgoglio indistinto e poi scoppiò a riderle in faccia, ignorando l’espressione risentita della padrona di casa.
    “Sì sì, prendi in giro, ora che puoi ancora farlo. Vedrai come ti farò sgobbare stasera.” borbottò mettendosi di lato, in modo da far accomodare l’ospite.
    Questi vestiva dei pantaloni neri a tinta unita e una camicia bianca semplice con sopra un attillato gilé grigio perla, anche se stava morendo di caldo. La mora soppesò quella visione per un tempo incalcolabile, approfittando delle risa di Raphael per scannerizzarlo a dovere, dalla punta dei capelli domati a colpi di pettine e gel a quella dei piedi infilati in un paio di mocassini neri senza dubbio firmati, e alla fine ritenne di suo gradimento ciò che stava ammirando. Magari, però, gli avrebbe fatto togliere il gilé, altrimenti gli sarebbero venuti due orribili aloni di sudore sotto le ascelle.
    “Uh uh! Scusa, è che sei… beh, non avevo mai avuto il privilegio di vederti in versione casalinga, quindi… ah ah ah! Scusa…”
    “Quando hai finito, fammi un fischio.”
    “No, davvero, scusa.” si calmò il biondo, prendendo ampie boccate d’aria. “Ciao, come stai?”
    Glenda schioccò la lingua stizzita e tornò in cucina senza curarsi di rispondere.
    “Ok…” sospirò Raphael, accingendosi a seguirla.
    Studiò quell’ambiente pomposo che era la casa di Glenda con un cipiglio malinconico e sconsolato: era tutto esattamente come l’aveva visto l’ultima volta, più di un anno prima. Non era cambiato di una virgola, nemmeno un misero granello di polvere era fuori posto. Il lampadario di cristallo che veniva giù dal soffitto e troneggiava imponente sul salone d’ingresso, da cui partiva la classica scalinata che si vedeva nei film, nelle scene dei balli delle debuttanti. Le pareti erano tappezzate di quadri di impressionisti francesi, probabilmente copie minuziose a detta di Raphael, e su ogni ripiano era piazzato un vaso della dinastia Ming o una reliquia antica asiatica, poiché Roger aveva una vera e propria fissazione per l’antiquariato orientale. Raphael non sapeva se il cognato frequentava ancora assiduamente le aste, ma di certo tutti nel campo sapevano chi era. Per questa ragione, quella maestosa dimora sembrava più un’accozzaglia stonata di oggetti che tra loro non ci incastravano nulla e più volte aveva consigliato a Glenda di chiamare un’arredatrice, almeno avrebbe scovato lei il posto perfetto per ogni ninnolo o cimelio storico-culturale.
    Al piano di sopra, se non andava errato, c’erano le camere da letto con i bagni e un salottino per gli ospiti; al piano terra la sala da pranzo, il salotto, la cucina e un altro bagno; sottoterra vi era la cantina dei vini, una palestra e una piscina al chiuso con sauna annessa. Giusto una normalissima casetta, come se ne vedono tante in giro…
    Raphael si sentiva un povero straccione quando metteva piede in quella villa.
    “Allora, come procede? I ragazzi?”
    “Rose è uscita con delle amiche, dovrebbe tornare per le sette. Jack, invece, dovrebbe essere in camera sua a giocare a quei dannati videogiochi. Non fa altro tutto il giorno.” lo informò, facendogli successivamente un cenno verso la poltrona del soggiorno e poi verso il gilé.
    “E la scuola?” chiese, spogliandosi velocemente della corazza di tessuto che si era costretto a indossare, essendo Glenda un tipo molto esigente in termini di abbigliamento. “Uff… menomale che hai il condizionatore, sto grondando.”
    La donna afferrò uno straccio e lo inumidì sotto l’acqua, prima di passarlo sul tavolo a penisola per ripulirlo di briciole e macchie incrostate di chissà cosa. “Ha l’insufficienza in storia e arte. Dice che le odia e che sono inutili.”
    “Hai pensato a fargli prendere delle ripetizioni?”
    “Roger afferma” assunse una posa solenne, da oratore davanti a un comizio, con l’indice puntato verso l’alto davanti alla faccia, “che il giovanotto deve essere libero di esprimersi e che, se detesta quelle materie, è perfettamente legittimo. Chi si interessa di quadri e battaglie o quadri di battaglie, al giorno d’oggi? Meglio concentrarsi sul presente, su cose concrete.” sbuffò e scosse la testa. “A mio marito basta che Jack vada bene in matematica e scienze, il resto è superfluo.”
    “Ma se non ottiene almeno la sufficienza, non passerà l’anno.” le fece notare il trentaquattrenne, mentre aiutava l’altra a distribuire le pentole accanto ai fornelli.
    “Lo so! Ma vallo a dire a quel… quel brutto traditore!”
    Raphael arrestò i movimenti e guardò Glenda con compassione. “Non avete ancora risolto?”
    “Risolto cosa, di preciso? Per lui va tutto a meraviglia, non c’è nessun problema.” sbatté i palmi sul piano cottura e corrugò le sopracciglia. “Ma sai che ho deciso? Assumerò un investigatore privato e lo smaschererò! Sono stufa di recitare la parte della scema!”
    “Secondo me, dovresti parlarne con lui.”
    “A quale scopo? Lui nega! Devo coglierlo in flagrante, così…”
    “Così, l’unica conseguenza che ne verrà sarà contattare i vostri avvocati per avviare le pratiche di divorzio, anche in caso che Roger scoprisse i tuoi piani e si rivelasse innocente.” completò il biondo incrociando le braccia sul petto. “Glenda, immagina allo shock che subiranno i tuoi figli.”
    “Non penso che a loro importi qualcosa se noi-”
    “Stronzate! Importa sempre. Le circostanze sarebbero diverse se uno di voi due, o te o Roger, fosse un genitore violento o un ubriacone o un criminale. Ma siete due persone normali, amate i vostri figli e desiderate soltanto il meglio per loro. Prima di rovinare tutto, cerca di affrontare la cosa con maturità, metti da parte la gelosia.”
    “Fai presto a parlare, tu. Fermati un attimo a riflettere. Mettiamo, per ipotesi, che Alicia sia ancora viva e che ti tradisca con un altro. Riusciresti ad essere razionale, senza farti sopraffare dalla gelosia e dalla rabbia?”
    Raphael si adombrò, ma ci pensò veramente. Chiuse gli occhi e si grattò il mento, appoggiandosi con un fianco al bordo del tavolo. “Beh… ammetto che, in un primo momento, mi sentirei furioso e faticherei a comprendere il motivo del suo gesto. Ammetto che proverei rabbia e mi sentirei tradito nell’intimo. Però…” guardò Glenda con un sorriso triste, “però io la amo. E siccome la amo più di me stesso, tenterei di venirne a capo con lei, scoprendo tutte le carte e cercando di trovare una soluzione. Se lei non mi ama più, non vorrei renderla infelice costringendola a stare con me. Ma se, al contrario, prova ancora dei sentimenti per me, allora farei di tutto per farli riemergere.”
    Glenda lo fissò leggermente colpevole, non voleva forzare Raphael a immaginare una situazione simile, a paragonare due realtà che mai coesisteranno e mai potranno essere confrontate. Tuttavia, lì per lì, gli era parsa la strategia migliore per spronarlo a mettersi nei suoi panni.
    “Perdonami, ti ho costretto a…”
    “No, non preoccuparti. Per fortuna, non sarò mai obbligato a fronteggiare una cosa del genere.” le sorrise incoraggiante, anche se aveva gli occhi lucidi. “Comunque, la domanda è: tu ami Roger?”
    “Io…” sospirò stancamente. “Io non lo so più. Mi sembra quasi di non conoscerlo, mi sembra di avere a che fare con un’altra persona rispetto a quella che ho sposato.”
    Il biondo aprì un cassetto e ne estrasse due mestoli. “Allora, fai chiarezza in te stessa e poi decidi.”
    “Però, anche se lo amassi, ora è tutto diverso. Le cose non potranno mai tornare come prima.”
    “Sì, che potranno. Se c’è uno sforzo da entrambe le parti per superare questo ostacolo, tutto si risolverà. Amor vincit omnia.”
    Glenda ridacchiò e si voltò per aprire il frigo. “Va bene, adesso concentriamoci sulla cena, non voglio pensare o sentir nominare Roger per le prossime due ore.”
    “Ricevuto, capo! Da dove vuoi cominciare?”
    La mora esitò. “Dal pane di mais?”
    “Niente pane di mais stasera! Faremo un menù a base di verdure, dato che, se non ricordo male, tua figlia e tua suocera sono vegetariane. Come pane prepareremo del riso integrale, che è più sano e naturale perché non è raffinato artificialmente, così se qualcuno vuole rimpolpare con un po’ di sostanza, può servirsi con quello.”
    Raphael accese i fornelli, prese una pentola e ci versò dentro l’acqua del rubinetto.
    “Come antipasto presenterai uno sformato di spinaci e formaggio, il primo lo tralasciamo e per secondo involtini di melanzane impanati e fritti con sopra salsa di pomodoro. Per contorno direi di fare le carote al latte e anche… uhm… piselli. Come dolce ci sarà una torta di frutta.”
    “Qui ho un ananas.”
    “Perfetto. Se farai esattamente ciò che ti dico, i complimenti si sprecheranno.”
    Glenda rivolse all’altro un’occhiata adorante e commossa. “Perché non ho sposato te?”
    “Perché ero innamorato di tua sorella.”
    “Ah, giusto. Ti andrebbe di essere il mio amante?”
    “Ti accontenti di un cuoco saltuario?”
    “Ottimo compromesso. Affare fatto.”
    Glenda si rivelò, nonostante le apparenze e le continue lamentele circa la propria inettitudine in cucina, un’aiutante capace con del talento sopito e Raphael non mancò più volte di farglielo notare, ripetendole quanto fosse brava e quanto fosse veloce ad imparare.
    “Dio…” biascicò assaggiando un pezzo di ananas, “non credevo che spentolare fosse così divertente. Ne farò il mio nuovo hobby, dopo il tennis.” sentenziò determinata.
    “Smettila di ingozzarti, altrimenti non rimarrà nulla per gli ospiti!” la prese in giro Raphael, e in risposta la donna gli lanciò addosso un pezzo di carota cruda. “Hey! Dico sul serio, se inizi ad abbuffarti e a prenderci gusto ora, tra un mesetto diventerai un piccolo barilotto. Ma ricorda, ti vorrò bene comunque.”
