Posts written by Giusy Viro Author Romance

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    Ciao Milly!!!!!!!
    E' un piacere averti tra noi.
    Ho letto tutte le tue storie su efp .
    Sono felicissima di fare la tua conoscenza e il piacere è doppio perchè conosco il tuo talento come scrittrice; grazie per aver accettato il nostro invito.

    Un abbraccio
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    che bello rileggerla e bentornata ^_^ tra noi,. Questa storia mi piace troppo.
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    Sempre più bella e avvincente, complimentissimi Lady :)
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    Ciao Ivana, la storia è molto credibile.
    Mi è piaciuta parecchio .
    basarsi sui manga è una buona e versatile palestra creativa, quindi continua.
    Questa tua originale è veramente bella.
    alla prossima e grazie , come sempre

    :)
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    Molto molto bella. Bravissime ragazze.
    Aspettiamo di leggerne altre
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    Che bella che è questa storia, mi piace tantissimo. Brava :)
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    Brava Silvia, mi è molto piaciuta.
    Continua così e grazie per averla postata :)
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    La rileggo con piacere e con altrettanto piacere ti ripeto che mi piace tantissimo.
    Complimenti :D
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    LDY HO SPOSTATO IN QUESTO TOPIC I CAPITOLI DELLA TUA LONG IN MODO CHE LA LETTURA SIA CONTINUA E PER PERMETTERE AI TUOI LETTORI DI TROVARLA SUBITO.
    PER FAVORE IL PROSEGUO DELLA STORIA CONTINUA A POSTARLO IN QUESTO STESSO TOPIC COSì CHE POTREMO LEGGERLA DI SEGUITO.



    “Alan, passami quel vaso peonie, per favore.”
    “Subito.” il giovane posò l’annaffiatoio e si chinò per prendere ciò che gli era stato chiesto.
    Come di consueto, il weekend Alan aiutava sua madre al negozio di fiori, facendo da commesso e occupandosi delle consegne. Per lui non era affatto un peso, si divertiva a immergersi in quel mondo colorato e profumato, gli metteva addosso allegria e spensieratezza, tanto che spesso, mentre innaffiava le piante, cominciava a fischiettare o a canticchiare fra sé e sé. Fin da quando era bambino trascorreva molti pomeriggi in quel piccolo locale verdeggiante e ormai aveva imparato quasi tutto quello che c’era da sapere sui fiori. Era diventato anche molto bravo con i bouquet e spesso la donna glieli lasciava preparare dandogli carta bianca, così che Alan potesse dare sfogo a tutto il suo estro creativo. Prediligeva i colori accesi, pieni di vita, e li combinava insieme in un uno sgargiante arcobaleno profumato tenuto unito da un nastro di raso di tonalità diversa ogni volta.
    Daisy Bell era una bella donna sulla quarantina, con dei fluenti capelli rosso fuoco e due grandi occhi verdi bosco, tratti che il figlio aveva ereditato in toto, insieme ad una capigliatura ribelle che gli dava un’aria sbarazzina e bambinesca. Il marito di Daisy era morto da molti anni di cancro e da allora si era rimboccata le maniche e, con la sua proverbiale determinazione, aveva mandato avanti il negozio con le sue sole forze. All’inizio era stata male, ma poi aveva trovato in sé il coraggio di andare avanti e grazie al figlio era riuscita a riemergere dal vortice di dolore causato dalla perdita del compagno. Ora aveva l’aspetto di una persona serena e sorridente, sempre in attività e impegnata in qualcosa che amava e che la faceva sentire realizzata, ed Alan non poteva che esserne felice.
    Voleva bene alla sua mamma, cercava di non deluderla mai o renderla triste, e farle percepire materialmente la sua presenza al suo fianco era un modo per aiutarla e per non lasciarla sola.
    Mentre ripensava a queste cose, notò una persona dai lineamenti familiari camminare avanti e indietro sul marciapiede dall’altro lato della strada. Era un uomo sulla cinquantina, un po’ stempiato, ma dall’aria gentile e timida, che tutti i weekend, da ormai quasi un anno, a pomeriggio inoltrato, veniva in negozio ad acquistare qualche nuova piantina; e, a meno che non vivesse in un super appartamento o villino di cinquecento metri quadrati, il ragazzo non riusciva proprio a immaginare dove se le infilasse: perché comprare due vasi, grandi o piccoli che fossero, alla settimana, se uno non avesse disposto di un considerevole spazio, avrebbe trasformato una casa normale in una giungla. Però la sua aria distinta, il completo giacca e cravatta sempre in ordine, i capelli scuri appena brizzolati pettinati con accortezza e le mani dalle unghie curate e pulite, tutti questi elementi davano l’impressione che fosse un individuo più che benestante. Anche se Alan non era il genere di persona che giudica in base all’aspetto, magari era solo una facciata e in realtà era un poveraccio che si faceva bello solo per venire a trovare Daisy e che disponeva di un solo completo elegante in tutto l’armadio, invaso da tute, jeans e camice a quadrettoni.
    Il giovane ghignò divertito, distraendosi ad osservare il tipo che, piantato ora in mezzo al marciapiede, fissava assorto il negozio di fiori. Lo vide grattarsi la nuca in un gesto nervoso, risistemarsi la chioma, aggiustarsi la cravatta e deglutire, un lieve rossore che gli colorava le guance. Alan lo trovava uno spasso.
    “Cosa sorridi?” gli chiese la madre, insospettita dalla sua espressione.
    “Il signor Corvey è arrivato.” dichiarò sghignazzando sotto i baffi.
    La donna sussultò e prese a borbottare imbarazzata, mettendosi a pulire il bancone dai residui di foglie, rametti, petali e steli con solerzia, come se volesse dare a intendere al figlio che la questione la lasciava del tutto indifferente. Ma il rosso aveva già capito che quei due erano attratti l’uno dall’altra e si divertiva a guardarli interagire impacciati come dodicenni alla prima cotta. Era contento che Daisy avesse riaperto il suo cuore, per troppi anni era rimasta sola, lavorando e basta, solo per badare a lui. E il signor Corvey ad Alan piaceva.
    Il sopraccitato girò la testa prima a destra e poi a sinistra per controllare che non passassero macchine. Alla fine si decise ad attraversare e pochi attimi più tardi il campanello della porta tintinnò.
    “Ehm, buon pomeriggio.” salutò con un sorriso, cercando di apparire disinvolto.
    Al ragazzo non sfuggì l’occhiata adorante che questi lanciò a Daisy, mascherata subito da un tempestivo e simulato attacco di tosse.
    “Buon pomeriggio a lei, signor Corvey.” rispose l’altra, portandosi una ciocca di capelli vermigli dietro l’orecchio in una mossa calcolata e la contempo inconscia. “Sta bene?” domandò poi, riferendosi alla tosse dell’uomo.
    “Oh… sì sì, benone! E lei come sta, signora Bell?”
    “Bene, grazie.”
    Trascorsero qualche secondo a osservarsi imbarazzati, tempo che Alan impiegò ad esercitare sui suoi muscoli facciali una certa pressione affinché non tradissero la sua straripante ilarità.
    Dopodichè, il signor Corvey si rivolse a lui. “Buon pomeriggio anche a te, Alan.”
    Un aspetto che apprezzava di lui era che non lo appellava mai con epiteti quali “giovanotto”, “campione”, “ragazzo”, ma lo chiamava sempre per nome.
    “Salve, signore.” ricambiò digrignando i denti e cercando, per questo, di non apparire scortese. Se fosse scoppiato a ridergli in faccia, non ci avrebbe fatto una figura intelligente.
    “Come va la scuola?”
    “Al solito, signore.”
    “Bene… bene. Ehm…” tornò a grattarsi la nuca e spaziò con gli occhi per tutto il negozio, alla ricerca di qualcosa da acquistare, senza sapere che madre e figlio fossero più che coscienti che quello era solo un pretesto per giustificare la sua presenza lì. “Vorrei quella.” indicò un vaso di orchidee bianche.
