All I can do is try

capitolo 2

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  1. Lady1990
     
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    “Alan, passami quel vaso peonie, per favore.”
    “Subito.” il giovane posò l’annaffiatoio e si chinò per prendere ciò che gli era stato chiesto.
    Come di consueto, il weekend Alan aiutava sua madre al negozio di fiori, facendo da commesso e occupandosi delle consegne. Per lui non era affatto un peso, si divertiva a immergersi in quel mondo colorato e profumato, gli metteva addosso allegria e spensieratezza, tanto che spesso, mentre innaffiava le piante, cominciava a fischiettare o a canticchiare fra sé e sé. Fin da quando era bambino trascorreva molti pomeriggi in quel piccolo locale verdeggiante e ormai aveva imparato quasi tutto quello che c’era da sapere sui fiori. Era diventato anche molto bravo con i bouquet e spesso la donna glieli lasciava preparare dandogli carta bianca, così che Alan potesse dare sfogo a tutto il suo estro creativo. Prediligeva i colori accesi, pieni di vita, e li combinava insieme in un uno sgargiante arcobaleno profumato tenuto unito da un nastro di raso di tonalità diversa ogni volta.
    Daisy Bell era una bella donna sulla quarantina, con dei fluenti capelli rosso fuoco e due grandi occhi verdi bosco, tratti che il figlio aveva ereditato in toto, insieme ad una capigliatura ribelle che gli dava un’aria sbarazzina e bambinesca. Il marito di Daisy era morto da molti anni di cancro e da allora si era rimboccata le maniche e, con la sua proverbiale determinazione, aveva mandato avanti il negozio con le sue sole forze. All’inizio era stata male, ma poi aveva trovato in sé il coraggio di andare avanti e grazie al figlio era riuscita a riemergere dal vortice di dolore causato dalla perdita del compagno. Ora aveva l’aspetto di una persona serena e sorridente, sempre in attività e impegnata in qualcosa che amava e che la faceva sentire realizzata, ed Alan non poteva che esserne felice.
    Voleva bene alla sua mamma, cercava di non deluderla mai o renderla triste, e farle percepire materialmente la sua presenza al suo fianco era un modo per aiutarla e per non lasciarla sola.
    Mentre ripensava a queste cose, notò una persona dai lineamenti familiari camminare avanti e indietro sul marciapiede dall’altro lato della strada. Era un uomo sulla cinquantina, un po’ stempiato, ma dall’aria gentile e timida, che tutti i weekend, da ormai quasi un anno, a pomeriggio inoltrato, veniva in negozio ad acquistare qualche nuova piantina; e, a meno che non vivesse in un super appartamento o villino di cinquecento metri quadrati, il ragazzo non riusciva proprio a immaginare dove se le infilasse: perché comprare due vasi, grandi o piccoli che fossero, alla settimana, se uno non avesse disposto di un considerevole spazio, avrebbe trasformato una casa normale in una giungla. Però la sua aria distinta, il completo giacca e cravatta sempre in ordine, i capelli scuri appena brizzolati pettinati con accortezza e le mani dalle unghie curate e pulite, tutti questi elementi davano l’impressione che fosse un individuo più che benestante. Anche se Alan non era il genere di persona che giudica in base all’aspetto, magari era solo una facciata e in realtà era un poveraccio che si faceva bello solo per venire a trovare Daisy e che disponeva di un solo completo elegante in tutto l’armadio, invaso da tute, jeans e camice a quadrettoni.
    Il giovane ghignò divertito, distraendosi ad osservare il tipo che, piantato ora in mezzo al marciapiede, fissava assorto il negozio di fiori. Lo vide grattarsi la nuca in un gesto nervoso, risistemarsi la chioma, aggiustarsi la cravatta e deglutire, un lieve rossore che gli colorava le guance. Alan lo trovava uno spasso.
    “Cosa sorridi?” gli chiese la madre, insospettita dalla sua espressione.