    Sulla guancia gli giunse un po’ dell’impasto della torta e se lo asciugò sghignazzando con un fazzoletto.
    La porta di ingresso sbatté all’improvviso e Glenda, pulendosi le mani sporche sul grembiule, si affacciò dalla cucina.
    “Rose! Vieni a salutare lo zio!”
    “Lo zio?”
    “Sì!”
    Una ragazza molto carina, minuta, con lisci e lunghi capelli castano scuro legati in una coda alta e occhi marroni, raggiunse la madre e la sorpassò senza degnarla di uno sguardo.
    “Zio!” esclamò Rose contenta, circondando il collo di Raphael con le braccia e facendolo piegare per lasciargli un bacio sulla guancia.
    “Ciao, raggio di sole! Sei sempre più bassa… Ahi!”
    Rose, al commento, gli aveva tirato un pugno sul braccio, ma poi aveva ridacchiato, ben sapendo che Raphael stava scherzando. Sì, arrivava a fatica al metro e sessanta, ma aveva soltanto quindici anni, c’era ancora tempo per crescere.
    “Cavolo, se sapevo che eri invitato anche tu a questa stupida cena, sarei tornata prima! Ho un sacco di cose da raccontarti. Preparati, perché dovrai sorbirti quasi un anno di arretrati!”
    “Grazie per avermi avvisato, cercherò di bere il più possibile.”
    La giovane rise e arrossì. Il suo corpo era magro e con le forme al posto giusto e, se non avesse avuto ancora il viso rotondo come quello di una bambina, sarebbe tranquillamente potuta passare per una donna. Forse un po’ tappa. Raphael la osservò intenerito, ricordando con nostalgia quando la teneva sulle ginocchia e la faceva giocare, anche se aveva dieci anni ed era grande per il cavalluccio.
    Rose si avviluppò intorno al suo braccio sinistro e studiò il contenuto delle padelle.
    “Che stai preparando?”
    “Sto aiutando tua madre con la cena.”
    “Vuoi dire che stai facendo tutto te, non è vero? Lei non sa cucinare, non l’ha mai fatto.” disse con una smorfia.
    “Oh, ti sbagli. Senza il suo aiuto, non sarei mai riuscito a preparare questi prelibati manicaretti. Ha un talento nascosto, fidati.” le ammiccò sorridente, lanciando poi un rapida occhiata dispiaciuta a Glenda, che aveva ripreso a mescolare l’impasto per la torta in silenzio.
    “Smettila di difenderla! So bene che tu cucini divinamente, non serve che attribuisci il merito delle tue azioni a qualcun altro solo per pietà. Ah, non vedo l’ora di sedermi a tavola!” Rose strusciò la guancia sul bicipite del biondo con aria sognante e sfoggiò un sorrisetto malizioso. “Dovresti venire a trovarci più spesso, sai? Mi sei mancato tanto!”
    “Ma guarda un po’ come siamo diventate civettuole! Di un po’, ce l’hai il fidanzato?”
    “Sì, ma è un trastullo. Lo sfrutto quando mi annoio o come facchino quando le mie amiche non possono accompagnarmi a fare shopping.” illustrò altezzosa con espressione fiera.
    “Ma poverino! Rose, non dovresti usare le persone come se fossero oggetti.” la redarguì bonario Raphael.
    “Beh, ho accettato di mettermi con lui perché mi faceva pena, nient’altro. E poi, è il capitano della squadra di football, tutte le ragazze della scuola mi invidiano. Non sto certo con lui perché lo amo, figuriamoci! È solo il mio personale zerbino, e lui pare felice di esserlo.”
    Raphael scoppiò a ridere, stupito e al contempo sconcertato delle dinamiche mentali della nipote. Precoce, la fanciulla.
    “Prima o poi ti innamorerai anche tu.”
    “Ma io lo sono già!” ribatté la ragazza.
    “Ah, sì? Di chi?”
    “Di te, ovvio!”
    “Ahhh…” esalò il biondo, avvalorando il suo timore.
    Rose aveva iniziato a sottoporlo ad una specie di corte due anni prima, ma lui credeva che nel frattempo le fosse passata, in fondo era solo una banale fissa adolescenziale. Tuttavia, ogniqualvolta veniva fuori l’argomento, non poteva fare a meno di sentirsi a disagio, perché non aveva la minima idea di come gestire la faccenda senza provocare scenate isteriche o traumi o risentimenti a lungo termine.
    A quel punto, Glenda intervenne per toglierlo d’impaccio: “Tesoro, perché non vai a prepararti? I nonni arriveranno tra poco più di mezzora, non vorrai che ti vedano vestita così?”
    “E come sarei vestita? Sentiamo.” replicò acida la figlia.
    “Rose, non puoi venire a cena con quel top semitrasparente che ti lascia scoperto l’ombelico e quegli shorts all’inguine! Alla nonna verrà un infarto.”
    “Intendi dire che se la prenderà con te e ti darà della madre degenere, che permette alla propria figlia quindicenne di vestirsi come una sgualdrina. A me invece darà solo qualche bacetto e qualche banconota per comprarmi un bell’abito, lo sai.”
    “Basta, Rose! Fila di sopra.” ordinò secca e la ragazzina obbedì sbuffando, non prima di aver fatto l’occhiolino allo zio.
    Il suddetto zio, una volta assicuratosi che la nipote fosse a debita distanza, fischiò colpito. “Wow, una forza della natura.”
    “No, soltanto una mocciosa viziata. Roger le permette tutto ed io non riesco a impormi.”
    “Lascia stare, è una fase, lo sappiamo tutti. Anche tu ci sei sicuramente passata, succede.”
    “Spero che finisca presto, perché i miei nervi sono a pezzi.”
    “Coraggio, aiutami a saltare le carote.” la distrasse, mettendole in mano un mestolo e indicandogli la padella.
    “Menomale che ci sei tu…”
    “Già, me lo dico spesso quando sono solo.” annuì comprensivo.
    Glenda ridacchiò e gli assestò una giocosa pacca sul sedere.
    “AH! Per l’amor del cielo! Se ti beccasse Roger…”
    “Mi direbbe che ho buon gusto.”
    “Lo so, sono il migliore.”
    “Sbrighiamoci, dai.”
    “Sei tu la perdigiorno, non io.”
    Alle otto e dieci suonò di nuovo il campanello e una Glenda vestita con un completo Chanel rosa antico si precipitò ad aprire, indossando anche il sorriso più falso e luminoso del proprio repertorio. Si era lavata e acconciata i capelli castani in un chignon sulla nuca, si era rifatta il trucco e al collo aveva messo la collana di perle di Majorca che la suocera le aveva regalato per le nozze.
    “Charlotte, Philip, benvenuti.” li accolse con cortesia e prese in consegna il cappello rosso a tesa larga della signora e il cappotto estivo grigio scuro del signore.
    La coppia di anziani entrò senza rispondere al saluto, seguiti a ruota da Roger, che scoccò alla moglie un’occhiata esausta.
    “Mamma, papà, perché non vi accomodate in sala da pranzo? La cena sarà servita fra pochi minuti.” li invitò ad accomodarsi.
    Il signor Philip Rockwood era un famoso imprenditore, passava più tempo all’estero per lavoro e per rotolarsi nei letti di giovani donne sconosciute e dal fascino esotico piuttosto che in compagnia della consorte. La signora Charlotte Rockwood era una ricca ereditiera scozzese, una persona molto attaccata alle tradizioni e al buon costume. A quanto ne sapeva Glenda, si erano conosciuti al ricevimento di un magnate industriale asiatico durante una crociera sul Nilo e si erano sposati perché lei era rimasta incinta. Però, se chiedevi in giro, la versione che ti capitava di udire più spesso era che si erano innamorati subito e lui le aveva chiesto di sposarlo su un’isola tropicale alla luce calda del tramonto, quando invece, grazie a Roger, era stata messa al corrente che la proposta era avvenuta in una limousine dopo qualche bicchiere di troppo - l’alcool, in quel caso, era servito per affogarci dentro la rabbia e la frustrazione per essersi fatti incastrare dal fato maligno. A giudicare da tali fatti, Charlotte doveva aver vissuto una vita movimentata, ed era sorprendente quanto fosse cambiata con gli anni, trasformandosi nella vipera bacchettona che era adesso. E, se li si osservava con attenzione, si poteva intuire facilmente che i due non si sopportavano.
    Raphael rimase in disparte, attendendo da Glenda il segnale concordato per prendere parte al teatrino, e nel frattempo perfezionava nel dettaglio i piatti già riempiti, in modo che la composizione risultasse artistica, come in un ristorante d’alta classe. La mora gli doveva un immenso favore.
    “Charlotte, Philip, vi ricordate mio cognato Raphael?”
    Ecco il segnale. Il biondo si fece avanti con un gran sorriso. “Buonasera. È passato tanto dall’ultima volta.” li salutò cordialmente.
    “Oh, Raphael!” gli si fece incontro Charlotte, abbracciandolo come se fossero amici di vecchia data. “Come stai, caro?”
    “Ciao, Raphael.” gli ammiccò Roger.
    “Roger. Lieto di rivederti.”
    “Raphael! Che piacere!” gli strinse la mano Philip e la sua stretta poderosa rischiò di sbriciolargli le ossa. Si trattenne a stento dal massaggiarsela.
    “Grazie, anche per me è un onore. Sto bene e voi?”
    La signora Rockwood alzò le spalle e roteò il polso con fare elegante. “Oh, caro, come vuoi che vada? Le solite cose: cene, ricevimenti, matrimoni di amici, funerali di amici… appuntamenti con chirurghi plastici…”
    “Ma no, Charlotte! Lei è sempre stata un donna splendida, l’età non l’ha affatto rovinata. Non dica di aver bisogno di un chirurgo, sono soltanto sciocchezze, mi creda. E quelli ci guadagnano a far sentire brutte le persone, soprattutto le belle signore come lei.”
    Charlotte rise lusingata: “Oh! Adulatore!” e i coniugi Rockwood senior si appartarono in sala da pranzo con un Raphael arreso al suo destino, modello vittima sacrificale.
    I Rockwood junior, invece, colsero la palla al balzo e si adoperarono come formiche, l’una a imbandire la tavola, l’altro a cercare nella fornitissima cantina le bottiglie di vino adatte all’occasione e alle pietanze.