    Daisy seguì la direzione del dito del cliente e, appena si avvide di cosa l’uomo desiderasse, divenne paonazza. Perché le orchidee significavano passione e la certezza di un amore corrisposto, come una confessione di rispetto e venerazione. Forse il signor Corvey non era a conoscenza del linguaggio dei fiori, ma lei sì; e nonostante ci fosse la possibilità che la scelta dell’altro potesse essere attribuibile ad una mera casualità, alla donna piacque credere che invece fosse stata ponderata. Come un messaggio occulto e subliminale che solo lei poteva cogliere. Il momento successivo, tuttavia, si rabbuiò e il suo entusiasmo venne mitigato, se non addirittura soffocato, dal pensiero che forse quelle orchidee erano per un’altra donna. D’altronde, perché mai un uomo affascinante come il signor Corvey avrebbe dovuto essere single? Magari aveva già una compagna, una persona speciale che voleva conquistare o alla quale voleva ribadire il suo amore.
    Circondò il vaso di coccio con le dita bagnate d’acqua e sporche di terriccio e lo depose sul banco, vicino alla cassa.
    “Vuole che glielo impacchetti?” chiese senza guardarlo negli occhi, il cuore che le batteva forte nel petto, delusione ed euforia che ancora guerreggiavano selvaggiamente dentro di lei per ottenere la supremazia l’una sull’altra.
    “Faccia come al solito, mi fido del suo buon gusto.”
    “Come desidera.”
    Infilò il vaso in un sacchetto con stampate sopra delle coccinelle e lo infiocchettò con un nastro lilla bucherellato.
    “Ecco a lei.” batté lo scontrino e l’uomo pagò in contanti.
    Al momento di porgerle i soldi, i suoi polpastrelli sfiorarono inavvertitamente quelli di Daisy, che avvampò e ritrasse la mano come scottata. Gli fece il resto ma non glielo depose nel palmo, appoggiandoglielo invece sulla superficie fredda del banco.
    “Grazie. Beh… allora arrivederci, signora Bell. Alan.” fece un rapido cenno del capo al ragazzo.
    “Arrivederci, signor Corvey.” lo salutò la donna con un sorriso mesto.
    Il campanello tintinnò di nuovo e il signor Corvey se ne andò.
    Alan fulminò la madre con un’occhiataccia sconsolata, rimproverandola in silenzio.
    “Che c’è?”
    Sbuffò. “Niente…” esitò, le parole già sul piede di partenza in gola che attendevano solamente che lui aprisse la bocca, anche di poco, per uscire. “Niente.”
    “Se hai qualcosa da dire, dilla.” Daisy puntò le mani sui fianchi e lo squadrò con cipiglio irritato.
    “Vuoi che ti dica quello che penso?” arcuò un sopracciglio.
    “Sì.”
    “Sei un’idiota.”
    “Hey! Modera i termini, sono tua madre!”
    “Ciò non toglie che sei un’idiota.” ribadì perentorio, dandole la schiena per continuare ad innaffiare.
    L’altra scosse la testa con arrendevolezza e tornò ad occuparsi dei bouquet. Dopo un paio di minuti, durante i quali non volò una mosca, Daisy domandò: “e perché secondo te sarei un’idiota?”
    “Perché ha scelto le orchidee.”
    “Non ti seguo.”
    “Sei anche cieca? Gli piaci, mamma!” sbottò spazientito, brandendo con enfasi l’innaffiatoio per aria e rischiando di fare una doccia a entrambi.
    “Ah! Che sciocchezze!” obiettò seccamente. Poi “cosa te lo fa pensare?” indagò con apparente disinteresse.
    “Ti stupra con gli occhi.”
    “Alan!” esclamò sconvolta.
    “Beh, è vero…” bofonchiò con un’alzata di spalle.
    “No, non lo è!”
    “Sì, invece! Scommetto che a casa sua ha una tua foto piazzata sopra al comodino, circondata da tutti i fiori che compra qui e qualche candela, modello altarino. Fa anche rima.”
    “Alan, smettila subito.”
    Il giovane sbuffò ancora, chiedendosi di cosa avesse paura sua madre, che cosa la frenasse dal raccogliere le avance del signor Corvey. Ma alla fin fine non erano affari suoi, spettava a lei districarsi e gestire come più le pareva la propria vita sentimentale e lui non voleva metterci il naso più di tanto. Diamine, quello le sbavava dietro da quasi un anno, anche i passanti abituali della via se n’erano accorti, era palese. Perché quindi Daisy si ostinava a nascondere la testa sottoterra come uno struzzo?
    Bah, roba da donne.
    Guardò l’ora sull’orologio d’antiquariato appeso alla parete, orologio che la madre aveva scovato su una bancarella del mercatino delle pulci, e si accorse che erano già le sei e mezza. Era in ritardo per l’appuntamento con Jason e Dio solo sapeva quante gliene avrebbe dette circa il suo inesistente senso della puntualità e l’insopportabile vizio di avere costantemente la testa fra le nuvole.
    Finì di affogare le piante e si tolse il grembiule sporco di terra, riponendolo sull’attaccapanni in un angolo del negozio.
    “Mamma, io vado da J.J.!” le disse urlando.
    “Alan, siamo giusto a un metro di distanza, puoi anche evitare di sfondarmi i timpani ogni volta che apri la tua boccuccia di rosa, sai?” gli rispose con un sorriso a metà tra lo scocciato e il divertito, già dimentica della loro piccola discussione.
    “Questo è il mio naturale tono di voce!” replicò compunto, spettinandosi con una mano la zazzera rossa.
    “Che fortuna…” borbottò sarcastica la donna. “Vai, non farlo aspettare. Torni per cena?”
    “Sì! Anzi, non lo so. Ti mando un messaggio.”
    Alan afferrò la borsa, se la mise a tracolla e uscì di fretta, inforcò la bici e pedalò a ritmo sostenuto fino in periferia, dove abitava Jason. Questi aveva un anno meno di lui, cioè diciassette, e viveva da solo in un monolocale malconcio situato in un quartiere non proprio famoso per la sicurezza delle strade. I suoi genitori, padre operaio e madre casalinga, lo avevano cacciato di casa non appena avevano scoperto la sua omosessualità e da allora Jason aveva dovuto cavarsela da solo. Prima che Alan lo conoscesse, era un giovane marchettaro di appena quattordici anni, praticamente veniva abbordato dai pedofili, ma si avvide presto che quella vita non faceva al caso suo, perché, ingenuo e remissivo com’era, lasciava che i clienti lo usassero senza poi pagargli la cifra pattuita. Inoltre, molti lo costringevano a intrattenere rapporti sessuali non protetti e lui non aveva il coraggio di dire di no, troppo il timore di restare senza nemmeno i soldi per mangiare. Per sua immensa fortuna non prese mai alcuna malattia, ma era comunque rischioso, nonché pericoloso. Per giunta, in quel periodo dormiva in un ricovero per poveri e barboni, poiché non guadagnava abbastanza denaro per affittare neppure una capanna, perciò anche le condizioni igieniche non erano delle migliori. E, sebbene ne avesse sempre denigrato l’uso, stava cominciando pure ad avvicinarsi per disperazione al mondo della droga, come unica via di fuga dall’inferno che viveva ogni giorni, dall’incubo che era costretto a sopportare per la fame.
    Alla fine, in un giorno grigio d’autunno, aveva incontrato Alan, in sella alla sua bici, con il bauletto traboccante di fiori profumati e colorati. Era accaduto tre anni prima. Quel solare ragazzo con un improponibile cespuglio di capelli rossi e ribelli stava passando da quelle parti per effettuare una consegna a domicilio. Così, per caso, lo aveva notato seduto sul marciapiede e gli aveva regalato un fiore con una spontaneità disarmante, sorridendogli come mai nessuno aveva fatto e facendogli nascere un piacevole calore nel petto a cui successivamente riuscì a dare il nome di ‘speranza’. E di tempo ne era trascorso davvero poco prima che Alan, appreso il suo stile di vita, gli si attaccasse come una cozza allo scoglio e lo aiutasse a cercarsi un lavoro onesto e più remunerativo. Ora Jason lavorava come cameriere in un bar frequentato da gente non proprio raccomandabile, e la paga era una miseria, ma almeno era sicuro di ricevere dei soldi a fine mese, abbastanza per pagare l’affitto del suo squallido monolocale e per nutrirsi.