    “Il signor Corvey è arrivato.” dichiarò sghignazzando sotto i baffi.
    La donna sussultò e prese a borbottare imbarazzata, mettendosi a pulire il bancone dai residui di foglie, rametti, petali e steli con solerzia, come se volesse dare a intendere al figlio che la questione la lasciava del tutto indifferente. Ma il rosso aveva già capito che quei due erano attratti l’uno dall’altra e si divertiva a guardarli interagire impacciati come dodicenni alla prima cotta. Era contento che Daisy avesse riaperto il suo cuore, per troppi anni era rimasta sola, lavorando e basta, solo per badare a lui. E il signor Corvey ad Alan piaceva.
    Il sopraccitato girò la testa prima a destra e poi a sinistra per controllare che non passassero macchine. Alla fine si decise ad attraversare e pochi attimi più tardi il campanello della porta tintinnò.
    “Ehm, buon pomeriggio.” salutò con un sorriso, cercando di apparire disinvolto.
    Al ragazzo non sfuggì l’occhiata adorante che questi lanciò a Daisy, mascherata subito da un tempestivo e simulato attacco di tosse.
    “Buon pomeriggio a lei, signor Corvey.” rispose l’altra, portandosi una ciocca di capelli vermigli dietro l’orecchio in una mossa calcolata e la contempo inconscia. “Sta bene?” domandò poi, riferendosi alla tosse dell’uomo.
    “Oh… sì sì, benone! E lei come sta, signora Bell?”
    “Bene, grazie.”
    Trascorsero qualche secondo a osservarsi imbarazzati, tempo che Alan impiegò ad esercitare sui suoi muscoli facciali una certa pressione affinché non tradissero la sua straripante ilarità.
    Dopodichè, il signor Corvey si rivolse a lui. “Buon pomeriggio anche a te, Alan.”
    Un aspetto che apprezzava di lui era che non lo appellava mai con epiteti quali “giovanotto”, “campione”, “ragazzo”, ma lo chiamava sempre per nome.
    “Salve, signore.” ricambiò digrignando i denti e cercando, per questo, di non apparire scortese. Se fosse scoppiato a ridergli in faccia, non ci avrebbe fatto una figura intelligente.
    “Come va la scuola?”
    “Al solito, signore.”
    “Bene… bene. Ehm…” tornò a grattarsi la nuca e spaziò con gli occhi per tutto il negozio, alla ricerca di qualcosa da acquistare, senza sapere che madre e figlio fossero più che coscienti che quello era solo un pretesto per giustificare la sua presenza lì. “Vorrei quella.” indicò un vaso di orchidee bianche.
    Daisy seguì la direzione del dito del cliente e, appena si avvide di cosa l’uomo desiderasse, divenne paonazza. Perché le orchidee significavano passione e la certezza di un amore corrisposto, come una confessione di rispetto e venerazione. Forse il signor Corvey non era a conoscenza del linguaggio dei fiori, ma lei sì; e nonostante ci fosse la possibilità che la scelta dell’altro potesse essere attribuibile ad una mera casualità, alla donna piacque credere che invece fosse stata ponderata. Come un messaggio occulto e subliminale che solo lei poteva cogliere. Il momento successivo, tuttavia, si rabbuiò e il suo entusiasmo venne mitigato, se non addirittura soffocato, dal pensiero che forse quelle orchidee erano per un’altra donna. D’altronde, perché mai un uomo affascinante come il signor Corvey avrebbe dovuto essere single? Magari aveva già una compagna, una persona speciale che voleva conquistare o alla quale voleva ribadire il suo amore.
    Circondò il vaso di coccio con le dita bagnate d’acqua e sporche di terriccio e lo depose sul banco, vicino alla cassa.
    “Vuole che glielo impacchetti?” chiese senza guardarlo negli occhi, il cuore che le batteva forte nel petto, delusione ed euforia che ancora guerreggiavano selvaggiamente dentro di lei per ottenere la supremazia l’una sull’altra.