    Dopo cinque minuti scesero anche Rose e Jack, la prima vestita da metallara, il secondo in tuta da ginnastica. Glenda impallidì e portò una mano a coprirsi la bocca, sconvolta come tutti i presenti. Jack poteva passare, aveva solo undici anni, ma non era ammissibile che la sorella si presentasse conciata in quel modo. La maglietta a maniche corte recante l’immagine di un teschio ghignante, dei pantaloncini neri pieni di catenelle e spilli da balia, dei calzini a righe verdi e nere e un trucco pesante rendevano la sua figura esile alquanto grottesca.
    “Oh mio oddio.” fu la madre a rompere il silenzio creatosi improvvisamente tra i convitati e accorse in due secondi accanto alla figlia. Le afferrò bruscamente il braccio e la trascinò in cucina con un sorrisino nervoso, dicendo: “Dateci solo un momento, continuate pure a conversare.”
    Chiuse la porta a vetri della cucina con un sonoro tonfo e incenerì Rose con l’occhiata più omicida che poteva.
    “Che cosa credi di fare?” scandì sibilando.
    “Niente. Mi hai detto di andare a cambiarmi ed è ciò che ho fatto. Non hai mica specificato come mi dovevo vestire…” le rispose la ragazza, arricciandosi una ciocca di capelli su un dito e guardando altrove.
    “Tu, ora, farai come ti ordino. Tornerai in camera tua, indosserai quel bellissimo abito color crema che ti ha regalato tua nonna l’anno scorso per il tuo compleanno e ti struccherai fino all’ultimo poro di pelle! Siamo intesi?”
    “Perché, scusa? Hai qualche problema?”
    “Io no, puoi metterti addosso quello che ti pare, anche un sacco dell’immondizia, per quel che mi riguarda! Ma di là, eh eh, c’è quell’arpia di tua nonna e Dio solo sa che cosa ti dirà per-”
    Cosa dirà a te, mamma. Se la prenderà con te, lo sappiamo benissimo entrambe.”
    “Ah, allora lo fai perché ce l’hai con me? E a cosa devo questa vendetta? Non hai tutto quello che desideri? Una bella casa, un sacco di amici, i vestiti che vuoi, cos’altro c’è? Perché mi fai questo?”
    “Per vendetta, hai detto giusto.”
    Glenda cercò di calmarsi e si massaggiò l’attaccatura del naso, riflettendo. “D’accordo. Cosa ho fatto per meritarmelo?”
    Rose non rispose. Si voltò e si allontanò di qualche passo.
    “Non darmi le spalle quando ti parlo, signorina!”
    “Non chiamarmi signorina!” ringhiò fronteggiando la madre.
    “Chi ti credi di essere per trattarmi così, me, tua madre?”
    “Io ti odio. Non ho nulla da aggiungere.”
    “E perché mi odi?”
    La giovane sbuffò. “Lascia perdere.”
    “No, non lascio perdere, mia cara! Sono anche affari miei, mi stai rovinando la cena!”
    “E’ solo di questo che ti importa, non è così? Una stupida cena!”
    “Rose, accidenti! Perché non fai la brava per un paio d’ore o tre, eh? Cosa ti costa?”
    “Farò la brava.”
    “Eh?” Glenda la fissò incredula.
    “Farò la brava. Ma non andrò a cambiarmi. Non è il mio abbigliamento che definisce chi sono. Io sono io, anche se indossassi un sacco dell’immondizia.”
    “Ma tua nonna…”
    “La nonna dovrà abituarsi. Se mi vuole bene, saprà accettarmi anche così. Altrimenti, vorrà dire che per lei non valgo un soldo bucato se non sono messa in tiro con tacchi vertiginosi e abitini frou-frou. E questo non è affetto, è solo ipocrisia, falsità. Siete tutti dei perbenisti del cavolo!”
    Glenda era allibita, senza parole. Mai aveva udito frasi simili uscire dalla bocca della figlia e per un attimo si chiese se esse non fossero rivolte più a lei che a Charlotte.
    Rose aprì la porta e si diresse in sala da pranzo, salutando calorosamente i nonni e il padre. Anche la donna tornò in sala e immediatamente il marito le si avvicinò furtivo, stritolandole il polso minaccioso.
    “Cosa significa questa pagliacciata?” le bisbigliò furioso all’orecchio.
    “Chiedilo a tua figlia, è tutta opera sua. Ho tentato di farla ragionare, ma niente. Perché non ci provi tu, tesoro?” gli sorrise serafica, mentre dava fondo a tutta la sua forza interiore per non abbandonarsi al pianto o ad alcuna smorfia di dolore.
    Raphael, percependo qualcosa, si alzò da tavola e circondò le spalle di Glenda, portandola via. “Voi cominciate a mangiare, non badate a noi. Torneremo prima che ve ne accorgiate.”
    La condusse al piano di sopra, in camera da letto e la fece sedere sul materasso, inginocchiandosi poi di fronte a lei.
    “Mi hai salvata…”
    “Glenda, che succede?”
    La mora scoppiò in singhiozzi e abbracciò l’uomo in cerca di conforto. Il biondo le accarezzò dolcemente la testa, spiazzato.
    “Coraggio, non abbatterti.”
    “E’ un disastro… un vero disastro! Non c’è via d’uscita, Raphael, non esiste!”
    “Non dire così.” le prese il viso tra i palmi delle mani e la costrinse a ricambiare il suo sguardo addolorato. “Non devi cedere. Non devi smettere di lottare. Tu sei forte, Glenda, sei una donna meravigliosa. Per tutti questi anni sei riuscita a tenere unita la tua famiglia e, anche se la situazione non è certo idilliaca, gli sforzi che fai ogni giorno non si riveleranno vani.”
    Glenda scosse la testa piangendo, il trucco che colava e le rigava le guance. “Il mio analista dice che non devo mai mostrarmi debole, che devo essere comprensiva, accomodante, tollerante. In pratica, devo ingoiare ogni torto senza emettere fiato, essere sottomessa e remissiva. Ma… soffro così tanto… soffro così tanto.” si asciugò le lacrime e singhiozzò di nuovo. “Ogni mattina, io mi alzo e mio marito non è nel letto a darmi il buongiorno, i miei figli mi ignorano o mi insultano ed ogni sera vado a dormire e, se penso che il giorno dopo tutto si ripeterà, mi vengono delle crisi di panico… non ce la faccio, Raphael. Non sono forte.”
    Il biondo inarcò un sopracciglio e sospirò. “Il tuo analista è un idiota. Non andare più in terapia da lui, è un maschilista del piffero. Per il fatto che ti senti sotto pressione, prenditi una vacanza. Prendi ferie e vai a farti un viaggio, non necessariamente lontano. Solo, vattene via per un po’ e respira aria diversa, dedicati a te stessa, ritrova te stessa. A quel punto, tutto ti apparirà più chiaro.”
    Glenda lo scrutò assorta. “Posso venire a stare da te?” gli sorrise timida.
    “Assolutamente no.” le rispose lui alla stessa maniera.
    “Perchééé?” si lagnò l’altra.
    “Perché non posso darti asilo in casa mia. Tuo marito sa dove abito, potrebbe compiere un’incursione notturna e minacciarmi, non mi va di rischiare la vita.”
    “Ma io direi che parto per, non so, le Hawaii e invece vengo da te.”
    “Ok, l’idea del viaggetto è bocciata. Una gitarella durante il weekend?”
    “Verresti con me?”
    “No.”
    “Perchéééé?”
    “Perché non riuscirei a sopportarti per due interi giorni.”
    “Sei cattivo. Perfido.”
    “Lo so e me ne compiaccio.” Raphael le prese le mani fra le proprie. “Glenda, cancella ciò che ti ho detto prima, mentre stavamo cucinando. Tutti hanno il diritto di essere felici, compresa te. Se non sei felice qui, in questa casa, accanto a Roger, allora sono il primo a esortarti a procedere con il divorzio. Avrai poi il tempo per riallacciare i rapporti con Rose e Jack, sono piccoli e devono ancora maturare, ma la cosa essenziale è che tu stia bene con te stessa, che tu sia serena. Voglio che ti svegli la mattina con il sorriso sulle labbra, che guardi fuori dalla finestra e che gioisca alla vista della pioggia come se fosse una splendida giornata di sole. Voglio che tu vada a dormire provando una sana e pacifica spossatezza, perché sai di aver fatto del tuo meglio e che il giorno seguente sarà ancora più brillante di quello appena passato. Voglio sentirti dire: “Raphael, io sono felice”. Perché è questo ciò che veramente conta. Non le apparenze, non i soldi né le opinioni altrui. Tu sei importante, Glenda. Ricordalo sempre.”
    “E per chi sarei importante?”
    “Per me. E lo sarai anche per i tuoi figli, ne sono sicuro. Solo che ancora non lo sanno.”
    “Raphael, vuoi sposarmi?”
    “No.”
    “Peccato.”
    “Forza, torniamo di sotto?”
    “Non ne ho voglia. Rimango qui. Avverti che mi sono sentita male e che è consigliabile che riposi.”
    “Va bene, per stasera sei giustificata. Baderò io agli ospiti, non preoccuparti di niente.”
    “Grazie, Raphael. Grazie davvero.” un’ultima lacrima le rigò la pelle e il biondo l’asciugò prontamente con il pollice.
    “Non piangere più.”
    “Non lo prometto. Inoltre, questi bei discorsi dovresti farli anche a te stesso, qualche volta.”
    “Naaa, mi verrebbe a noia sentirmi parlare.” si alzò e sorrise.
    Le scoccò infine un bacio sulla fronte, uscì dalla camera e accostò con delicatezza la porta.
    Sul serio, non aveva idea di che problema avesse quella famiglia. Roger era sposato con una donna favolosa, perché si comportava da imbecille e la faceva soffrire? Per non parlare di Rose: che cosa la spingeva a disprezzare così apertamente e platealmente la madre? Non si rendeva conto di stare commettendo un errore dietro l’altro? Oppure era accaduto qualcosa di grosso, fra le due?
    Come mai nessuno le faceva notare quanto stesse sbagliando nei confronti della persona che più la amava sulla faccia della terra?
    I suoi occhi ebbero un guizzo. Ecco il problema: nessuno, molto probabilmente, l’aveva mai rimproverata.
    Beh, in verità non gli andava a genio il pensiero di intromettersi in faccende che non lo interessavano, però qualcosa doveva pur fare e un bel discorsetto a Rose era l’unica opzione considerabile e accettabile. Anche se lui non era suo padre, al mondo ci sono delle cose che non vanno fatte e qualcuno lo deve pur spiegare, soprattutto trattandosi di una ragazzina quindicenne con gli ormoni in fermento e in ribellione con la genitrice. Una storia vecchia e comunissima, ma se nessuno aveva insegnato a Rose quali erano i limiti, lei li avrebbe varcati provocando l’irreparabile. Nessuno le aveva insegnato quando era l’ora di smettere di fare i capricci e il solo che la giovane avrebbe ascoltato era Raphael.