    Alan gli aveva letteralmente cambiato la vita, gli aveva afferrato la mano con un gesto brusco e lo aveva tirato su dal baratro in cui stava cadendo, sollevandolo dal fango e dall’infelicità. Da allora erano diventati migliori amici e si vedevano quasi ogni giorno, godendo della reciproca compagnia come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non avessero mai fatto altro da quando erano nati. La sintonia e la complicità che li univano erano sorprendenti e inusuali, ma loro non si erano mai fatti troppe domande.
    Le ruote sottili di gomma tagliarono in due una pozzanghera sull’asfalto, fecero lo slalom tra cartacce, cocci di vetro e bottiglie di alcolici abbandonati lungo la strada e si lasciarono pian piano alle spalle lo scenario di degrado che regnava sovrano in quella parte della città, per giungere in una zona famosa per i traffici di droga e le lotte clandestine: lì abitava Jason. Alan frenò davanti ad un edificio quasi in rovina e abbassò il capo per rovistare nella borsa in cerca delle chiavi dell’appartamento. L’amico gliene aveva fornite una copia per qualunque evenienza e ormai il rosso era diventato di casa in quel tugurio impregnato del fetore delle fogne, che proveniva sottoforma di effluvi tossici dai tombini.
    Alzò il viso trionfante con il mazzo di chiavi in mano, quando scorse una sagoma familiare dietro la porta di vetro opaco del fatiscente condominio. Smontò dalla bici imprecando a bassa voce, si coprì la testa con il cappuccio della felpa leggera di cotone e si appiattì contro il muro dall’intonaco sudicio e scrostato, accovacciandosi e fingendo di essere uno dei tanti derelitti che popolavano quelle vie.
    Un ragazzo ben piazzato, che dimostrava tra i venticinque e i trent’anni, con i capelli neri a spazzola, un piercing in mezzo al labbro inferiore e gli occhi leggermente a palla scuri come la pece, uscì dopo un paio di secondi, si aggiustò il giubbotto di pelle nera e si allontanò nella direzione opposta senza accorgersi di Alan. Questi digrignò i denti, le mani che prudevano dalla voglia di scagliarsi su quell’individuo abietto e cambiargli i connotati a forza di botte, ma si costrinse a rimanere piegato sulle ginocchia finché l’altro non scomparve in una stradina laterale. A quel punto si alzò di scatto, recuperò la bici, abbandonandola poi sul pianerottolo dell’edificio e legandola con catene e lucchetto, e si precipitò su per le scale, il cuore che batteva impazzito nel torace e il sangue che lentamente defluiva dal volto. Prese a sudare freddo, l’adrenalina e la paura offuscavano la fatica e le fitte di dolore che gli trasmetteva la milza, mentre arrancava sugli scalini come un forsennato per arrivare al quinto piano.
    Gli furono necessari quattro tentativi per infilare la chiave nella serratura, poiché, data l’agitazione che gli scorreva impetuosa nelle vene, i palmi erano sudati e le dita tremanti. Quasi ruppe i cardini dalla foga con cui irruppe nel monolocale e immediatamente scandagliò con occhi sgranati l’ambiente. In un primo momento pareva tutto a posto, se non fosse stato per una figura raggomitolata su una brandina dalle molle rotte, coperta a malapena con un lenzuolo azzurro sgualcito.
    “J.J.!” esclamò, raggiungendo come un razzo il capezzale dell’amico, inginocchiandosi sul pavimento con aria apprensiva. “J.J…” sussurrò meno convinto.
    Jason non voleva evidentemente la minima intenzione di riemergere dal bozzolo di coperte e Alan lo scrutò corrucciato.
    “Cosa ti ha fatto, J.J.?” gli pose delicatamente una mano su quella che suppose fosse una spalla e gliela accarezzò. “Ho visto Charles uscire.”
    Ancora nessuna risposta.
    “Ti ha messo di nuovo le mani addosso? Avanti, fatti vedere.” lo incoraggiò in tono gentile e pacato.
    Alle orecchie gli giunse un pigolio lamentoso e il lenzuolo si mosse un poco, giusto quel tanto che bastava per rendere quella prigione di tessuto ancora più inespugnabile.
    “Jason, per favore. Non fare così, ci sono io adesso.” lo pregò, continuando ad accarezzarlo.
    Gli ci vollero molti minuti per convincere l’amico a venire fuori e quando lo fece, ad Alan occorse tutta la sua pazienza, non molta in realtà, per non ringhiare o imprecare.
    Fissò contrito il livido bluastro sullo zigomo sinistro, il taglio ancora rosso e incrostato di sangue sul labbro superiore, i piccoli ematomi tondeggianti sul collo niveo e il nulla riflesso nelle iridi azzurre dell’altro. Il cuore gli si compresse in una morsa dolorosa, ma inghiottì l’amaro che gli era salito repentinamente in gola e non proferì parola, limitandosi a stringere Jason in un abbraccio confortevole e caldo. Avvertiva gli occhi e il naso pizzicare, ma cacciò indietro le lacrime, non era quello di cui l’altro aveva bisogno, in quel momento.
    “Vieni, andiamo in bagno, ti aiuto a darti una sciacquata.”
    Lo prese in braccio avvolto ancora nel lenzuolo e lo scaricò nella vasca, delle cui condizioni igieniche Alan aveva sempre dubitato, a causa delle chiazze marroncine intorno allo scarico e sui bordi. Riuscì a strappare all’altro la sua corazza di cotone, gettandosela poi alle spalle con noncuranza, e con l’espressione più impassibile del suo repertorio aprì il getto dell’acqua, regolando la temperatura. Jason si rannicchiò in posizione fetale, forse con l’intenzione di trasformarsi in una particella minuscola, e i capelli lisci e neri, lunghi fino alle spalle e tagliati a caschetto, andarono a coprirgli il viso come le due ali di una tenda.
    Il diciottenne lo ignorò e con la spugna iniziò a strofinare la pelle chiara dell’amico, stando attento a non premere sui lividi o sulle escoriazioni disseminate ovunque. Serrò le labbra così forte da farle impallidire, gli occhi verdi divennero laghi di pena e dispiacere e l’impulso di abbracciare Jason fino ad inglobarlo dentro di sé lo pervase con la violenza di uno schiaffo.
    Il suo corpo magro e spigoloso, con le vertebre della schiena, quelle più vicine al collo, sporgenti, così come le costole in evidenza e le dita delle mani scheletriche, quasi tutto in lui gridava ‘fragilità’. E tale fragilità non riguardava soltanto la sfera fisica, ma anche e soprattutto quella emotiva. Bastava osservare i suoi occhi grandi e azzurri per rendersene conto. E Alan detestava chi se ne prendeva gioco, chi se ne approfittava, chi usava l’insulsa prevaricazione per sottomettere sia nel corpo che nell’anima una persona già prostrata dalla crudeltà della vita, una persona che chiede solo un po’ d’amore.
    Spremette il tubetto di shampoo e gli tirò piano i capelli indietro, cominciando a insaponarglieli con dolcezza. Jason aveva le palpebre chiuse e le guance bagnate per via delle lacrime che ancora scendevano silenziose. Gli fece appoggiare la nuca sul bordo della vasca e gli massaggiò la cute, piegandosi poi per depositare un bacio sulla sua fronte distesa.
    “Io ci sarò sempre, J.J. Sempre. Capito?” gli bisbigliò a pochi centimetri dal viso e in quell’istante l’amico aprì gli occhi, spalancandoli su di lui. Due pozzi azzurro cielo, spauriti e sofferenti, liquidi e puri come quelli di un bambino. Jason guardò Alan come si guarda la propria madre, con assoluta devozione, con una muta richiesta di affetto, con incondizionata gratitudine. Dopodichè gli circondò il collo con le braccia senza un filo di muscoli e lo attirò a sé, cercando le labbra del maggiore per un bacio, che non gli fu negato. Fu un tenero sfiorarsi, un leggero contatto che nascondeva un significato ben più profondo di quello che traspariva.