    “Faccia come al solito, mi fido del suo buon gusto.”
    “Come desidera.”
    Infilò il vaso in un sacchetto con stampate sopra delle coccinelle e lo infiocchettò con un nastro lilla bucherellato.
    “Ecco a lei.” batté lo scontrino e l’uomo pagò in contanti.
    Al momento di porgerle i soldi, i suoi polpastrelli sfiorarono inavvertitamente quelli di Daisy, che avvampò e ritrasse la mano come scottata. Gli fece il resto ma non glielo depose nel palmo, appoggiandoglielo invece sulla superficie fredda del banco.
    “Grazie. Beh… allora arrivederci, signora Bell. Alan.” fece un rapido cenno del capo al ragazzo.
    “Arrivederci, signor Corvey.” lo salutò la donna con un sorriso mesto.
    Il campanello tintinnò di nuovo e il signor Corvey se ne andò.
    Alan fulminò la madre con un’occhiataccia sconsolata, rimproverandola in silenzio.
    “Che c’è?”
    Sbuffò. “Niente…” esitò, le parole già sul piede di partenza in gola che attendevano solamente che lui aprisse la bocca, anche di poco, per uscire. “Niente.”
    “Se hai qualcosa da dire, dilla.” Daisy puntò le mani sui fianchi e lo squadrò con cipiglio irritato.
    “Vuoi che ti dica quello che penso?” arcuò un sopracciglio.
    “Sì.”
    “Sei un’idiota.”
    “Hey! Modera i termini, sono tua madre!”
    “Ciò non toglie che sei un’idiota.” ribadì perentorio, dandole la schiena per continuare ad innaffiare.
    L’altra scosse la testa con arrendevolezza e tornò ad occuparsi dei bouquet. Dopo un paio di minuti, durante i quali non volò una mosca, Daisy domandò: “e perché secondo te sarei un’idiota?”
    “Perché ha scelto le orchidee.”
    “Non ti seguo.”
    “Sei anche cieca? Gli piaci, mamma!” sbottò spazientito, brandendo con enfasi l’innaffiatoio per aria e rischiando di fare una doccia a entrambi.
    “Ah! Che sciocchezze!” obiettò seccamente. Poi “cosa te lo fa pensare?” indagò con apparente disinteresse.
    “Ti stupra con gli occhi.”
    “Alan!” esclamò sconvolta.
    “Beh, è vero…” bofonchiò con un’alzata di spalle.
    “No, non lo è!”
    “Sì, invece! Scommetto che a casa sua ha una tua foto piazzata sopra al comodino, circondata da tutti i fiori che compra qui e qualche candela, modello altarino. Fa anche rima.”
    “Alan, smettila subito.”
    Il giovane sbuffò ancora, chiedendosi di cosa avesse paura sua madre, che cosa la frenasse dal raccogliere le avance del signor Corvey. Ma alla fin fine non erano affari suoi, spettava a lei districarsi e gestire come più le pareva la propria vita sentimentale e lui non voleva metterci il naso più di tanto. Diamine, quello le sbavava dietro da quasi un anno, anche i passanti abituali della via se n’erano accorti, era palese. Perché quindi Daisy si ostinava a nascondere la testa sottoterra come uno struzzo?
    Bah, roba da donne.
    Guardò l’ora sull’orologio d’antiquariato appeso alla parete, orologio che la madre aveva scovato su una bancarella del mercatino delle pulci, e si accorse che erano già le sei e mezza. Era in ritardo per l’appuntamento con Jason e Dio solo sapeva quante gliene avrebbe dette circa il suo inesistente senso della puntualità e l’insopportabile vizio di avere costantemente la testa fra le nuvole.
    Finì di affogare le piante e si tolse il grembiule sporco di terra, riponendolo sull’attaccapanni in un angolo del negozio.