    Sperò soltanto di non attirarsi le ire della piccola, del padre di lei e dei genitori di lui.
    Un tempo non era così altruista, gli piaceva affermare: “Ad ognuno i suoi problemi, vivi e lascia vivere”, ma cosa lo aveva fatto cambiare, poi?
    Gli occhi gli caddero casualmente su una foto in bianco e nero, posta su un cassettone lungo il corridoio che stava attraversando e che lo avrebbe riportato in sala da pranzo. Sbuffò e sorrise dolce alla sua adorata Alicia, che lo guardava felice dall’interno di una cornice di legno chiaro.
    La cena procedette, per grazia divina, senza ulteriori intoppi. Non mancarono i commenti caustici di Charlotte, le risate e le battute inopportune di Philip e i mugugni annoiati di Jack, che voleva finire presto e tornare a giocare alla Wii. Raphael e Roger collaborarono per contenere le piccole liti tra Rose e suo fratello e per intrattenere i vecchi coniugi al meglio. Costoro, di solito in disaccordo su tutto, per tutta la sera si prodigarono ad insultare, velatamente o esplicitamente, Glenda e il suo modo rozzo e maleducato di gestire anche i semplici eventi in famiglia; in risposta, Roger scuoteva la testa e annuiva, Rose sfoggiava un sorrisetto beffardo, Jack era indifferente e il biondo non tradiva alcuna emozione, i pugni chiusi sulle ginocchia fino a far sbiancare le nocche, sotto il tavolo.
    Alle undici i Rockwood levarono le tende e Raphael si accasciò privo di energie su una poltrona davanti al camino spento del salotto. Roger lo raggiunse e si accese un sigaro cubano, poi prese dalla madia di legno una bottiglia di Porto e due bicchierini. Infine li riempì e uno lo porse al trentaquattrenne.
    “Grazie.” lo tracannò in un unico sorso. “Vado a sparecchiare e a riempire la lavapiatti.” mormorò esausto.
    “Quando serve una cameriera, non ce n’è mai neanche l’ombra…” borbottò irritato il padrone di casa. “Ti ringrazio, Raphael. È stata una serata pessima.”
    “Poteva andare peggio…”
    “Su questo hai ragione: non c’è mai limite al peggio.”
    “Dai, guardiamola dal lato positivo: i tuoi non si faranno più vivi per qualche mese, concedendovi una meritata tranquillità psicologica, tua figlia potrà vestirsi come le pare, Glenda non metterà più piede in cucina e Jack costruirà una solida relazione con il joystick e il tappeto davanti allo schermo della televisione.”
    “Domani, forse, la vedrò così, ma ora voglio soltanto infilarmi nel letto e piombare nel sonno.” in quel preciso momento, il suo cellulare squillò. “Scusami un attimo, Raphael. Pronto? Oh! Sì… adesso? No, è che i miei genitori se ne sono andati da poco e… va bene… quale? D’accordo. Sì, non c’è problema. A dopo.” riattaccò con un sorriso tirato e falso e fissò il biondo con imbarazzo. “Ehm, una chiamata di lavoro. Devo andare. Dì a Glenda che torno tardi, per favore.”
    “Mh.” lo guardò severo, ma si risparmiò i commenti.
    Nell’ora che seguì mise tutto in ordine e, appena inserì il programma di risciacquo nella lavastoviglie, Glenda scese le scale in vestaglia e infradito.
    “Raphael, sei ancora qui?” poi squadrò incredula la sala da pranzo così linda da sembrare abbagliante e la cucina pulita, mondata da ogni minuscola briciola. “Cavolo… Roger ti ha aiutato?”
    “E’ uscito. Ha detto che tornerà tardi.” le rispose atono, senza voltarsi. “Va’ pure a dormire, Glenda. Finisco di mettere a posto e poi torno a casa. Ah, prendi una pasticca per il mal di testa.”
    “Non ti ho mai detto di avere il mal di testa.”
    “Quando piangi e sei stressata soffri di emicrania.”
    “Te lo ricordi…” sussurrò commossa.
    “Perché non dovrei? Coraggio, devi riposare.”
    Dopo essersi assicurato che la cognata dormisse, bussò con discrezione alla porta della camera di Rose, sperando di trovarla ancora sveglia. Fu esaudito e la nipote venne ad aprirgli con la faccia struccata e il pigiama rosa con il bordo di pizzo bianco. Raphael sorrise divertito: quella ragazza era una contraddizione vivente, oppure straordinariamente versatile e camaleontica.
    “Zio! Che c’è?” domandò stupita.
    “Volevo parlarti, mi fai entrare?”
    Rose si scostò per lasciargli spazio e richiuse la porta. “Di cosa vuoi parlarmi?”
    “Di stasera.”
    La quindicenne sbuffò teatralmente e si gettò a pancia in giù sul materasso. Raphael le si sedette accanto e le accarezzò i capelli lisci e profumati di shampoo, sospirando.
    “Rose, cosa succede?”
    “In che senso?” mugugnò lei.
    “Lo sai, non trattarmi da stupido.” la rimproverò con voce pacata. “Perché nutri così tanto rancore nei riguardi di tua madre?”
    “Perché la odio.”
    “Non è vero. Avanti, raccontami tutto.”
    Rose si girò supina e fissò il soffitto. “Tanto per cominciare, mi ha iscritta in un liceo che detesto. Poi mi ha costretta a fare pallavolo e pretende che mi vesta con l’abbigliamento che sceglie lei. Non mi lascia decidere niente, mi tratta come una bambina!” sibilò con astio.
    “Hai solo quindici anni, piccola.”
    “Ma non ne ho sei! Sono grande, ormai.”
    “Non lo si è mai, fidati. Anche alla mia età, continuo ad imparare molte cose che prima ignoravo. Perfino quando si raggiunge la vecchiaia, non è detto che si diventi maturi e saggi.”
    “Ok, ma almeno vorrei essere io a scegliere che sport fare o cosa indossare! Non chiedo molto!”
    “Sono d’accordo, però perché non ne parli con tua madre?”
    “Perché troverebbe sicuramente un miliardo di ragioni valide per contraddirmi.”
    Raphael sospirò di nuovo. “Tesoro, Glenda sta attraversando un periodo difficile, te ne sei accorta?”
    “Lavora troppo? Basterebbe che si prendesse le ferie!”
    “Rose, ascoltami. Prova a metterti nei suoi panni; non è facile il mestiere del genitore, te lo assicuro, richiede impegno, concentrazione e una buona dose di sacrificio. Rifletti: se tua madre non avesse più il suo lavoro, non vivresti in tutto questo lusso. Certo, tuo padre guadagna tanto, ma da solo non ce la farebbe a mantenere te, tuo fratello, sua moglie e questa villa. Concordo che, in ogni caso, non vi mancherebbe niente di ciò di cui avete bisogno, ma Glenda ha sempre fatto del suo meglio per garantire ai suoi figli una vita agiata, senza privazioni. Inoltre, lei ti vuole bene e se tu la informassi dei tuoi reali desideri, sono più che sicuro che non resterebbe indifferente. Tu ti lamenti e basta, ti arrabbi con lei, ma le hai mai detto che odi la pallavolo o la scuola?”
    “No…”
    “Allora fallo. I veri problemi sono altri, in confronto queste sono inezie.”
    “Zio, lei non mi ascolta! Non mi capisce, vede le cose solo dal suo punto di vista!”
    “Appunto, a maggior ragione, devi essere tu quella che le viene incontro. Se lei non ci riesce da sola, aiutala a capirti.”
    “Ci sei mai passato?”
    “Beh…” tergiversò il biondo, preso in contropiede, “in verità, me ne andai di casa quando compii vent’anni. Ma i motivi erano di altra natura, più seri.”
    “Cioè?”
    “Non mi va di parlarne e stiamo andando fuori argomento.” glissò con disinvoltura. “Sei giovane, Rose, ma quando crescerai e diventerai adulta comprenderai quanto è difficile vivere nel mondo. Nulla sarà semplice, dovrai combattere contro il dolore, la delusione, la solitudine. Ti capiteranno dei momenti bui, in cui ti sembrerà di naufragare, non avrai appigli di alcun genere, ma non dovrai mai arrenderti. Tua madre sarà sempre dalla tua parte, te lo garantisco, perché ti ama. Sarà lei il tuo scoglio. Dalle un’altra possibilità e guardala negli occhi, imparala a memoria e mostrati per la ragazza solare e intelligente che sei. Grazie al tuo sostegno, Glenda diverrà più forte e tu con lei.”
    “Ma se non dovesse ascoltarmi?”
    “Insisti, finché non aprirai una breccia.”
    “Zio.” abbassò gli occhi e disegnò dei ghirigori sul lenzuolo con il polpastrello. “Vorrei tanto che fossi tu, mio padre. Tu sei il mio ideale di uomo e sono innamorata di te, però sono consapevole che i miei sono solo sogni infantili e che tu non mi guarderai mai in quel modo, con la stessa luce negli occhi con cui contemplavi rapito mia zia Alicia. Sono sempre stata gelosa di quella luce, la volevo tutta per me. Però, se tu fossi mio padre, mi andrebbe bene comunque.”
    “Rose,” la chiamò dolcemente, “non sono un estraneo, sono tuo zio. Facciamo parte della stessa famiglia, siamo imparentati, io ci sarò sempre nella tua vita, di questo non dubitare. Non mi perderai. Non posso essere tuo padre e neanche tuo fratello. Ma posso essere tuo amico, se lo vorrai.”
    “Mh.” fece un respiro profondo e tirò su col naso. “Ti mancano molto? Alicia e Maggy.”
    “Non immagini quanto, piccola. Ogni giorno senza di loro è una tortura, ma vado avanti.” le sorrise triste. “E ora raccontami di questo fidanzato-zerbino.” le ammiccò complice.
    “Bah, non c’è niente da dire.”
    “Dai, non è da te essere tirchia di pettegolezzi sentimentali!”
    La ragazza ridacchiò e si sedette a gambe incrociate. “Si chiama Patrick. E’ un bel ragazzo, simpatico, semplice. Non è tanto arguto, ma è bravo in quello che fa. Mi aspetta sempre alla fine delle lezioni e mi compra il pranzo.”
    “E’ gentile?”
    “Anche troppo. Mi guarda in modo strano.”
    “Strano?”