    Alan aveva sempre considerato Jason il compagno della sua anima, l’unico individuo esistente al mondo con cui il suo spirito era mai entrato in risonanza, quasi fosse un prolungamento del suo corpo, di se stesso. Era amore anche quello, ma era diverso dal tipo che invece lo legava a Raphael, più inerente al cuore, alla passione, al desiderio. L’amore che provava per il coetaneo era differente, ma non per questo meno importante o indispensabile, era altrettanto travolgente e unico e li fondeva in un solo essere vivo e pulsante, in un universo in cui i sensi erano ovattati, un universo fatto di calore e pace che li faceva sentire entrambi leggeri e liberi di ridere.
    Alan gli accarezzò lievemente una guancia e sulla bocca si disegnò un sorriso, a cui l’altro rispose, seppur non con la medesima espansività.
    “Resti con me?” chiese Jason con voce arrochita.
    “Sì. Fino a quando ne avrai bisogno.” gli diede un buffetto e gli sciacquò i capelli, poi lo fece alzare e lo coprì con un asciugamano pulito. Lo aiutò a stendersi sul letto e quello gli fece spazio per permettergli di sdraiarsi al suo fianco. Il più piccolo si accoccolò su di lui, la faccia affondata nell’incavo fra il collo e la spalla e le braccia raccolte al petto.
    “Grazie, Al.” mormorò.
    “Di nulla.”
    “E scusa.”
    “Per cosa?”
    “Ogni volta che mi faccio scoprire da te in queste condizioni, sento di farti un torto. Perché tu non fai altro che dirmi che dovrei diventare più forte, ribellarmi, tirare fuori i denti e non subire senza emettere un fiato ed io ti rispondo sempre che lo farò, che ci proverò. Invece, quasi ogni volta che varchi quella soglia, mi trovi così…” singhiozzò e gli si strinse di più addosso. “Scusa…”
    Alan sospirò stanco e lo cullò ad occhi chiusi. “Ti dico quelle cose perché voglio che tu sia felice, JJ. Ma la felicità arriva soltanto a chi sa ricercarla con tutto se stesso, non a chi si lascia sballottare qua e là dal flusso degli eventi. Per questo motivo vorrei che diventassi forte, vorrei che imparassi ad alzarti da solo e a correre con le tue gambe. Io ci sarò sempre per te, ma forse la mia presenza non ti aiuta a crescere e a trovare quella forza necessaria per-”
    “Vuoi abbandonarmi?!” sbottò angosciato.
    “No! No, non lo farò mai, è una promessa.”
    “Scusami. Lo so che hai ragione, ma… ho troppa paura di Charlie. E poi, lui mi ama, a modo suo.”
    “Non ti ama, J.J. Se ti amasse veramente, non ti farebbe del male. Perché amore vuol dire desiderare soltanto la felicità della persona amata, starle accanto nei momenti di difficoltà e non lasciarla mai. Lui, invece, ti usa e basta. Ti scopa, ti picchia e infine ti abbandona come se tu fossi una puttana. Certo, lo sei stato, ma ora non più, quel capitolo della tua vita è chiuso, non ti riguarda adesso. E lui non deve permettersi di trattarti in quel modo inumano, neanche fosse un animale.”
    “Perché fai così, Al?”
    “Così come?”
    “Ti scaldi sempre quando si parla di Charlie.”
    “Perché mi preoccupo per te, cazzo! Non mi va di arrivare qui, un giorno, e trovarti morto, va bene? Buttalo fuori dalla tua vita, J.J., ti prego.”
    Jason rimase in silenzio per un po’, l’aria assorta e al contempo intrisa di tristezza.
    “Tu mi ami, Al?”
    “Sì, ti amo.”
    L’altro sorrise. “Anch’io.” strofinò il naso sulla pelle del suo collo, come un cucciolo. “Ti amo tantissimo.”
    “Chiamo il tuo capo e gli dico che stasera non lavori?”
    “Mh, per favore.” biascicò, già in dormiveglia.
    “Ok”
    Fece la telefonata e, quando riattaccò, Jason si era addormentato come un sasso. Al diciottenne non sfuggirono le occhiaie marcate, il pallore del suo viso deturpato dai segni della violenza di quel bruto di Charles, la rassegnazione che emanava tutto il suo essere, e non gli piaceva affatto. Per tre anni aveva tentato di insegnare all’amico a combattere, ad affrontare le proprie debolezze; gli aveva teso parecchie volte la mano, gli aveva trovato un lavoro, lo aveva aiutato con le prime spese per la casa, si era preso cura di lui quando gli incubi dei suoi giorni da prostituto lo tormentavano durante la notte; gli era rimasto accanto sempre e comunque, a dispetto delle liti, delle incomprensioni, accettando quel ragazzino per chi era, ma ora stava per raggiungere il limite di sopportazione. Non voleva vedere Jason ridursi in quello stato, non voleva assistere impotente mentre cercava di autodistruggersi. E probabilmente era stato Alan a trasformarlo nel ragazzino fragile che era. Aveva risolto troppi problemi al suo posto, si era fatto carico di troppe responsabilità, alleggerendo con sincero spirito altruistico il peso che il moro si portava sulle gracili spalle. E questo suo comportamento aveva negato al giovane l’opportunità di crescere, di fortificarsi, di reagire alle avversità, di rapportarsi alle difficoltà con sempre maggior maturità e risolutezza. Di conseguenza, Jason era rimasto un bambino, un docile e tenero infante che si affida completamente e con cieca fiducia alle sue cure, perché sa che non verrà mai deluso. In sostanza, Alan lo aveva viziato e ora era un’impresa ardua provare a distaccarsi almeno un po’, per interporre fra loro la distanza perfetta per far sì che l’amico diventasse un uomo.
    Però, dall’altra parte, non se la sentiva di rompere l’equilibrio che si era creato nel corso degli anni, temeva un crollo psicologico del compagno, già instabile, e se gli fosse accaduto qualcosa in sua assenza non se lo sarebbe mai perdonato.
    Inoltre, quello stesso giorno era stata colpa sua se il diciassettenne era stato violentato per l’ennesima volta da quello che Jason chiamava ingenuamente “il mio ragazzo”. Se solo non fosse arrivato in ritardo, forse Charles non si sarebbe fatto vedere. Era colpa sua, stava a lui chiedere scusa, in verità. E quando il moro si fosse svegliato glielo avrebbe detto. Anche se, più di ogni altra cosa, voleva comprendere cosa spingeva il minore fra le braccia di quel drogato, cosa ci trovava in lui di così irresistibile, tanto da non osare e non desiderare affatto di opporsi. Era soltanto paura oppure c'era qualcosa di più? Per esempio, una sorta di sindrome di Stoccolma o qualcosa del genere. Sospirò abbattuto.
    Lo abbracciò stretto a sé, inalando la fragranza dolce dello shampoo.
    Non avrebbe mai permesso che si disintegrasse con le sue stesse mani, lo avrebbe protetto al meglio delle proprie possibilità. E, prima di cadere anche lui nel sonno, sbuffò divertito, realizzando quanto fosse difficile il mestiere del genitore e percependo un concreto sentimento di empatia per sua madre: proteggere e allo stesso tempo rendere indipendenti. Tanto valeva prefissarsi l’obiettivo di eliminare la fame nel mondo. Anzi, quest’ultimo sarebbe stato assai più facile da portare a termine. Forse.

    QUESTO è IL TERZO CAPITOLO SEMPRE SCRITTO DALLA NOSTRA LADY 1990 E CHE MI SONO LIMITATA A TRASFERIRE IN QUESTO TOPIC.

    Il weekend metteva sempre Raphael a dura prova. Non poteva distrarsi con il lavoro e non poteva dedicarsi ad alcun hobby che gli permettesse di svuotare completamente il cervello, non avendone più uno. Prima, trascorreva due giorni in compagnia della sua famiglia, poiché erano gli unici momenti in cui finalmente gli era concesso di volgere lo sguardo solo e soltanto sulla moglie e la figlia, per osservarle ridere, ascoltare i loro cicalecci, guardarle dipingere o semplicemente entrare nella loro bolla di luce per venirne a sua volta inglobato. Dopo l’accaduto, invece, aveva perduto persino la voglia di muoversi o di respirare. Niente riusciva più a risvegliare il suo interesse, a scuoterlo nell’anima.