    “Mamma, io vado da J.J.!” le disse urlando.
    “Alan, siamo giusto a un metro di distanza, puoi anche evitare di sfondarmi i timpani ogni volta che apri la tua boccuccia di rosa, sai?” gli rispose con un sorriso a metà tra lo scocciato e il divertito, già dimentica della loro piccola discussione.
    “Questo è il mio naturale tono di voce!” replicò compunto, spettinandosi con una mano la zazzera rossa.
    “Che fortuna…” borbottò sarcastica la donna. “Vai, non farlo aspettare. Torni per cena?”
    “Sì! Anzi, non lo so. Ti mando un messaggio.”
    Alan afferrò la borsa, se la mise a tracolla e uscì di fretta, inforcò la bici e pedalò a ritmo sostenuto fino in periferia, dove abitava Jason. Questi aveva un anno meno di lui, cioè diciassette, e viveva da solo in un monolocale malconcio situato in un quartiere non proprio famoso per la sicurezza delle strade. I suoi genitori, padre operaio e madre casalinga, lo avevano cacciato di casa non appena avevano scoperto la sua omosessualità e da allora Jason aveva dovuto cavarsela da solo. Prima che Alan lo conoscesse, era un giovane marchettaro di appena quattordici anni, praticamente veniva abbordato dai pedofili, ma si avvide presto che quella vita non faceva al caso suo, perché, ingenuo e remissivo com’era, lasciava che i clienti lo usassero senza poi pagargli la cifra pattuita. Inoltre, molti lo costringevano a intrattenere rapporti sessuali non protetti e lui non aveva il coraggio di dire di no, troppo il timore di restare senza nemmeno i soldi per mangiare. Per sua immensa fortuna non prese mai alcuna malattia, ma era comunque rischioso, nonché pericoloso. Per giunta, in quel periodo dormiva in un ricovero per poveri e barboni, poiché non guadagnava abbastanza denaro per affittare neppure una capanna, perciò anche le condizioni igieniche non erano delle migliori. E, sebbene ne avesse sempre denigrato l’uso, stava cominciando pure ad avvicinarsi per disperazione al mondo della droga, come unica via di fuga dall’inferno che viveva ogni giorni, dall’incubo che era costretto a sopportare per la fame.
    Alla fine, in un giorno grigio d’autunno, aveva incontrato Alan, in sella alla sua bici, con il bauletto traboccante di fiori profumati e colorati. Era accaduto tre anni prima. Quel solare ragazzo con un improponibile cespuglio di capelli rossi e ribelli stava passando da quelle parti per effettuare una consegna a domicilio. Così, per caso, lo aveva notato seduto sul marciapiede e gli aveva regalato un fiore con una spontaneità disarmante, sorridendogli come mai nessuno aveva fatto e facendogli nascere un piacevole calore nel petto a cui successivamente riuscì a dare il nome di ‘speranza’. E di tempo ne era trascorso davvero poco prima che Alan, appreso il suo stile di vita, gli si attaccasse come una cozza allo scoglio e lo aiutasse a cercarsi un lavoro onesto e più remunerativo. Ora Jason lavorava come cameriere in un bar frequentato da gente non proprio raccomandabile, e la paga era una miseria, ma almeno era sicuro di ricevere dei soldi a fine mese, abbastanza per pagare l’affitto del suo squallido monolocale e per nutrirsi.
    Alan gli aveva letteralmente cambiato la vita, gli aveva afferrato la mano con un gesto brusco e lo aveva tirato su dal baratro in cui stava cadendo, sollevandolo dal fango e dall’infelicità. Da allora erano diventati migliori amici e si vedevano quasi ogni giorno, godendo della reciproca compagnia come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non avessero mai fatto altro da quando erano nati. La sintonia e la complicità che li univano erano sorprendenti e inusuali, ma loro non si erano mai fatti troppe domande.