    “Sì… mi guarda e, se mi volto e lo ricambio, sorride come un idiota.”
    Il biondo represse una risata, ma il fatto non sfuggì a Rose.
    “Che c’è?”
    “E’ solo innamorato! A te piace?”
    “Uhm… non lo so. Forse un pochino.” ammise borbottando e arrossendo.
    “E’ una bella cosa, non devi vergognarti. Dai anche a lui una possibilità, chissà che non nasca qualcosa di ancora più bello!”
    “Lo farò… forse.”
    “Ok, si è fatto tardi, è meglio che vada. Pensa a quello che ti ho detto e non infierire su tua madre. Spingila, anzi, a confidarsi con te, dimostrati all’altezza, scoprirai tante cose di lei che non sapevi.” le arruffò i capelli e le diede un bacio sulla guancia. “Buonanotte, piccola.”
    “’notte, zio.”
    “E fa’ sparire a tuo fratello quei diabolici videogiochi. Sta fuggendo dalla realtà, non permettergli di alienarsi, altrimenti non crescerà mai.”
    “Cercherebbe di uccidermi e scatenerei una faida!”
    Raphael rise. “Dovrai correre il rischio.” si alzò e aprì la porta della camera. “Stammi bene, Rose.”
    “Anche tu.”
    Fece qualche passo in direzione delle scale, quando con la coda dell’occhio captò un movimento alla sua destra. Glenda lo osservava con un sorriso grato e le guance ancora umide di lacrime, la faccia stravolta dalla stanchezza, senza un filo di trucco a coprire le occhiaie o le rughe intorno alle labbra e sulle tempie. Raphael la trovò bellissima, così vera e al naturale. Sembrava un’altra persona, ma era anche assai più femminile. Dava l’idea di una madre e non più di una donna in carriera, fredda, spietata e intransigente. Se si fosse mostrata priva di maschera anche alla sua famiglia, forse qualcosa sarebbe cambiato.
    Si lasciarono in silenzio, con un cenno del capo, e Raphael uscì da villa Rockwood con il cuore più leggero. Si mise persino a fischiettare nel tragitto in macchina.
    Un tempo, probabilmente non si sarebbe immischiato e avrebbe proseguito per la sua strada piastrellata di egoismo e indifferenza; poi, un giorno come tanti, aveva incontrato qualcuno che gli aveva rivoluzionato l’esistenza, qualcuno che, in un battito di ciglia, era diventato molto più importante di se stesso. Quel qualcuno gli aveva fatto capire che la felicità e l’appagamento interiore, ciò che ti fa veramente sentire bene, arriva solo quando si smette di cercare scuse o imbastire alibi per non amare, quando si cessa di voler controllare tutto e ci si arrende al potere ignoto dell’amore. Aveva imparato che il vero nemico dell’essere umano non è la solitudine, l’odio, l’egoismo, ma che essi sono l’esatta conseguenza della paura che ci si porta dentro dalla nascita. La paura annichilisce, annienta, distrugge, fa provare angoscia, ansia, smarrimento e spesso si alimenta con dubbi e domande sull’imperscrutabilità del futuro; così finisce per prenderti in ostaggio e ti rende suo prigioniero, ti incatena e ti rinchiude in una cella gelida e oscura, dove non penetra neanche un spiraglio di luce. Dalla paura si generano i veri mostri e quei mostri prendono possesso del corpo, spadroneggiando e consumando l’anima.
    Tuttavia, quando si trova il coraggio di mettere da parte la paura e rischiare di amare, a quel punto e solo allora si diventa eroi. La quiete che ne scaturisce cancella le tenebre e il sorriso nasce spontaneo sulle labbra, senza fatica, come se esse non avessero aspettato altro da sempre.
    Raphael ripensò ad Alicia, al suo profumo, al suono della sua voce, ai suoi occhi e, con sommo sconcerto e terrore, si accorse che i contorni cominciavano a sfocarsi per essere rimpiazzati da altri più nitidi e diversi. Arrivò davanti a casa sua e spense il motore, ma non scese dalla vettura. Appoggiò la nuca sul sedile e pianse finché non gli venne il mal di testa.
     
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  15. Lady1990
     
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    La sera dell’appuntamento finito male e il giorno seguente erano stati per Alan all’insegna del pianto e delle domande esistenziali, nonché costellati da attacchi di depressione acuta e crisi isteriche. Il terzo giorno si era calmato e aveva cercato di fare il punto della situazione, stilando una lista dei pro e dei contro del suo innamoramento e di una eventuale relazione con Raphael. Una volta terminato, era impallidito nel notare che la colonna dei contro contava dieci punti in più di quella dei pro. Di conseguenza, gli venne da pensare che questa sua fissazione gli avrebbe arrecato in futuro, immediato o meno, molti più svantaggi e grattacapi di quelli che aveva inizialmente previsto.
    Cosa fare, allora?
    Aveva deciso di dormirci su, prima di compiere una scelta qualsiasi, e il mattino successivo aveva riletto il foglio scarabocchiato a lapis per intero.
    Punto uno: la differenza d’età.
    Era un ostacolo? Beh, tra loro correvano quasi sedici anni e, per Raphael, Alan sarebbe stato sempre un ragazzino anche qualora fosse arrivato ai quaranta, perché lui ne avrebbe avuti cinquantasei.
    Punto due: differenza di stili di vita.
    Alan voleva diventare un artista di successo, mentre il biondo era un impiegato della biblioteca comunale. Ma, del resto, rifletteva, ognuno poteva essere libero di intraprendere il proprio percorso e al contempo condividere il tempo rimanente con il partner. Non c’erano molte altre opzioni.
    Punto tre: differenza di carattere.
    Il diciottenne era esuberante, impulsivo, energico, mentre Raphael sembrava più introverso e mite, poco incline a condividere entusiasmanti avventure. O almeno, questa era la sua impressione, poteva anche sbagliarsi.
    Punto quattro: la ritrosia di Raphael e il suo categorico rifiuto a farsi conoscere.
    Di certo, il punto più ostico e problematico della lista, perché gli precludeva qualunque mossa. Se il trentaquattrenne non voleva avere niente a che spartire con lui, Alan si trovava immancabilmente di fronte ad un muro di dimensioni consistenti, invalicabile, e tutti i suoi sforzi si sarebbero sicuramente rivelati vani. O no?
    Punto cinque: perché Raphael pareva così insofferente e triste in sua presenza?
    Il giovane aveva lasciato uno spazio bianco, poiché non possedeva una risposta e non riusciva nemmeno ad avanzare ipotesi.
    Punto sei: avere una relazione con un uomo molto più grande di te era deleterio o stimolante?
    Qui Alan aveva esitato. Da un lato, sarebbe senz’ombra di dubbio stato stuzzicante, perché Raphael avrebbe potuto insegnargli tantissime cose, essere il suo maestro di vita e accompagnarlo nella crescita. Dall’altro, probabilmente lo avrebbe considerato sempre alla stregua di un bambino immaturo che ha bisogno della balia e non sarebbe mai stato un rapporto ‘alla pari’.
    Punto sette: Alan sarebbe mai riuscito a raggiungerlo oppure il tutto si sarebbe trasformato in una gara di cui non avrebbe mai scorto il traguardo? Era destinato a rimanere per sempre indietro e ad accontentarsi della vista della sua schiena?
    Punto otto: se anche, dopo tutte le energie spese per conquistarlo, Raphael avesse continuato imperterrito a rifiutarlo, il rosso sarebbe stato disposto a restargli amico?
    Domanda inutile: no.
    Punto nove: come fare per rendersi interessante ai suoi occhi? Poteva forzare la propria età e cercare di comportarsi come un adulto?
    Avrebbe potuto provarci, ma sarebbe stato difficile, perché non aveva l’esperienza di un trentenne, ma solo diciotto dannatissimi anni!
    Punto dieci: il gioco valeva la candela?
    Alan aveva scritto senza indugi un bel “Sì” cerchiato.
    Non si sarebbe arreso, avrebbe tentato ancora una volta. Perlomeno, non avrebbe allentato la presa finché Raphael non gli avesse fornito una spiegazione valida, quello era il minimo. Non avrebbe mai accettato un semplice “No”, esigeva un motivo chiaro, altrimenti, si ripromise, lo avrebbe tormentato sino all’esaurimento.
    Tuttavia, nonostante avesse buttato giù i suoi dubbi e le sue paure, sentiva di aver bisogno di sostegno morale, di qualcuno che lo incoraggiasse, e l’unica persona che gli venne in mente fu Jason.
    Il ragazzino si mordicchiò il labbro inferiore con i denti, indeciso se telefonargli o meno. Il fatto era che davvero necessitava di un consiglio e lui era il solo che poteva aiutarlo a dipanare le proprie perplessità e infondergli il giusto livello di grinta per rimettersi in pista. Ma poteva aspettarsi un consiglio spassionato e sincero, quando l’amico in questione era innamorato di lui? Oppure doveva prendere seriamente in considerazione l’idea che Jason avrebbe cercato di dissuaderlo per avere lui una chance? No, non era il tipo, J.J. si era sempre dimostrato un compagno leale, non c’era ragione di preoccuparsi.
    Digitò il numero premendo i tasti con ansia e inviò la chiamata.

    Jason si riavviò i capelli con un gesto veloce della mano e corse ad aprire, il cuore che batteva a mille. Quando Alan gli aveva riferito in tono concitato che desiderava parlargli, l’agitazione era schizzata alle stelle.
    Erano le sei di sera, ma il sole era ancora alto e il caldo non accennava a diminuire per lasciare spazio ad un po’ di arietta fresca. In sostanza, il moretto stava di nuovo grondando di sudore, anche se aveva fatto una doccia, la quinta della giornata, solo mezzora prima. Fortuna che aveva fatto il bagno nel deodorante, almeno sarebbero trascorse ore prima che cominciasse a puzzare come un cavernicolo.
    A dispetto di quanto era accaduto fra loro, Jason non riusciva ad esimersi dallo sperare in una miracolosa svolta, ad abbandonare definitivamente i suoi sogni d’amore e ad accettare che l’amico non lo avrebbe mai ricambiato. Era stata dura ingoiare il groppo e ancora faticava ad assimilarlo, ma non voleva arrendersi davvero. D’altronde, aveva coltivato i suoi sentimenti per anni e gli risultava impossibile liberarsene in un batter d’occhio, accantonarli o cancellarli, darsi per vinto.
    Il rosso gli si presentò davanti con un’espressione stanca e stravolta e, senza nemmeno salutarlo, poggiò la testa sulla sua spalla, sospirando afflitto.