    Passava tutta la giornata a gironzolare per casa, faceva le pulizie, il bucato e guardava il telegiornale, ma quando il programma terminava, quando non c’era più nulla da lavare e tutto era ormai lindo e splendente, si metteva seduto sul divano a fissare un punto a caso. Non rispondeva al telefono e non andava ad aprire se suonavano il campanello. Restava immobile come una statua, lo sguardo spento e il volto pallido e stanco. Come un guscio vuoto.
    In quel momento stava spolverando gli scaffali pieni di cianfrusaglie varie nella cameretta di sua figlia. Non aveva toccato niente, in quei tre anni. Tutto era come lei lo aveva lasciato. Il pigiama piegato sul cuscino, opera di Alicia; un libro di fiabe abbandonato sul pavimento, aperto sulla storia della Sirenetta; la scatola delle bambole in mezzo alla stanza, con tutti i vestitini che traboccavano da essa; il camion di Barbie vicino al letto.
    Guardando quest’ultimo, un sorriso malinconico si aprì sul suo volto, illuminandolo per pochi secondi.

    “Papà! Papà!” quei richiami esagitati, che raggiungevano un livello spropositato di decibel, ferirono come coltellate i timpani delicati dell’interpellato, svegliatosi soltanto da mezzora e seduto al tavolo, con ancora le cispe incastrate nelle ciglia, a fare colazione e leggere le notizie sul giornale come ogni domenica mattina.
    “Mh.” grugnì intontito.
    “Papà, lo sai che il papà di Melinda ha comprato a Melinda il… il…” Margareth lanciò un’occhiata alla madre in cerca di aiuto. “Mamma!” si lagnò.
    “Camion…” le suggerì Alicia con un sorriso divertito.
    “Sì, il camion di Barbie?”
    “Ah…”
    “Lo sai?” insistette la piccola.
    “No…”
    “Lo compri anche a me?” gli chiese, aggrappandosi come un koala alla maglia del pigiama di Raphael.
    “Mh…” mugugnò questi assorto, continuando imperterrito a sfogliare le pagine e a bere distrattamente il caffè fumante dalla tazza. Ci soffiò appena sopra.
    “Papà!”
    “Che c’è, Maggy?” sbuffò monocorde.
    Margareth mise il broncio. Si arrampicò sulle gambe del padre, si intrufolò sotto il giornale e afferrò con le manine paffute le guance del genitore, indirizzandogli il viso verso di lei e facendo in modo che la guardasse negli occhi. Lo osservò con cipiglio serio e arrabbiato, persino un po’ agguerrito.
    “Papà! Voglio il camion di Barbie.”
    “No.” le rispose lapidario.
    La bambina esplose. “Ma perché?!” la sua vocina stridula riecheggiò per tutta la cucina e gli occhi le si fecero lucidi per il rifiuto ricevuto.
    “Piuttosto ti compro un bellissimo libro.”
    “Maggy non sa leggere, tesoro. E poi che genere di libro? Un trattato specialistico sull’oscillazione di origine sismica e i danni che essa può causare alle infrastrutture con pannelli catarifrangenti all’avanguardia?”
    “Esiste una cosa simile? Devo correre a comprarlo…”
    “No! Io voglio il camion!” si intromise Maggy, battagliera e decisa più che mai a vincere la sfida.
    Raphael fissò in tralice la moglie. “E aiutami, Cristo!” le sibilò infastidito.
    Alicia, con i capelli neri pieni di nodi e sparati nei quattro punti cardinali, gli occhi ancora appannati dal sonno e l’aria sbattuta, fece spallucce e riprese ad inzuppare i biscotti nel caffelatte.
    “Tch!” il marito la scrutò risentito.
    “Voglio il camion! Voglio il camion! Il camion!”
    “Ma tu guarda se quelli, pur di vendere le loro insulse bambole platinate, si vanno a inventare pure una Barbie camionista! Non è per niente femminile.” borbottò, cercando di staccare la figlia, il giornale ormai irrimediabilmente spiegazzato.
    La piccola assunse un’espressione interrogativa: non sapeva cosa fosse una ‘camionista’.
    “Io lo voglio lo stesso!” esclamò, strattonando con energia la stoffa del pigiama del padre e rischiando di strappare anche qualche bottone.
    “Va bene, va bene.” si arrese per finta Raphael, tanto per calmarla e scollarsela di dosso.
    “Allora me lo compri?” domandò nuovamente speranzosa.
    “Sì sì.”
    “Sìììììììì!” urlò felice e abbracciò l’uomo, che sbuffò e percepì un minuscolo e quasi insignificante senso di colpa serpeggiare nei meandri della sua anima. “Ti voglio bene, papà!”
    “Mh, anch’io te ne voglio, pulcino. Sei la mia figlia femmina preferita.” le sorrise, spettinandole con una mano i capelli.
    Margareth rise, ma subito dopo tornò seria. “Perché, quante ne hai?”
    Ad Alicia andò di traverso il caffelatte e cominciò a tossire, dandosi poi piccoli colpi sul petto con la speranza di riguadagnare presto l’ossigeno.
    “Eh, sapessi…” ghignò Raphael, tirandole un buffetto giocoso sulla guancia.
    “Mamma!” chiamò lamentosa, sporgendosi verso la donna.
    “Non badare a quello che dice, Maggy.” altro colpo di tosse. “Scherza.”
    Il biondo stese le labbra in un sorriso enigmatico e trangugiò il caffè.
    “E lo sai chi è la mamma?” le bisbigliò in tono complice all’orecchio.
    “No, chi è?”
    “E’ la mia moglie preferita. E chi è la tua mamma preferita?”
    La bambina ridacchiò, proferì un rapido “Lei!” e scese dalle ginocchia del padre per correre ad abbracciare la madre.

    Alla fine le aveva comprato il camion che desiderava tanto, anche se la settimana successiva se n’era uscita dicendo che il padre della sua amica Melinda le aveva acquistato la nuovissima villa con piscina con tanto di ascensore e armadio-guardaroba di Barbie, appena lanciato sul mercato, e che lo voleva anche lei per non rimanere indietro.
    Scosse il capo e uscì dalla camera. Mancava soltanto di dare l’aspirapolvere e le pulizie settimanali potevano considerarsi concluse. Ed erano soltanto le undici di domenica mattina. Per fortuna lavorava anche il sabato, così non era costretto a passare più di un giorno intero a casa.
    Alle tre del pomeriggio era già seduto sul divano color panna davanti alla televisione, stavano trasmettendo una fiction poliziesca che a Raphael non interessava minimamente, perché lui apparteneva all’elitaria categoria di quelli che credono fermamente che il colpevole sia sempre e comunque del maggiordomo. Ergo, tutte quelle supposizioni assurde e contorte campate in aria e quelle analisi scientifiche portate avanti da un’equipe di finti professionisti cervelloni non scalfivano neanche di striscio le sue ferree convinzioni in materia di gialli.
    Le tapparelle erano abbassate e, nonostante fuori fosse una giornata tiepida e soleggiata, pochissimi raggi di luce filtravano attraverso di esse, illuminando appena il salotto immerso nella penombra.
    A Raphael piaceva così. Si sentiva al sicuro, al riparo, nemmeno lui sapeva da cosa. Il divano si trovava in mezzo alla stanza e la televisione davanti alla portafinestra che dava direttamente su un piccolo giardino interno di sua proprietà. Però ormai da tempo nessuno ci metteva più piede, quindi le erbacce erano cresciute talmente tanto da dare l’impressione di trovarsi in una selva. Alle sue spalle, sul treppiedi posto accanto alla parete soleva trovarsi un vaso di fiori freschi, così come sul tavolo di cucina e sul quello tra il divano e lo schermo, ma anche sulle mensole della libreria della sala e sui balconi delle finestre. Alicia amava i fiori, ma soprattutto adorava i colori vivaci, e sembrava possedesse pure un eccellente pollice verde.
    Adesso, invece, la casa appariva spoglia e priva di quel non-so-che tipico delle dimore vissute, quel tocco speciale che riflette la personalità del padrone. O meglio, l’assenza di ciò era essa stessa simbolo rivelatore dell’indole di Raphael, perché l’ambiente che lo circondava e in cui lui amava rifugiarsi rispecchiava il suo stato d’animo alla perfezione.