    Le ruote sottili di gomma tagliarono in due una pozzanghera sull’asfalto, fecero lo slalom tra cartacce, cocci di vetro e bottiglie di alcolici abbandonati lungo la strada e si lasciarono pian piano alle spalle lo scenario di degrado che regnava sovrano in quella parte della città, per giungere in una zona famosa per i traffici di droga e le lotte clandestine: lì abitava Jason. Alan frenò davanti ad un edificio quasi in rovina e abbassò il capo per rovistare nella borsa in cerca delle chiavi dell’appartamento. L’amico gliene aveva fornite una copia per qualunque evenienza e ormai il rosso era diventato di casa in quel tugurio impregnato del fetore delle fogne, che proveniva sottoforma di effluvi tossici dai tombini.
    Alzò il viso trionfante con il mazzo di chiavi in mano, quando scorse una sagoma familiare dietro la porta di vetro opaco del fatiscente condominio. Smontò dalla bici imprecando a bassa voce, si coprì la testa con il cappuccio della felpa leggera di cotone e si appiattì contro il muro dall’intonaco sudicio e scrostato, accovacciandosi e fingendo di essere uno dei tanti derelitti che popolavano quelle vie.
    Un ragazzo ben piazzato, che dimostrava tra i venticinque e i trent’anni, con i capelli neri a spazzola, un piercing in mezzo al labbro inferiore e gli occhi leggermente a palla scuri come la pece, uscì dopo un paio di secondi, si aggiustò il giubbotto di pelle nera e si allontanò nella direzione opposta senza accorgersi di Alan. Questi digrignò i denti, le mani che prudevano dalla voglia di scagliarsi su quell’individuo abietto e cambiargli i connotati a forza di botte, ma si costrinse a rimanere piegato sulle ginocchia finché l’altro non scomparve in una stradina laterale. A quel punto si alzò di scatto, recuperò la bici, abbandonandola poi sul pianerottolo dell’edificio e legandola con catene e lucchetto, e si precipitò su per le scale, il cuore che batteva impazzito nel torace e il sangue che lentamente defluiva dal volto. Prese a sudare freddo, l’adrenalina e la paura offuscavano la fatica e le fitte di dolore che gli trasmetteva la milza, mentre arrancava sugli scalini come un forsennato per arrivare al quinto piano.
    Gli furono necessari quattro tentativi per infilare la chiave nella serratura, poiché, data l’agitazione che gli scorreva impetuosa nelle vene, i palmi erano sudati e le dita tremanti. Quasi ruppe i cardini dalla foga con cui irruppe nel monolocale e immediatamente scandagliò con occhi sgranati l’ambiente. In un primo momento pareva tutto a posto, se non fosse stato per una figura raggomitolata su una brandina dalle molle rotte, coperta a malapena con un lenzuolo azzurro sgualcito.
    “J.J.!” esclamò, raggiungendo come un razzo il capezzale dell’amico, inginocchiandosi sul pavimento con aria apprensiva. “J.J…” sussurrò meno convinto.
    Jason non voleva evidentemente la minima intenzione di riemergere dal bozzolo di coperte e Alan lo scrutò corrucciato.
    “Cosa ti ha fatto, J.J.?” gli pose delicatamente una mano su quella che suppose fosse una spalla e gliela accarezzò. “Ho visto Charles uscire.”
    Ancora nessuna risposta.
    “Ti ha messo di nuovo le mani addosso? Avanti, fatti vedere.” lo incoraggiò in tono gentile e pacato.
    Alle orecchie gli giunse un pigolio lamentoso e il lenzuolo si mosse un poco, giusto quel tanto che bastava per rendere quella prigione di tessuto ancora più inespugnabile.
    “Jason, per favore. Non fare così, ci sono io adesso.” lo pregò, continuando ad accarezzarlo.
    Gli ci vollero molti minuti per convincere l’amico a venire fuori e quando lo fece, ad Alan occorse tutta la sua pazienza, non molta in realtà, per non ringhiare o imprecare.