    “Al? Stai bene?”
    “No.”
    “Ok, entra, così mi racconti.” lo invitò abbracciandolo e subito, a causa dell’odore delizioso e floreale che gli riempì i polmoni, gli si imporporarono le guance.
    Lo fece accomodare sul letto e gli si sedette accanto, prendendogli una mano fra le sue e domandandogli con fare partecipe che cosa lo angustiasse.
    “Niente. Solo che, ti prego, ho bisogno di un consiglio.”
    “Di cosa si tratta?”
    Jason, in realtà, già presagiva l’argomento che sarebbero andati a toccare e corrugò le sopracciglia in attesa che l’altro gli spiegasse.
    “Sono uscito con Raphael, sabato sera.”
    “Oh…” si rabbuiò appena.
    “E non è andata bene.”
    “Oh!” i suoi occhi ebbero un guizzo, ma cercò di celare il suo sollievo inopportuno al rosso. In fondo, si sentiva uno schifo, poiché non tifava affatto per loro, e se Alan lo avesse soltanto immaginato, si sarebbe arrabbiato.
    “Cioè, all’inizio era tutto perfetto, poi è successo qualcosa - non chiedermi cosa, perché non lo so - e lui se n’è andato.”
    “Quindi, cosa vuoi che ti dica?” grugnì accigliato, con una sfumatura acida nella voce.
    Il diciottenne ammutolì, poi lo fissò con tristezza. “Scusa se mi sono rivolto a te, so quanto ti dà fastidio discutere di Raphael e credimi, se avessi avuto qualcun altro con cui parlarne, non ti avrei disturbato. Ma… ho solo te.” mormorò abbassando lo sguardo.
    Jason scosse il capo e sospirò. “No, perdonami. In questo periodo non sono stato un buon amico, mi dispiace. È soltanto che ti amo e sentirti pronunciare il nome di un altro uomo mi mette a disagio e mi irrita. Però, questo non deve fermarti, io voglio esserci sempre per te. Anche se non mi trovo sullo stesso gradino di importanza di questo Raphael.”
    “J.J., tu sei importante!” replicò con veemenza l’altro. “Non osare pensarlo!”
    “Ma se tu dovessi scegliere tra noi due, sceglieresti Raphael. Tranquillo, sono problemi miei, non crucciarti.”
    “Veramente… non ne ho idea. È per questo che sono venuto da te, J.J., per chiederti cosa dovrei fare, secondo te.”
    “Alan, ma per favore! Secondo me, dovresti lasciarlo perdere, perché con lui fuori dalle palle io potrei sperare di conquistarti, se non ora, forse in futuro. Cosa credevi di sentirti dire?” scattò il moretto, alzandosi in piedi e dirigendosi in cucina a passo di marcia, con la scusa di voler bere, quando in verità desiderava interporre più metri possibili tra se stesso e il coetaneo.
    “Jason! Perché ti ostini a non capire? Io lo amo!”
    “Ti sei appena risposto da solo. Come vedi, il mio aiuto non ti serviva.” grugnì astioso Jason, poi tracannò d’un fiato un bicchier d’acqua.
    “Perché fai così? Cavolo, prima di tutto sei il migliore amico! Ho capito che mi ami, ma mi pareva di aver già chiarito la questione.”
    “E pensi che mi faccia da parte così, come se niente fosse? Tu sminuisci i miei sentimenti, Alan, e questo non mi piace. Non sono Raphael, ma ti conosco molto più di lui, so tutto di te. E cosa sai tu di lui?”
    “Jason, ti supplico, non voglio litigare…”
    “Allora dovevi restartene a casa.” dichiarò lapidario il diciassettenne, mordendosi subito dopo la lingua.
    Il rosso chiuse gli occhi umidi e deglutì. Poi, lo raggiunse in cucina e gli circondò i fianchi con il braccio sano, posando la fronte sul suo collo accarezzato dai capelli corvini.
    “Non posso rinunciare a te, J.J.” gli sussurrò direttamente nell’orecchio.
    “Se non puoi, dimentica Raphael e stai con me.” disse Jason rabbrividendo di piacere, mentre il respiro caldo dell’altro gli scivolava sulla pelle.
    “Al cuore non si comanda. Questo lo comprendi bene, vero?”
    “Sì, purtroppo.”
    Il moro girò il viso e intercettò le labbra di Alan, coinvolgendolo in un bacio dolce e triste. Quel gioco di lingue per il maggiore era solo una mera dimostrazione d’affetto, ma per Jason era l’unico modo che conosceva per trasmettergli il suo amore disperato. Il contatto durò a lungo, nessuno dei due aveva intenzione di interromperlo, e il più piccolo si voltò nell’abbraccio per concedersi più spazio di manovra. Infilò entrambe le mani nella massa ribelle che erano i capelli di Alan e lo attirò a sé, spalmandosi sul suo corpo e strusciando il ginocchio tra le sue gambe per risvegliare l’eccitazione.
    “J.J…” bofonchiò il diciottenne, ma l’interessato attaccò nuovamente la sua bocca per non permettergli di tirarsi indietro.
    Scese con le dita sul cavallo dei pantaloni e li sbottonò, andando a strofinare la mezza erezione del reticente compagno. Lo voleva dentro di sé, voleva riassaporare quell’emozione travolgente che lo aveva schiacciato la prima ed unica volta che erano finiti a letto insieme, voleva sentirlo addosso, nel sangue, nella carne. Affinché divenisse solo suo. “Sii mio…”
    Scavalcò la barriera dell’intimo ed impugnò con fermezza il membro turgido di Alan, che nel frattempo aveva preso ad ansimare, suo malgrado, intrigato da quelle carezze esperte. Accelerò presto il movimento del polso e bevve come un assetato i gemiti che il rosso riversava direttamente tra le sue labbra. Poi se le leccò come un gatto, si piegò in ginocchio e, senza dare l’occasione al più grande di protestare, lo accolse fra di esse con un mugugno soddisfatto. Alan gemette più forte e pose dolcemente la mano libera sulla nuca di Jason, mentre dai suoi occhi fuoriuscivano lacrime amare.
    “Basta, Jason.” singhiozzò, incapace di rimanere lì a guardare l’amico che si prodigava a donargli piacere, si umiliava, mentre, ogni istante che passava, il proprio senso di colpa cresceva esponenzialmente. “Basta…”
    “Bugiardo, non vuoi sul serio che smetta.” chiosò il moro, violentandosi per non alzare lo sguardo sull’altro. Sapeva che, se lo avesse fatto, una lenta agonia gli avrebbe arrecato meno dolore.
    Così continuò, ma a un tratto si avvide che il sesso di Alan si stava afflosciando e ciò lo trafisse peggio di una pugnalata. Se non riusciva nemmeno a farlo godere, significava che tutte le speranze serbate gelosamente sino ad allora non erano che spazzatura, stupide illusioni. Abbandonò il suo lavoro di suzione e restò ad osservare impietrito il muscolo ridursi di dimensioni fino a tornare alla normalità.
    Non poteva crederci.
    Si asciugò con rabbia la bocca e diede la schiena al diciottenne. “Vattene. E per un po’ non tornare. Fallo per me.” gli intimò in tono spento, costringendosi a non tremare.
    “Maledizione!” gridò strozzato Alan.
    “Va’ via. Ti richiamo io.”
    “J.J….”
    “Va’ via!”
    Il rosso si ricompose e capì che non era saggio insistere. Jason aveva bisogno di stare da solo e digerire il rifiuto, e francamente non sperava in una ripresa immediata; era consapevole che sarebbero occorsi giorni, forse addirittura mesi per superarlo, e non voleva imporre ulteriormente la propria presenza quando non era gradita. Riconosceva di avere sbagliato a contattarlo, ma davvero pensava di trovare un amico, non certo un ragazzo innamorato e ferito.
    Si era comportato da imbecille, ma ormai era inutile piangere sul latte versato, il danno era fatto. Pregò soltanto che il tempo lenisse le piaghe sanguinanti nell’anima dell’altro, curandolo e rimettendolo in sesto. Odiava vederlo ridotto in quello stato a causa sua, avrebbe tanto voluto prendersi a calci.
    Richiuse la porta dell’appartamento senza un saluto e se ne andò a casa con la morte nel cuore, affibbiandosi nel tragitto epiteti volgari e offensivi per sottolineare la sua inettitudine e insensibilità, conscio di aver provocato l’ennesima rottura nel loro attualmente fragile rapporto.
    Jason, una volta solo, si accasciò sul tavolo di cucina e sferrò una sequela di pugni frustrati sulla superficie di legno plastificato, sfogando la sofferenza in singhiozzi e lamenti strazianti.
    Era giunto al limite, non ce la faceva più.
    Erano le otto, quando attaccò il suo turno al locale. Esso era popolato dalla peggiore feccia dei bassifondi: gli avventori, infatti, consistevano per lo più in gang di colore, criminali di piccolo calibro e clan mafiosi, seppur all’apparenza non manifestassero alcun comportamento anomalo. Ma era sufficiente osservarli con la dovuta minuzia per accorgersi delle armi che ognuno di loro nascondeva nei pantaloni o sotto le giacche leggere.
    Il ragazzino, nonostante in principio ne fosse stato spaventato, si era abituato al genere di clientela che bazzicava quel posto e ormai non ci faceva più molto caso, limitandosi a svolgere il proprio lavoro senza porre ai colleghi o a se stesso futili domande.
    Indossato il grembiulino nero sopra i vestiti, assunse la sua solita postazione al di là del bancone del bar e si accinse a lavare qualche bicchiere o piatto sporco lasciato lì da altri camerieri. Come ogni volta che si trovava a dover interagire col prossimo, camuffò il suo malessere dietro una facciata di cortesia e un sorriso tirato, e si predispose a raccogliere le varie ordinazioni con la necessaria professionalità, senza rispondere ai commenti volgari che gli venivano rivolti circa il suo aspetto femmineo e gli inviti a prendere parte al ‘divertimento’. La prima regola che aveva imparato era: mai mostrarsi debole o indifeso. La seconda: mai discutere. La terza: non ascoltare le conversazioni.
    Naturalmente, queste dovevano essere applicate con intelligenza e nei giusti frangenti, ma Jason era quasi divenuto un maestro nel fingere di trovarsi altrove mentre serviva ai tavoli.
    Tuttavia, in questa dimensione ‘idilliaca’ di pace, v’era un dettaglio che, nell’ultimo periodo, gli aveva messo addosso un senso di ansia e oppressione. Difatti, un famoso clan mafioso aveva iniziato nei due mesi precedenti a frequentare assiduamente il locale, anche se solo per concedersi una bevuta in totale rilassatezza. Il capo, un certo Dominic Rinaldi, era sempre presente e sin dalla prima volta lo aveva puntato come un leone che studia la propria preda.