    Detta in parole povere: una grande tristezza.
    Ma lui si ostinava a dire che andava tutto bene, che stava bene e che sarebbe stato bene. Lo diceva sorridendo, con quell’espressione mite e gentile che tanto lo caratterizzava, tant’è che gli amici che talvolta lo andavano a trovare restavano spiazzati e indecisi fra il credergli o il fingere di farlo.
    Comportandosi in tal modo, tuttavia, non faceva altro che allontanare le persone care, frapponendo tra sé e loro un muro invalicabile fatto di dolore e solitudine, nonché orgoglio. Poiché spesso Raphael si crogiolava inconsciamente nell’idea che nessuno era in grado di capirlo, nessuno poteva neanche immaginare cosa stesse provando e cosa aveva passato. Ci sguazzava dentro, in questi pensieri, e nel suo scivolare verso le profondità del baratro, al contempo si elevava autonomamente ad un livello superiore rispetto ad amici e conoscenti, sempliciotti che non sapevano neanche lontanamente cosa fosse la vera disperazione. E in seguito si sentiva in colpa per aver solo formulato tali riflessioni malsane e velenose nei confronti di qualcuno che lo amava. Il tutto in un susseguirsi ripetitivo di ossessivi percorsi mentali, a volte privi di logica, dettati soltanto dall’angoscia e da quel tarlo molesto e soffocante chiamato ‘rimpianto’.
    Le ore trascorsero lente, scandite dal ticchettio dell’orologio che indossava al polso e dai programmi trasmessi in televisione. Alle sei e un quarto, inaspettatamente, il campanello suonò, facendolo sobbalzare e provocandogli un principio di infarto. Assunse un’aria perplessa e si alzò per andare ad aprire, affatto contento di quell’interruzione che aveva squarciato brutalmente la placidità e il silenzio a cui era tanto affezionato. E non era per niente preparato alla visita di quella persona.
    “Raphael! Quanto tempo! Vieni, fatti dare un bacio.”
    Una donna sulla quarantina, alta, elegante, con i capelli scuri, folti e mossi, raccolti in un coda bassa e due occhi simili a pozzi d’inchiostro, gli saltò al collo e gli stampò due sonori baci sulle guance, senza preoccuparsi di macchiarlo col rossetto di una sfumatura sanguigna.
    “Glenda… che ci fai qui?” balbettò smarrito, pulendosi la faccia con il dorso di una mano e rifiutandosi di cedere il passo all’ospite.
    “Ma come, non mi fai entrare? Sono più di quattro mesi che non ci vediamo e non rispondi mai alle mie telefonate. Quindi, eccomi qui! Ho deciso di farti un’improvvisata.” gli rivolse un sorriso caldo e sincero, da pubblicità di un dentifricio, e lo scostò senza troppe cerimonie.
    Posò la borsa sul cassettone nell’ingresso e si lisciò il vestito attillato di cotone beige, che si sposava divinamente con la sua carnagione olivastra e la silhouette da modella.
    “Glenda, non è il momento.” tentò di dissuaderla, invano.
    “Oh, Raphael, fosse per te non sarebbe mai il momento! E vedo che la situazione, qui, non è cambiata di una virgola…” lo apostrofò sconsolata e avanzò in equilibrio sui tacchi a spillo in salotto, fermandosi davanti alle finestre.
    Aprì i vetri e tirò su le tapparelle, inondando della luce aranciata del tardo pomeriggio ogni anfratto della stanza.
    “Che stai facendo?” le chiese, infastidito da tutta quella confidenza inopportuna e dal quel suo modo di fare impulsivo e, a suo avviso, maleducato. Insomma, non è cortese invadere senza permesso gli spazi altrui e Raphael era molto geloso dei suoi.
    “Non lo vedi da te? Tutto questo buio non ti fa bene alla salute.” lo liquidò la donna con un gesto secco della mano. Poi tornò a prendere la borsa, ne estrasse una scatola recante la scritta di una famosa pasticceria e gliela porse.
    “E guarda cosa ti ho portato! Un regalino! È una sciocchezza, caro, non ringraziarmi.” gli accarezzò brevemente una spalla e gli appioppò con malagrazia la confezione di cioccolatini fra le braccia.
    “Lo sai che odio i dolci.”
    “Non è mai troppo tardi per cambiare idea, tesoro.”
    “Io non voglio cambiare idea, Glenda! Non puoi manipolare i gusti della gente!”
    “Sono a capo di un’agenzia di moda, è il mio lavoro. Detto io le regole e decido io cosa piace e cosa non piace. Perciò, tu mangerai quei cioccolatini, perché non esiste nulla al mondo più squisito del cacao.”
    Raphael scrollò la testa e posò la scatola in cucina.
    “Posso offrirti qualcosa?”
    “Una tisana, grazie.” gli rispose, mentre si accomodava tranquillamente sul divano e cominciava a fare zapping con il telecomando.
    “Ho solo del caffè.”
    “Ah, il caffè! C’è stato un periodo in cui me lo sognavo la notte, esattamente quando il mio terapista mi consigliò di darci un taglio. Tu non immagini cosa sia la crisi di astinenza. Volevo iniettarmelo in vena. Pensa che anche il sesso passò in secondo piano! Ma no, non cederò alla tentazione, altrimenti sento che tutti i soldi che ho sborsato per quelle fottute sedute avrei anche potuto gettarli nel cesso. Per non parlare di Roger, è già schizzato per conto suo, non serve che mi ci metta anche io.”
    L’uomo ascoltò gli sproloqui della sua ospite con un sopracciglio inarcato, ma lasciò cadere il discorso bevande.
    “Comunque,” continuò Glenda, “questa casa fa schifo.”
    “Grazie, sei sempre gentile.”
    “No, intendo… insomma, manca un tocco femminile.”
    “Glenda, smettila.”
    “Lo so che sei ancora attaccato a mia sorella, lo capisco, e Dio solo sa quanto ancora piango se penso a lei. Però, Raphael, sono passati tre anni. Secondo me è giunto il momento di-”
    “Smettila!” tuonò l’altro, fulminandola con lo sguardo. “Smettila. Tu non sai niente.” le sibilò incattivito. “E non apprezzo le tue visite, né le telefonate assillanti con cui mi bombardi trenta volte a settimana.”
    “Oh, certo! Perché tu sai tutto!” Glenda incrociò le braccia sul petto e girò il viso dalla parte opposta, offesa per le parole crude di Raphael.
    Questi sospirò e si sforzò di restare calmo.
    “Perché sei qui? Cosa vuoi?”
    “Diavolo, Raphael!” sbottò alzandosi e raggiungendolo inferocita. “Non posso preoccuparmi per te? È forse peccato essere in apprensione per il marito della tua defunta sorella? Sei tu che non capisci!” strepitò piccata.
    Si avvicinò e gli sfiorò la guancia, ma il biondo si ritrasse come scottato. La donna non demorse e prese a gesticolare.
    “Condividiamo lo stesso dolore, la stessa perdita. Alicia è insostituibile, ha lasciato un vuoto incolmabile, ma… bisogna andare avanti. Non ci guadagni nulla a rimanertene chiuso in casa, con l’insulsa convinzione che queste quattro mura possano proteggerti dal mondo che c’è là fuori, dalla realtà.”
    “Mi stai forse facendo una lezioncina? Vuoi insegnarmi come vivere la mia vita? Proprio tu, che ne vivi una disastrosa, con un marito adultero e due figli che tra poco non riconoscono più la loro madre, dato che questa passa la maggior parte del tempo in un ufficio a parlare di vestiti o in compagnia di uno strizzacervelli…”
    Lo schiaffo arrivò inatteso e violento come una secchiata d’acqua gelida. Raphael avvertì la guancia destra pizzicare e un lieve bruciore gli si diffuse sulla pelle. Serrò le labbra e distolse gli occhi da quelli lucidi di Glenda.
    “Sei uno stronzo.” gli disse con voce strozzata. “Sei un grande, emerito stronzo.” scandì gelida. Si voltò e camminò in tondo per un po’, cercando di fermare l’ondata di lacrime che minacciavano di sbavarle il trucco.