    Fissò contrito il livido bluastro sullo zigomo sinistro, il taglio ancora rosso e incrostato di sangue sul labbro superiore, i piccoli ematomi tondeggianti sul collo niveo e il nulla riflesso nelle iridi azzurre dell’altro. Il cuore gli si compresse in una morsa dolorosa, ma inghiottì l’amaro che gli era salito repentinamente in gola e non proferì parola, limitandosi a stringere Jason in un abbraccio confortevole e caldo. Avvertiva gli occhi e il naso pizzicare, ma cacciò indietro le lacrime, non era quello di cui l’altro aveva bisogno, in quel momento.
    “Vieni, andiamo in bagno, ti aiuto a darti una sciacquata.”
    Lo prese in braccio avvolto ancora nel lenzuolo e lo scaricò nella vasca, delle cui condizioni igieniche Alan aveva sempre dubitato, a causa delle chiazze marroncine intorno allo scarico e sui bordi. Riuscì a strappare all’altro la sua corazza di cotone, gettandosela poi alle spalle con noncuranza, e con l’espressione più impassibile del suo repertorio aprì il getto dell’acqua, regolando la temperatura. Jason si rannicchiò in posizione fetale, forse con l’intenzione di trasformarsi in una particella minuscola, e i capelli lisci e neri, lunghi fino alle spalle e tagliati a caschetto, andarono a coprirgli il viso come le due ali di una tenda.
    Il diciottenne lo ignorò e con la spugna iniziò a strofinare la pelle chiara dell’amico, stando attento a non premere sui lividi o sulle escoriazioni disseminate ovunque. Serrò le labbra così forte da farle impallidire, gli occhi verdi divennero laghi di pena e dispiacere e l’impulso di abbracciare Jason fino ad inglobarlo dentro di sé lo pervase con la violenza di uno schiaffo.
    Il suo corpo magro e spigoloso, con le vertebre della schiena, quelle più vicine al collo, sporgenti, così come le costole in evidenza e le dita delle mani scheletriche, quasi tutto in lui gridava ‘fragilità’. E tale fragilità non riguardava soltanto la sfera fisica, ma anche e soprattutto quella emotiva. Bastava osservare i suoi occhi grandi e azzurri per rendersene conto. E Alan detestava chi se ne prendeva gioco, chi se ne approfittava, chi usava l’insulsa prevaricazione per sottomettere sia nel corpo che nell’anima una persona già prostrata dalla crudeltà della vita, una persona che chiede solo un po’ d’amore.
    Spremette il tubetto di shampoo e gli tirò piano i capelli indietro, cominciando a insaponarglieli con dolcezza. Jason aveva le palpebre chiuse e le guance bagnate per via delle lacrime che ancora scendevano silenziose. Gli fece appoggiare la nuca sul bordo della vasca e gli massaggiò la cute, piegandosi poi per depositare un bacio sulla sua fronte distesa.
    “Io ci sarò sempre, J.J. Sempre. Capito?” gli bisbigliò a pochi centimetri dal viso e in quell’istante l’amico aprì gli occhi, spalancandoli su di lui. Due pozzi azzurro cielo, spauriti e sofferenti, liquidi e puri come quelli di un bambino. Jason guardò Alan come si guarda la propria madre, con assoluta devozione, con una muta richiesta di affetto, con incondizionata gratitudine. Dopodichè gli circondò il collo con le braccia senza un filo di muscoli e lo attirò a sé, cercando le labbra del maggiore per un bacio, che non gli fu negato. Fu un tenero sfiorarsi, un leggero contatto che nascondeva un significato ben più profondo di quello che traspariva.