    Jason aveva tentato di ignorarlo, ma alla lunga si stava sentendo braccato da una belva feroce e imprevedibile, nonché pericolosa. Attirare le attenzioni dei clienti non era una novità, per lui, ma carpire quelle di uno dei più temuti boss della mafia di New York era un altro paio di maniche. Che poi, cosa ci facesse in quella bettola, doveva ancora capirlo. Forse voleva gestire i suoi loschi traffici in un’area al di fuori della portata delle forze dell’ordine, del resto era risaputo che nel ghetto, stranamente, la sorveglianza non era così stretta. E tuttavia, non l’aveva mai visto comportarsi in maniera sospetta, se non per le intense occhiate che gli riservava.
    Il suo abbigliamento era normale, affatto eccessivo, ma la sua stazza copriva la differenza, poiché era un individuo veramente alto e muscoloso. La pelle chiara, laddove gli abiti non arrivavano, era pulita e priva di tatuaggi, ma il giovane era più che sicuro che ne avesse almeno uno da qualche parte. I suoi capelli erano color carota, o forse biondo ramato - Jason non era mai riuscito a comprenderlo a causa delle luci del locale - e i suoi occhi erano marroni, due puntini scuri e penetranti in mezzo ad un viso dai lineamenti virili. Era un bell’uomo, come negarlo?, però incuteva timore e rispetto, uniti ad una cospicua dose di terrore.
    Il diciassettenne provava un insopprimibile desiderio di fuggire, quando si avvicinava al loro tavolo con gli alcolici in bilico sul vassoio, ma era consapevole di non dover compiere alcuna mossa falsa, con la conseguenza di scatenare inavvertitamente la bestia che lo scrutava famelica ad esigua distanza.
    Il moretto depositò in religioso silenzio le bevande davanti al gruppetto e se ne andò rigido come un tronco, percependo sulla schiena il tipico formicolio che lo coglieva allorché lo sguardo di Rinaldi lo scandagliava sino al midollo. Si rifugiò nelle cucine e si massaggiò stancamente le tempie, trovandole sudate come tutto il suo corpo. Sfilò l’elastico per capelli dal polso e se li legò in un codino, in maniera tale da aver il collo libero di respirare. Per giunta, gli stava venendo il mal di testa e non si era portato da casa nemmeno una pasticca per alleviare il doloroso pulsare, ma doveva resistere e dare il meglio, altrimenti lo avrebbero licenziato. Inoltre, il proprietario si era già dimostrato fin troppo comprensivo per un tipo della sua risma; aveva fatto troppi giorni di assenza, quel mese, vuoi per spossatezza o per altre magagne di salute, perciò non poteva permettersi di cedere.
    Sospirò profondamente e tornò in sala con due piatti colmi di cibo tenuti saldamente fra le mani.
    Trascorse circa un’oretta, poi, all’improvviso, la porta si aprì e Charles si stagliò sulla soglia col suo immancabile ghigno beffardo. L’effetto che provocò al piccolo equivalse al macabro spettacolo della resurrezione di un conoscente morto e sepolto in formato zombie. Jason si era dimenticato di lui, dopo tutti quei giorni che pareva fosse sparito dalla circolazione. Il ‘redivivo’ perlustrò il locale con le iridi nere come l’inchiostro, lentamente, soffermandosi un paio di secondi su ogni volto, e, appena lo scorse, lo trafisse con un’occhiata tagliente. Si bloccò, impallidì e deglutì, non immaginandosi di rivederlo proprio lì. Era da quando Alan lo aveva cacciato dal suo appartamento che ne aveva perduto le tracce e adesso eccolo, in tutto il suo gelido splendore, a divorarlo con lo sguardo. Le luci basse facevano risaltare il pallore dell’incarnato e nei suoi occhi baluginò una scintilla sinistra, che fece rabbrividire il giovane.
    Gli diede le spalle immediatamente, sudando freddo, e si rintanò dietro il bancone a fianco di un suo collega più anziano. Tuttavia, Charles non parve infastidito da tale manovra di fuga e si appropinquò ugualmente verso di lui, deciso. Si sedette su uno sgabello e gli fece cenno con l’indice di avvicinarsi; aveva qualcosa nella postura che intimava a non obiettare, ad eseguire il suo ordine subito. Jason gli si parò di fronte come un condannato che si avvia al patibolo e strinse le labbra per contenere gli insulti.
    “Ciao, piccolo. Ti sono mancato?” bisbigliò suadente e si sporse per schioccargli a tradimento un bacio sulla bocca.
    Le palpebre del ragazzo si dilatarono per l’angoscia e, senza un motivo preciso o logico, la sua attenzione corse impazzita verso il tavolo di Rinaldi. Come temeva, costui stava incenerendo Charles e pure da quella distanza Jason poteva intravedere le mani strette a pugno e l’espressione omicida del mafioso.
    “Vattene, Charlie. Sto lavorando, non è il momento.”
    “Per me lo è, invece. Servimi da bere, così parliamo un po’.”
    “Non voglio parlare e non posso. Se vuoi da bere, chiedi a qualcun altro.”
    Fece per dileguarsi nuovamente, quando il maggiore gli afferrò con forza un polso, stritolandoglielo in una morsa dolorosa.
    “Non scappare, voglio solo parlare. Intanto, dammi uno scotch.”
    Il diciassettenne non trovò altra soluzione che sottomettersi al volere dell’altro e gli preparò ciò che aveva chiesto in silenzio. Charles sorseggiò il liquore e infine lo ingurgitò in un colpo solo, sbattendo il bicchiere di vetro sul bancone ed esalando un sospiro soddisfatto.
    “Ahh, mi ci voleva proprio un goccetto! Dunque, a noi due, piccolo.” intrecciò le mani sotto al mento e appoggiò i gomiti sul legno, accostandosi a lui. “Come immaginerai, non mi è piaciuta molto l’improvvisata del tuo amichetto, quella volta. Avevo ponderato di vendicarmi, ma poi ho perduto interesse, perché non ci guadagnerei niente.”
    “Cosa vuoi?”
    “Te, ovvio. Tu sei mio, mi appartieni e non permetterò a nessuno di mettersi in mezzo, sappilo. Ora, se quel rosso dovesse malauguratamente ripresentarsi a casa tua, non la passerebbe liscia, te lo garantisco. L’ultima volta mi ha preso alla sprovvista ed ha avuto fegato, gliene do atto. Ma il trucco non funzionerà più.” si scostò appena la falda del giubbotto e gli mostrò una pistola. “D’ora in avanti girerò con la mia nuova amica, quindi sarà bene che quell’impiastro evapori al più presto, intendi? Non vorrei che, accidentalmente, gli accadesse qualcosa di spiacevole.”
    Jason avvertì gli occhi riempirsi di lacrime. Scosse la testa incredulo, cereo. “Non lo farai… non puoi farlo…”
    “Sì, posso. Perché ti amo, piccolo. In questi interminabili giorni in cui non sei stato tra le mie braccia, mi sono reso conto di quanto tu sia diventato importante, per me. Mi sono reso conto che, se non ci sei, mi manchi e che ho bisogno di te come tu ne hai di me. E non provare a dire di no, sappiamo entrambi che è vero.”
    “No, Charlie, io non ti voglio. Non più. Non è di te che avevo bisogno, ma di infliggermi sofferenza, però adesso ho compreso che questo non mi aiuterà a tornare sereno. Non voglio più essere usato, anch’io ho dei sentimenti!” si accalorò, cercando di mantenere un tono di voce basso per non farsi udire dagli altri avventori seduti lì accanto.
    “Lo so, lo so.” rispose accomodante il più grande. “E ho scoperto di averli anch’io, per questa ragione sono venuto a parlarti. Noi due abbiamo sempre avuto una relazione… burrascosa, basata principalmente sul sesso, ma, ecco, io vorrei proporti di metterci insieme, di divenire una coppia a tutti gli effetti. Cosa ne pensi?”
    “Per farmi stuprare meglio?” gli sibilò a due centimetri dal naso.
    L’attimo seguente, una forte manata si abbatté sul bancone, praticamente fra i loro volti, e i due ragazzi sussultarono di spavento, allontanandosi di scatto in riflesso.
    “Mi scusi.”
    Un timbro basso e roco giunse alle orecchie di Jason, misto ad un buonissimo profumo di dopobarba. Distolse lo sguardo da Charles e lo puntò su Rinaldi, che se ne stava eretto in tutti i suoi due metri di altezza al di là del divisorio e incombeva su entrambi come un ombra minacciosa.
    “S-sì?” balbettò imbarazzato il cameriere, il cuore che sembrava volesse esplodergli nel petto.
    “Avevo chiesto due bourbon. Quanto ancora dovrò aspettare?” scandì secco il mafioso, fulminando Charles e fissandolo in cagnesco, quasi con sfida.
    Bourbon? Veramente non ha ordinato nien… oh.
    Il giovane faticava a concepire un’idea del genere, ma era probabile che Rinaldi stesse tentando di… proteggerlo? Salvarlo? Boh, era confuso. Ma, di certo, quei due bourbon se li era inventati.
    “Ehm, glieli porto subito, signore. Se può farmi la cortesia di attendere al tavolo, glieli servo là.”
    “Non ho fretta, aspetto qui.” disse gentilmente a Jason, sorridendogli.
    “Ah, uhm, ok. Mi dia un minuto.”
    “Anche tutta la sera.”
    “Eh…”
    Il moretto arrossì e, con gesti rapidi, versò l’alcool in due bicchieri.
    Charles inarcò un sopracciglio, vagamente perplesso, ma decise di non raccogliere l’implicita dichiarazione di rivalità dell’intruso, o scocciatore che dir si voglia.
    “Ecco a lei.” glieli mise davanti con un sorriso che tradiva il suo nervosismo.
    “Grazie.”
    “Prego.”
    Rinaldi fece ruotare leggermente il liquido e lo trangugiò in un sorso, svuotando i bicchieri in cinque secondi. Contrariamente alle speranze di Charles, il gigante, dopo essersi rifocillato, non si schiodò di un millimetro.
    “Desidera qualcos’altro?” domandò il piccolo, smarrito.
    “Uhm, no.”
    “Ah. Ok.”
    “Mi scusi se la disturbo,” si intromise Charles, rivolto a Rinaldi, “ma stavo chiacchierando col mio ragazzo. Potrebbe, per favore, concederci un po’ di intimità?”