    L’uomo comprese di aver esagerato, accecato com’era da un immotivato rancore e dall’irritazione per aver accolto in casa un uragano che profumava di Chanel n.5. Eppure, non riusciva a chiedere scusa, le parole erano bloccate in gola.
    “Cazzo… io…” singhiozzò la mora, respirando a fondo per placare il battito del suo cuore. “Io vengo qui, con l’intenzione di tirarti un po’ su di morale, e guarda come vengo trattata… Neanche fossi io la causa della morte di Alicia.”
    “Glenda…” mormorò incerto.
    “No, niente Glenda!” esclamò fronteggiandolo nuovamente. “Io cerco di essere disponibile, carina, gentile, simpatica, energica, e puntualmente mi viene sbattuta la porta in faccia! Credi che standotene qui a commiserarti e a frignare sui ricordi ti arricchisca dentro? Io almeno faccio qualcosa per risolvere i miei problemi, io ci provo. Pensi che mi piaccia farmi analizzare? Pensi che gioisca nel sapere che mio marito mi tradisce? E che non c’è nulla che io possa fare per tornare nelle sue grazie? Ho provato con il sesso, con i weekend al mare e tanto sesso, con le cene, tutto, cazzo! Ma lui no, lui corre dall’amante accampando scuse come riunioni di lavoro e simili!”
    “Glenda…”
    “Sta’ zitto!” gridò stridula, puntandogli contro un dito completo di unghia smaltata di fresco dall’estetista. “Secondo te provo felicità nel notare che i miei figli non mi cercano più per leggere loro una fiaba prima di andare a letto, che stanno fissi davanti allo schermo del computer, che preferiscono stare da amici piuttosto che a casa loro, con la loro madre?” si tamponò le lacrime con i polpastrelli, stando attenta a non fare danni. “Ma a te non frega niente, vero? Io ho scelto di andare in terapia perché mi sono resa conto da sola che la mia vita fa schifo, grazie tante per avermelo ricordato!”
    Raphael sospirò e si grattò il collo, a disagio.
    “Io almeno ho preso in mano questo schifo di vita e mi sto facendo in quattro per non crollare. Non prendo antidepressivi o qualunque altro cazzo di farmaco, non affogo i miei problemi nell’alcool e non mi chiudo in casa a fare l’eremita e ad abbrutirmi di fronte a qualche fottuta soap opera. Ho un lavoro che mi permette di avere uno stipendio da capogiro e attualmente è l’unica cosa che mi realizza. Ma questo non significa che la vita che conduco sia tutta rose e fiori. Anch’io soffro, anch’io molto spesso mi sento infelice e disperata. Mi domando che ne è stato della Glenda agguerrita e piena di sogni e voglia di vivere che al liceo spopolava così tanto da far cadere ai suoi piedi ogni esponente di sesso maschile e così perfetta e raggiante da provocare invidia e ammirazione nelle donne. Cosa direbbero, se vedessero come mi sono ridotta?” si massaggiò la fronte. “Ciò che voglio sapere, Raphael, è di cosa sei geloso. Perché ti sto antipatica?”
    “Io… ecco…” bofonchiò impacciato, vagando con sguardo febbrile da un soprammobile all’altro.
    “Che cosa stai facendo? Tua moglie è morta. Tua figlia pure. È stato un incidente e tu non potevi farci niente.”
    “Ti sbagli.” i suoi occhi si indurirono.
    “Eh?”
    “Dovevo esserci io, su quell’auto. Con Maggy.”
    “Che vuoi dire?” chiese confusa.
    “Quel pomeriggio Maggy partecipava ad una merenda organizzata dalla scuola. Festeggiavano il compleanno della sua amica Melinda. Spettava a me andare a prenderla all’ora prestabilita, invece mi si presentò un problema al lavoro, un cliente non era soddisfatto del mio progetto, così dovetti trattenermi in studio per discutere con lui al telefono. Scrissi un messaggio ad Alicia e mandai lei a prendere nostra figlia.” i muscoli del viso si contrassero in un istante e un’espressione addolorata lo prese d’assedio. “Avrei dovuto esserci io al volante. Invece… Alicia…”
    “Allora immagina come si sarebbe sentita Alicia, se ora fosse stata al tuo posto. Come credi che l’avrebbe presa? L’avresti lasciata sola.”
    Il biondo andò a sedersi sul divano e si nascose la faccia fra le mani.
    Glenda, sebbene contrita e dispiaciuta, poiché non aveva mai considerato che l’altro potesse nutrire questi logoranti sensi di colpa, si accomodò accanto a lui e gli cinse le spalle.
    “So che è difficile, ma ci devi provare. Ti voglio bene, sei una brava persona. Sei onesto, affettuoso, intelligente, pacato e anche bello. Non ti manca niente, solo un po’ di forza di volontà.”
    “La cosa più importante, in sostanza.” soffiò afflitto.
    “Naaa!” sorrise lei, strizzandolo per qualche secondo. “Prendi me!”
    “Cioè, mi stai implicitamente consigliando di farmi psicanalizzare?”
    “Potrebbe essere un’idea! Oppure potresti alzare la cornetta, una volta ogni tanto, e chiamarmi. Anche Harvey è preoccupato. Mi ha riferito che ti ha letteralmente intasato la segreteria telefonica, ma non hai mai risposto neanche a lui. E sai quanto ci tiene a te.” lo rimproverò bonariamente.
    “Lo so.”
    “Che diamine, allora chiamalo!”
    “E’ che…”
    “Che?”
    “Non lo so… voglio restare solo ancora per un po’.”
    “Raphael, sono tre anni che stai solo.” puntualizzò ironica.
    “Sì, però…”
    “Ahhh! Basta, mi sono stufata di starti ad ascoltare. In certe occasioni sai dimostrarti davvero noioso ed esasperante. Tira fuori un po’ di grinta! Siamo ancora giovani, nonostante le rughe e i primi capelli bianchi!”
    “Hey, parla per te!”
    Quella scattò in piedi ignorandolo e si diresse verso la borsa firmata. “Ora devo andare, sono in ritardo. Ho promesso a Rose e Jack che avrei preparato le patate al forno con la panna per cena, il loro piatto preferito. Ad ogni buon conto, il numero del mio analista te lo invio per e-mail nei prossimi giorni, non sia mai che tu possa averne bisogno davvero. E mangia quei dannati cioccolatini! Mi sono costati un occhio della testa.”
    Il biondo, suo malgrado, ridacchiò divertito e incrociò il suo sguardo. Negli occhi azzurri brillava una scintilla di gratitudine e Glenda seppe afferrare il messaggio.
    “Buonanotte, Raphael. Stammi bene.”
    “Anche tu.”
    La porta si chiuse con un tonfo e la casa ripiombò nel silenzio ovattato e a tratti assordante.
    Su una questione, la sorella maggiore di Alicia, aveva ragione: ossia la gelosia di Raphael. Egli era geloso della famiglia della mora, ma non per il fatto che fosse perfetta - era anzi un disastro su tutta la linea - quanto perché lei ce l’aveva, una famiglia. E non si rendeva conto dell’immenso dono, dell'enorme privilegio che gli era stato concesso. Per questo motivo, quando la incontrava, la rabbia cominciava a ribollire. Lui aveva perso tutto e, perdendolo, aveva compreso quanto fosse veramente importante. Glenda, al contrario, stava perdendo tutto e si affannava a cercare aiuti esterni quando in realtà tutto quello di cui necessitava era già dentro di lei, nel suo naturale amore materno. Questo per quanto concerneva i figli. Il marito Roger era un’altra storia.
    Erano le undici, quando iniziò a ponderare seriamente l’idea di alzarsi, anche se il suo corpo non pareva condividerla. Sul tavolino di vetro plastificato davanti alla televisione, una confezione di cioccolatini vuota e abbandonata faceva bella mostra di sé, mentre un uomo con un’aria stanca, stravaccato sul divano, percepiva i primi crampi allo stomaco dovuti al troppo cioccolato ingerito.