    Alan aveva sempre considerato Jason il compagno della sua anima, l’unico individuo esistente al mondo con cui il suo spirito era mai entrato in risonanza, quasi fosse un prolungamento del suo corpo, di se stesso. Era amore anche quello, ma era diverso dal tipo che invece lo legava a Raphael, più inerente al cuore, alla passione, al desiderio. L’amore che provava per il coetaneo era differente, ma non per questo meno importante o indispensabile, era altrettanto travolgente e unico e li fondeva in un solo essere vivo e pulsante, in un universo in cui i sensi erano ovattati, un universo fatto di calore e pace che li faceva sentire entrambi leggeri e liberi di ridere.
    Alan gli accarezzò lievemente una guancia e sulla bocca si disegnò un sorriso, a cui l’altro rispose, seppur non con la medesima espansività.
    “Resti con me?” chiese Jason con voce arrochita.
    “Sì. Fino a quando ne avrai bisogno.” gli diede un buffetto e gli sciacquò i capelli, poi lo fece alzare e lo coprì con un asciugamano pulito. Lo aiutò a stendersi sul letto e quello gli fece spazio per permettergli di sdraiarsi al suo fianco. Il più piccolo si accoccolò su di lui, la faccia affondata nell’incavo fra il collo e la spalla e le braccia raccolte al petto.
    “Grazie, Al.” mormorò.
    “Di nulla.”
    “E scusa.”
    “Per cosa?”
    “Ogni volta che mi faccio scoprire da te in queste condizioni, sento di farti un torto. Perché tu non fai altro che dirmi che dovrei diventare più forte, ribellarmi, tirare fuori i denti e non subire senza emettere un fiato ed io ti rispondo sempre che lo farò, che ci proverò. Invece, quasi ogni volta che varchi quella soglia, mi trovi così…” singhiozzò e gli si strinse di più addosso. “Scusa…”
    Alan sospirò stanco e lo cullò ad occhi chiusi. “Ti dico quelle cose perché voglio che tu sia felice, JJ. Ma la felicità arriva soltanto a chi sa ricercarla con tutto se stesso, non a chi si lascia sballottare qua e là dal flusso degli eventi. Per questo motivo vorrei che diventassi forte, vorrei che imparassi ad alzarti da solo e a correre con le tue gambe. Io ci sarò sempre per te, ma forse la mia presenza non ti aiuta a crescere e a trovare quella forza necessaria per-”
    “Vuoi abbandonarmi?!” sbottò angosciato.
    “No! No, non lo farò mai, è una promessa.”
    “Scusami. Lo so che hai ragione, ma… ho troppa paura di Charlie. E poi, lui mi ama, a modo suo.”
    “Non ti ama, J.J. Se ti amasse veramente, non ti farebbe del male. Perché amore vuol dire desiderare soltanto la felicità della persona amata, starle accanto nei momenti di difficoltà e non lasciarla mai. Lui, invece, ti usa e basta. Ti scopa, ti picchia e infine ti abbandona come se tu fossi una puttana. Certo, lo sei stato, ma ora non più, quel capitolo della tua vita è chiuso, non ti riguarda adesso. E lui non deve permettersi di trattarti in quel modo inumano, neanche fosse un animale.”
    “Perché fai così, Al?”
    “Così come?”
    “Ti scaldi sempre quando si parla di Charlie.”
    “Perché mi preoccupo per te, cazzo! Non mi va di arrivare qui, un giorno, e trovarti morto, va bene? Buttalo fuori dalla tua vita, J.J., ti prego.”
    Jason rimase in silenzio per un po’, l’aria assorta e al contempo intrisa di tristezza.
    “Tu mi ami, Al?”
    “Sì, ti amo.”
    L’altro sorrise. “Anch’io.” strofinò il naso sulla pelle del suo collo, come un cucciolo. “Ti amo tantissimo.”
    “Chiamo il tuo capo e gli dico che stasera non lavori?”
    “Mh, per favore.” biascicò, già in dormiveglia.