    “Non mi pare che ci sia alcuna regola che mi vieti di stare qui. Se non le sta bene, può togliersi lei.” ghignò cattivo e Jason ebbe l’impressione di vedere delle saette attraversare gli occhi dei due contendenti, mancava soltanto che cominciassero a ringhiarsi contro.
    “Ok, calma.” li sedò il diciassettenne e ottenne all’istante, al di là di ogni più remota fantasia, la loro completa concetrazione. “Signore,” esordì all’indirizzo del boss, “mi perdoni per la maleducazione di questo qui - che non è il mio ragazzo - e mi conceda di offrirle un altro giro, mente io e lui andiamo a chiarirci da un’altra parte.”
    “E se mi opponessi?” cercò di trattare il mafioso, palesemente scontento.
    “Non ne avrebbe il diritto. E adesso mi scusi ancora. Vieni, Charlie.” l’interpellato balzò vittorioso oltre il bancone e scoccò un’occhiata indecifrabile a Rinaldi. “Cole, servi al signore qualsiasi cosa voglia, io torno tra poco!” pregò poi il collega e quello annuì.
    Condusse Charles nel vicolo sul retro, passando per la porta di servizio, e la richiuse con una spinta irritata. Scrutò il maggiore con cipiglio arrabbiato e incrociò le braccia sul torace minuto.
    “Ebbene?”
    “Mmm, dov’eravamo? Ah, già! Te che accetti di diventare ufficialmente una coppia!”
    “Non ho mai detto che accetto!” esclamò stizzito, sbattendo un piede sull’asfalto. “Senti,” sospirò esasperato, “non è una buona giornata e nemmeno un buon momento. La mia risposta è no, ficcatelo in testa. Non ti ho mai amato e mai lo farò, tra noi è finita.”
    Charles scoppiò a ridere e a Jason non piacque.
    “Amore, sei una sorpresa continua! È per questo che mi intrighi. Ma non sono una persona paziente, non mi metterò buono in un angolo ad aspettare che ti vada via il broncio. Perché lo so che sei ancora incazzato per l’ultima volta e te ne do ragione. Ero geloso e ti volevo tutto per me, mi sono comportato male, lo ammetto. Scusa.”
    “L’ultima volta?! Magari fosse solo quella, Charlie! È da quando ti conosco che mi violenti!”
    “Facciamo sesso violento, ma non ti ho mai violentato, piccolo. Eri sempre consenziente, se la memoria non mi inganna.”
    Il ragazzino stava per replicare qualcosa, ma ammutolì, riconoscendo che era anche colpa sua se era impantanato in quella situazione ingarbugliata.
    “Beh, allora non lo sarò più!”
    “Jason, amore, capisco che tu voglia punirmi per i miei errori, ma ti assicuro che mi sono già pentito.” accorciò le distanze e lo abbracciò stretto, inspirando il suo odore. “Solo io posso renderti felice, è un dato di fatto. Ti prometto che lo farò, devi soltanto dire ‘sì’”.
    Jason si divincolò e indietreggiò. “No! No, no e no! In che lingua devo spiegartelo?!”
    “Qual è il tuo problema?”
    “Il mio…? Io. Non. Ti. Amo. Ergo, non voglio mettermi con te. Afferrato il messaggio?”
    “Vorresti cancellare tutto quello che c’è stato tra di noi?”
    “Se fosse possibile, sì! Cento volte sì!” sbraitò gesticolando, fuori dalla grazia di Dio.
    Charles gettò alle ortiche la propria baldanza e la tranquillità che aveva ostentato sino a quel momento, e si scagliò con brutalità sul giovane, schiacciandolo al muro scrostato. Nell’impatto, la nuca di Jason cozzò sul cemento e per un attimo la sua vista si offuscò, dopodiché una fitta atroce gli attraversò il cervello, mozzandogli il fiato.
    “Perché ti ostini a non capire, piccolo? Tu sei mio. E te lo ripeterò tutte le volte che lo metterai in dubbio.”
    Il moretto, raccolte le forze, gli sputò in faccia e lo guardò con odio.
    “Così non va, Jason.” mormorò sconsolato, circondandogli il collo con le dita e facendo pressione. “Non va.”
    L’altro boccheggiò per la mancanza d’ossigeno e scalciò per indurlo a mollare la presa, ma Charles aderì con il proprio corpo al suo e non gli lasciò vie d’uscita. Allora, Jason sollevò un braccio e infilò repentinamente un dito nel suo occhio destro, accecandolo quel tanto che bastava per allentare quelle tenaglie che lo stavano strozzando. Vi portò poi le mani e lo massaggiò con cautela, tossendo, rosso in viso. Lo schiaffo arrivò inaspettato e violento sulla sua guancia e lo scaraventò a terra per la forza inaudita con cui era stato sferrato. La zona lesa bruciava e un taglio gli feriva il labbro, ma provò lo stesso a ignorarlo e a strisciare via celermente. Tuttavia, il più grande si mise a cavalcioni sulle sue cosce e lo bloccò a pancia in giù, calandogli successivamente pantaloni e biancheria per esporre le sue natiche lisce e sode.
    “No!” gridò Jason, “Lasciami, lasciami!”
    Charles strinse alcune ciocche di capelli nei palmi, le tirò verso di sé con uno strattone e spinse verso il basso, cosicché la fronte di Jason si schiantò sull’asfalto con un rumore sordo. Il diciassettenne non svenne, ma si accasciò comunque inerte al suolo, alla mercé del moro, rintronato e incapace di connettere in modo logico le informazioni che recepiva tramite il suo corpo. Percepì, ad un tratto, un dolore lancinante al sedere e, quando cercò di scappare, notò che le sue braccia erano tenute ferme sulla sua schiena. Così si rassegnò a subire le stoccate di bacino di Charles, finché egli non si fosse ritenuto soddisfatto, come sempre.
    La cosa che, però, lo preoccupava era la visuale annebbiata e i suoni che gli giungevano ovattati, come da lontano. La testa gli girava vorticosamente, le tempie pulsavano e gli veniva da vomitare.
    “Sei mio… sei mio, mio!” grugniva nel frattempo il maggiore, penetrandolo a sangue, immerso nel piacere che gli provocava affondare con impeto e furia in quell’antro bollente e straordinariamente stretto. “Sii mio…” la sua voce virò in una supplica e raggiunse l’apice pochi secondi più tardi, svuotandosi con un ultimo rantolo dentro Jason.
    La sofferenza si attenuò un poco non appena l’altro si sfilò completamente, ma i suoi muscoli non parevano avere intenzione di muoversi o reagire. Trascorso un lasso di tempo incalcolabile, percepì distrattamente Charles borbottare un “Merda” e dopo il peso che lo immobilizzava svanì, sostituito da una sensazione di leggerezza. Gli sembrava quasi di fluttuare.
    Con la coda dell’occhio, scorse dei capelli rossi e, dapprima, il suo cuore palpitò credendo che fosse Alan, poi però si accorse che la sfumatura era più chiara e la delusione lo fece piangere.
    Ricominciò a ragionare una volta in bagno, seduto sul pavimento sporco e con uno strofinaccio imbevuto d’acqua fredda sulla fronte. Respirare gli risultò più arduo del previsto, così come aprire le palpebre, ma la curiosità di scoprire chi si stesse prendendo cura di lui vinse sulla stanchezza. D’altronde, doveva assicurarsi di non trovarsi in pericolo, non aveva le energie per opporsi ad un altro assalto.
    Pian piano mise a fuoco la figura accovacciata davanti a lui e riconobbe la chioma rossiccia di Rinaldi e la fragranza del suo dopobarba. Una mano grande e calda del mafioso era posata dolcemente sulla sua nuca e lo sorreggeva, mentre l’altra gli accarezzava con un batuffolo di cotone che puzzava di disinfettante il taglio sul labbro. Nel suo sguardo brillava una luce apprensiva e la delicatezza con cui lo sfiorava poco si accordava con il suo aspetto e il suo ‘lavoro’.
    Jason, come da copione, si irrigidì allarmato e tentò di alzarsi, ma l’altro lo bloccò con due semplici frasi: “Sei al sicuro ora, riposati. Veglierò io su di te.”
    Esse ebbero un effetto calmante istantaneo e il giovane chiuse gli occhi abbandonandosi alle coccole di un estraneo e per di più criminale. Era assurdo, poi, che si sentisse più a suo agio con Rinaldi che con Charles.
    Si addormentò dopo giusto un paio di minuti e si svegliò circa due ore dopo. Il boss era ancora lì con lui, nella medesima posizione, e lo guardava con quello che il ragazzo avrebbe definito senza esitazione ‘affetto’. Si studiarono a lungo, in silenzio. Jason non voleva scostarsi, il tepore che emanava il corpo solido di Rinaldi lo cullava e lo tranquillizzava, sebbene non ne comprendesse il motivo.
    “Come stai?” gli chiese.
    “M-mi fa male la testa…” soffiò debolmente.
    “Hai preso una bella botta.”
    “Io… devo tornare a…”
    “Ho parlato io col tuo capo, è tutto sistemato.” lo interruppe l’uomo.
    “Che significa?”
    “Che sei licenziato.”
    Jason non represse un sonoro singulto. “Eh?!”
    “Calma, calma. In compenso, lavorerai per me. Ho un locale non lontano da qui e ho carenza di personale. È un comunissimo pub, niente di pericoloso.” spiegò placido. “In più, la paga è assai migliore.” sorrise mesto e gli aggiustò lo straccio umido sulla fronte.
    “Cos- perché?”
    “Perché, in tal modo, posso proteggerti. Non nego che ho sviluppato un particolare interesse nei tuoi confronti, ma la mia priorità è che non ti succeda niente che possa nuocerti. E se so che sei nei paraggi, in un posto dove comando io e nessuno osa sgarrare, sono più sereno.”
    “Ma… io non…”
    “Shhh”
    Ottimo. Era apparso un altro che pretendeva di controllare la sua vita. Dalla padella alla brace. Oddio, però forse era meglio Rinaldi, che almeno lo trattava bene.
    È un fottuto boss della mafia, cavolo!
    Trattenne un lamento disperato ed emise un sospiro.
    Tutte a lui dovevano capitare? Aveva fatto qualche torto a qualcuno?
    “Sii mio, Jason.”
    Il suddetto sgranò gli occhi e squadrò l’altro a bocca aperta, inorridito.
    “Eh?!”
    Perché gli psicopatici possessivi toccavano sempre a lui?!
     
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