    Sarebbe stata una lunga nottata. E lo sconforto crebbe quando realizzò che l’indomani avrebbe dovuto ripresentarsi sul posto di lavoro.
    I dolci lo tramutavano in una creatura estremamente pigra e sonnacchiosa, per questo non li mangiava mai.

    “Buon dì, mastro Raphael.” lo salutò cordialmente Anthony non appena varcò la soglia della biblioteca, ancora chiusa.
    “Buongiorno a lei, signor Jills.” gli sorrise affettato e si trincerò subito dietro la scrivania della reception.
    “Qualcosa vi turba, mastro Raphael?”
    Il biondo restò interdetto per un attimo. “No… no, signor Jills, va tutto bene. Grazie.”
    “Non sono persuaso…”
    “Per favore, si metta al lavoro.”
    “Bah…” Anthony biascicò qualcosa di indefinito e riprese a dare il cencio sul pavimento di marmo bianco.
    Aveva riflettuto tutta la notte sul litigio avuto con Glenda e non poteva esimersi dal sentirsi amareggiato e avvilito. Non era mai stato egocentrico o maleducato, la sua condotta integerrima gli aveva sempre aperto molte strade, gli aveva procurato molti amici e persino l’amore. Adesso non si riconosceva più.
    Sempre in pace con se stesso e il mondo intero, pur essendo introverso e timido, non aveva mai assunto atteggiamenti scostanti, freddi, che potevano arrecare dolore o fastidio nel prossimo. Non era nella sua natura. Tuttavia, doveva ammettere che negli ultimi anni era cambiato, e in peggio. Non si piaceva, ma non riusciva più a contemplare un diverso modo di essere, come se la persona che era stata prima non fosse che un fosco ricordo di qualcuno che non era mai esistito.
    Gli venne da domandarsi il perché.
    La giornata passò e Raphael svolse i suoi compiti in maniera impeccabile, come al solito. Soltanto un paio d’ore prima della chiusura serale si permise di distrarsi, per pochi minuti, sia chiaro.
    Quando una familiare testa rossa e scarmigliata fece il suo ingresso dalla porta a vetri scorrevole dell’atrio, i suoi occhi ruotarono dallo schermo del computer a quel ragazzino che vestiva abiti sgargianti come un pugno in un occhio. Aveva un qualcosa di selvatico, come un felino non addomesticato, complice lo sguardo penetrante verde bosco, così raro da vedere. Ogni volta che quell’adolescente lo fissava come se volesse sondarlo e mettere a nudo la sua anima, si sentiva terribilmente a disagio, vulnerabile, trasparente. E detestava queste emozioni.
    Era consapevole di non avere il diritto e nemmeno una ragione logica per provare dell’astio nei suoi confronti, però, sul serio, gli veniva naturale. Come un meccanismo inconscio di rifiuto atto a fungere da difesa contro eventuali attacchi. Ma fino ad allora, per due anni, il ragazzino non aveva mai fatto niente, a malapena gli aveva rivolto la parola.
    Raphael lo trovava eccentrico, fuori dagli schemi, curioso. E non capiva perché lo scrutasse in quel modo, profanando la sua maschera di normalità come il più crudele degli stupratori. Perché la crudeltà del rossino risiedeva nell’essere probabilmente ignaro del potere dei suoi occhi, nella totale innocenza e candore delle sue occhiate violente. E al contempo si dispiaceva nel pensar male di un individuo che non conosceva, dato che non era un tipo che si faceva trasportare e fuorviare dai pregiudizi o dalle apparenze.
    Passò la tessera del giovane sul dispositivo e, appena questo si illuminò di verde, gliela porse indietro facendogli un rapido cenno del capo.
    L’altro lo squadrò intensamente un’ultima volta, prima di dileguarsi nei corridoi della biblioteca. E, come ogni volta, Raphael piegò leggermente la testa nella sua direzione, inspirando di nascosto a pieni polmoni: il ragazzo profumava sempre di fiori, pareva ammantato perennemente da una fragranza unica e inebriante.
    L’uomo si morse il labbro inferiore con i denti e si costrinse ad archiviare tutte le immagini che il suo cervello gli stava proponendo, compresa quella di una donna con un caschetto nero che annusava deliziata delle rose gialle da un vaso di porcellana, un dolce sorriso sulle labbra carnose.
    Alan Becker. Così si chiamava quello che da due anni ormai era diventato un habitué, lì in biblioteca. Diciotto anni. Residente in città.
    D’altronde, era stato lui stesso a stampargli la tessera e a fargli compilare i moduli per l’iscrizione come socio.
    Ma non si spiegava come mai proprio lui avesse attirato il suo interesse. Il biondo, da quando era stato assunto, aveva imparato ad intrattenersi studiando puntigliosamente tutte le persone che venivano più di frequente, memorizzando quanti più dettagli poteva per abbozzare uno stilizzato quadro psicologico di ognuno.
    C’era ‘Mister sono cieco come una talpa, ma non voglio portare gli occhiali’, ‘Mrs maglioni di lana di pecora’, ‘Mister mi piace accarezzarmi la pappagorgia’, ‘Mister sono qui per evitare di stare a casa con mia moglie’, ‘Miss secchiona con tanti sogni e poco sesso’, ‘Mister professore di lettere antiche fallito’, e così via.
    Alan era ‘Adolescente problematico e orribilmente colorato’. Non aveva idea di cosa venisse a farci in biblioteca, perché non aveva l’aria di qualcuno a cui piace leggere. Una volta entrato, spariva chissà dove, per poi ripalesarsi pochi minuti prima della chiusura. Non che gli interessasse, intendiamoci, solo che si sentiva svantaggiato, in un certo qual modo. Alan pareva riuscire a scorgere il suo io al di là della sua corazza, mentre per lui risultava ancora un’impresa, e tale fatto lo poneva ad un livello inferiore. Non poteva accettarlo.
    “Mastro Raphael, permette una parola?”
    La voce lievemente gracchiante di Anthony, sicuramente causata da una gola e dei polmoni messi a dura prova dal fumo, lo riportò con i piedi per terra e lo schianto fu metaforicamente fragoroso.
    “S-sì?” fece stralunato.
    “Giacché nell’odierna serata dovrei far ritorno alla mia vetusta dimora anticipatamente, mi fareste la grazia di virar le luci dabbasso, allorché sprangate i battenti?”
    “Certo, signor Jills, nessun problema.”
    “Ve ne sono grato. Sapete, la mia adorata e insopportabile consorte mi intimò al mattino d’esser lesto nel redire, la cagione m’è ignota.”
    “Non si preoccupi, vada pure a casa. Ci penso io.”
    “Buonanotte, mastro Raphael.”
    “Buonanotte.”
    Picchiettò con le dita sulla tastiera, le labbra strette in una linea retta e gli occhi che prudevano dietro le lenti degli occhiali. Non ricordava più cosa si prova ad avere una moglie che ti aspetta a casa per la cena.
    Non se lo ricordava. Ed era straziante.
  10. .
    Wow beh direi che il seguito veramente moooooooooooooooooooooolto bello. brave ragazze^_^
  11. .
    quanto ho amato questa storia.
    Graz per averla pubblicata anche quì. la rileggerò con immenso piacere. :D
  12. .
    Ma quante risate che mi era fatta ai tempi!!!
    immaginavo queste ragazze che confabulavano alle spalle di quel povero Michele , che poi tanto povero non è visto il finale.
    Sere non ti smentisci, grazie di averla proposta anche quì, un abbraccio !!!!
  13. .
    Io questa storia la conosco e ci sono molto legata.
    Rileggerla sarà solo un piacere e poi grazie a questa ti ho conosciuta come autrice. :)
  14. .
    ma che bella ^_^ , grazie ragazze.
    L'ho letta proprio adesso e mi è piaciuta tantissimo.
    Ne aspettiamo altre

    Bacione ^_^

    Ps un piccolo accorgimento che capita spesso a me, occhio agli errori di distrazione!!!!!

    un bacio
  15. .
    Ciao ragazze, benevenute a nome mio e dello staff; grazie per aver accettato il mio invito .
    Non vediamo l'ora di leggere e commentare i vostri racconti.
    Buona permanenza nel nostro forum. :) :)
30 replies since 18/9/2010
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