    “Ok”
    Fece la telefonata e, quando riattaccò, Jason si era addormentato come un sasso. Al diciottenne non sfuggirono le occhiaie marcate, il pallore del suo viso deturpato dai segni della violenza di quel bruto di Charles, la rassegnazione che emanava tutto il suo essere, e non gli piaceva affatto. Per tre anni aveva tentato di insegnare all’amico a combattere, ad affrontare le proprie debolezze; gli aveva teso parecchie volte la mano, gli aveva trovato un lavoro, lo aveva aiutato con le prime spese per la casa, si era preso cura di lui quando gli incubi dei suoi giorni da prostituto lo tormentavano durante la notte; gli era rimasto accanto sempre e comunque, a dispetto delle liti, delle incomprensioni, accettando quel ragazzino per chi era, ma ora stava per raggiungere il limite di sopportazione. Non voleva vedere Jason ridursi in quello stato, non voleva assistere impotente mentre cercava di autodistruggersi. E probabilmente era stato Alan a trasformarlo nel ragazzino fragile che era. Aveva risolto troppi problemi al suo posto, si era fatto carico di troppe responsabilità, alleggerendo con sincero spirito altruistico il peso che il moro si portava sulle gracili spalle. E questo suo comportamento aveva negato al giovane l’opportunità di crescere, di fortificarsi, di reagire alle avversità, di rapportarsi alle difficoltà con sempre maggior maturità e risolutezza. Di conseguenza, Jason era rimasto un bambino, un docile e tenero infante che si affida completamente e con cieca fiducia alle sue cure, perché sa che non verrà mai deluso. In sostanza, Alan lo aveva viziato e ora era un’impresa ardua provare a distaccarsi almeno un po’, per interporre fra loro la distanza perfetta per far sì che l’amico diventasse un uomo.
    Però, dall’altra parte, non se la sentiva di rompere l’equilibrio che si era creato nel corso degli anni, temeva un crollo psicologico del compagno, già instabile, e se gli fosse accaduto qualcosa in sua assenza non se lo sarebbe mai perdonato.
    Inoltre, quello stesso giorno era stata colpa sua se il diciassettenne era stato violentato per l’ennesima volta da quello che Jason chiamava ingenuamente “il mio ragazzo”. Se solo non fosse arrivato in ritardo, forse Charles non si sarebbe fatto vedere. Era colpa sua, stava a lui chiedere scusa, in verità. E quando il moro si fosse svegliato glielo avrebbe detto. Anche se, più di ogni altra cosa, voleva comprendere cosa spingeva il minore fra le braccia di quel drogato, cosa ci trovava in lui di così irresistibile, tanto da non osare e non desiderare affatto di opporsi. Era soltanto paura oppure c'era qualcosa di più? Per esempio, una sorta di sindrome di Stoccolma o qualcosa del genere. Sospirò abbattuto.
    Lo abbracciò stretto a sé, inalando la fragranza dolce dello shampoo.
    Non avrebbe mai permesso che si disintegrasse con le sue stesse mani, lo avrebbe protetto al meglio delle proprie possibilità. E, prima di cadere anche lui nel sonno, sbuffò divertito, realizzando quanto fosse difficile il mestiere del genitore e percependo un concreto sentimento di empatia per sua madre: proteggere e allo stesso tempo rendere indipendenti. Tanto valeva prefissarsi l’obiettivo di eliminare la fame nel mondo. Anzi, quest’ultimo sarebbe stato assai più facile da portare a termine. Forse.













    ah, mi ero dimenticata di informarvi che aggiornerò quotidianamente, tanto la storia è già completa :)

    Edited by Lady1990 - 27/10/2013, 10:48
     
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  2. Lady1990
     
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    ah, scusatemi se ci sarà qualche errore di battitura, pochi comunque perché la storia l'ho corretta tutta, ma è possibile che mi sia sfuggito qualcosa :) se trovate qualche errore segnalatemelo!
     
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1 replies since 26/10/2013, 15:13   77 views
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